Bimbi tolti ai genitori: ma è crudeltà o tutela?

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Il caso degli affidi illeciti a Bibbiano riapre gli interrogativi sul sistema di protezione dei piccoli. Il dibattito di Avvenire con sette esperti nel campo della tutela dei minori

Bambini dati in affidamento con procedure sospette, procedimenti viziati da metodi di ascolto suggestivo per non dire capzioso, famiglie senza diritto alla difesa. E poi servizi sociali appaltati a cooperative esterne, libere di agire in modo arbitrario, quasi senza controlli, consulenze tecniche d’ufficio affidate a psicologi e pedagogisti che ignorano le linee guida degli ordini professionali, giudici onorari in sospetto di conflitto d’interesse per aver ricoperto incarichi nelle strutture d’accoglienza a cui loro stessi destinano i minori allontanati dalle famiglie. Cosa sta succedendo al nostro sistema di tutela dei minori? Il caso Reggio Emilia è isolato o ha rivelato prassi diffuse, una routine orientata al peggio che produce ingiustizie e sofferenze?

 

Per riflettere su vizi e virtù del nostro diritto minorile abbiamo chiesto aiuto agli addetti ai lavori, giudici, magistrati, avvocati, neuropsichiatri infantili. Giovedì scorso, per quasi tre ore, hanno discusso con noi Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano; Ciro Cascone, procuratore capo della Procura per i minorenni di Milano; Patrizia Micai, avvocato, Reggio Emilia; Rosanna Fanelli, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio; Luisa Francioli, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano; Maria Carla Barbarito, avvocato di Milano, curatore speciale minori; Stefano Benzoni, neuropsichiatra, Policlinico di Milano. A condurre il dibattito, dopo l’introduzione del direttore Marco Tarquinio, alcuni giornalisti di “Avvenire”.
MARIA CARLA GATTO, presidente Tribunale minorenni Milano: «I numeri ci dicono che non abbiamo bisogno di trovare bambini da mettere in famiglie, ma di famiglie affidatarie disponibili ad accogliere i bambini. L’ultimo dato disponibile dei bambini fuori casa è del 2014: in Italia 2,6 minori per mille residenti, uno dei dati più bassi in Europa. Dobbiamo capovolgere l’assioma. E quando i bambini non possono essere collocati in famiglia vanno inevitabilmente in comunità. Chi decide quando? Arriva la segnalazione dalla società civile ma, tra tutte le segnalazioni che arrivano alla Procura, meno della metà arrivano al Tribunale. Da qui partono i procedimenti e si mandano le segnalazioni alle parti, sulla base del giusto processo. Ci sono situazioni di emergenza, violenza, abusi, abbandoni, in cui l’urgenza impone di abbreviare i tempi. In ogni caso gli interventi sono sempre complessi e delicati, e hanno bisogno di competenza e di specializzazione. Ma non ci può essere specializzazione e competenza se non c’è formazione: questo problema riguarda tutti, autorità giudiziaria, servizi sociali, magistrati, avvocati.
Altro problema è la delega a terzi dei servizi. «Non è certo garanzia né di specializzazione né di competenza. E questo è un profilo su cui dobbiamo confrontarci. Perché in situazioni complesse, come quelle evidenziate nelle famiglie fragili, che si inseriscono in una realtà complessa come la nostra società, tutto diventa difficilissimo, compresa l’educazione dei figli. Il tribunale per i minorenni cerca di ‘fare la regia’ di queste situazioni di fragilità, con l’obiettivo di ridurre quanto più possibile i casi di allontanamento».
Le famiglie sono adeguatamente rappresentate? «Noi a Milano cerchiamo fin dal primo momento di impostare il procedimento sulla base del giusto processo, offrendo cioè alle famiglie ampie possibilità di contraddittorio. Certo, perché tutto funzioni al meglio è necessario che ogni tribunale abbia risorse e personale adeguato, ma quasi sempre non è così, gli organici sono assolutamente insufficienti. Quante volte non possiamo fare notifiche perché non abbiamo personale sufficiente! Segnalare queste carenze al ministero? L’abbiamo fatto decine e decine di volte. Non ci rispondono neppure».
Eppure non dobbiamo mollare. «Dobbiamo lavorare tutti insieme, schierarci dalla parte delle famiglie e dei bambini, ricercare ‘con’ i genitori e non ‘contro’ i genitori, soluzioni accettabili e condivise da tutti. Il criterio di fondo dev’essere chiaro: sostenere le famiglie per quanto possibile all’interno delle famiglie stesse. Il mio successo di giudice minorile è quello di lasciare il bambino all’interno della propria famiglia, aiutandola a superare i momenti di difficoltà. Purtroppo, però, non sempre è possibile».
LE SUE PROPOSTE:
1) Garanzia di giusto processo nel procedimento minorile: l’assenza di norme chiare che regolamentino le varie fasi non dipende da noi ma dal legislatore.
2) Abolire il Tribunale per i minorenni e istituire invece il Tribunale della famiglia? No, non basterebbe. Vorrebbe dire perdere la specializzazione messa insieme in tanti anni. L’esternalizzazione dei servizi invece ha fatto decadere il livello: le gare si fanno sempre al ribasso.
3) Procedure più adeguate e tempi certi nella giustizia minorile sono la mia battaglia.
CIRO CASCONE, procuratore della Procura minorenni di Milano: «Se avessimo sufficienti famiglie affidatarie, le comunità non avrebbero motivo di esistere. I dati? Sono quelli del Garante Infanzia».
Modificare l’articolo 403, che dà troppo potere ai servizi sociali nell’allontanare i bambini dalle famiglie? «La norma (articolo 403) è del 1941 e non è mai stata modificata, varie proposte di riforma non hanno mai trovato le convergenze necessarie e alla fine tutto è rimasto uguale. Anche l’Associazione italiana dei magistrati minorili (Aimmf) ha presentato una proposta articolata per superare questo problema, ma siamo ancora fermi. Certo, ci sono situazioni che impongono all’autorità pubblica di intervenire in tempi rapidi per risolvere situazioni di emergenza e gli interventi non si possono rimandare: la legge non prescrive in quei casi di segnalare l’intervento alla Procura dei minorenni, così in alcuni casi avviene – a Milano sempre – in altri no».
Non sarebbe quindi urgente prevedere una procedura univoca, con tempi certi, valida per tutti i tribunali? «Certamente sì, ma per farlo occorre modificare la legge. Attenzione, però, stiamo parlando di pochi casi all’anno, a Milano (ovvero tutta la Lombardia ovest) circa cento l’anno. Nel 2018, su 7.100 segnalazioni, abbiamo aperto circa 2.500 procedimenti e le richieste di limitazione della responsabilità genitoriale sono state poco più di mille».
L’ingerenza dei servizi nelle vite familiari non è esagerata? «Quando c’è il fondato sospetto, o addirittura dati di fatto, che dicono che in quella casa i bambini vivono in mezzo ai topi, l’ingerenza è necessaria».
Ci sono però disfunzioni in questa procedura? «Sì, a cominciare dall’art. 1 della legge 184, al punto in cui si dice che se ci sono problemi familiari che non garantiscono il diritto del minore a vivere in famiglia, lo Stato deve intervenire con sostegni ‘nei limiti delle risorse disponibili’. E le risorse non sono mai sufficienti. Ogni giorno facciamo un lungo elenco di richieste ai servizi e la risposta è sempre quella: ‘Non ci sono le risorse’». Il fondato sospetto non porta a volte ad allontanamenti poco motivati? «Il ‘fondato sospetto’ mi deve spingere ad aprire l’inchiesta: di fronte alla relazione di un assistente sociale, il compito del procuratore è sempre quello di verificare i fatti, capire se è davvero capitato quello che mi sta descrivendo. E poi devo chiedermi: partendo dai dati che ho messo insieme, com’è possibile ricostruire una relazione? Perché questo rimane l’obiettivo di tutto il nostro sistema».
LE SUE PROPOSTE:
1) Più risorse per i servizi, per la famiglia e l’infanzia. Risorse anche per l’autorità giudiziaria e, in particolare, per l’informatizzazione dei dati.
2) La normativa oggi lacunosa deve prevedere meglio ciò che oggi, in alcuni tribunali, si fa per prassi costituzionalmente orientata.
3) Tribunale per i minorenni sì o no? Forse prima dobbiamo chiederci: possiamo arrivare a un Tribunale della famiglia e delle persone con la stessa elevata specializzazione che abbiamo nei Tribunali per i minorenni? Oggi il problema è che ci siano più giudici che hanno competenze quasi identiche sui minori.
PATRIZIA MICAI, avvocato a Reggio Emilia: «È grave che non esista una banca dati nazionale. Per raccogliere i dati sui minori fuori casa abbiamo tre fonti diverse, dunque la raccolta non è omogenea».
Quanto al super potere degli assistenti sociali? «A me pare che il loro potere sia fuori controllo. Un potere di fronte al quale le famiglie non hanno quasi possibilità di intervento. O meglio, la possibilità ci sarebbe, la querela di parte contro l’operato dei servizi stessi, ma per questo la famiglia deve pagare un avvocato, con costi e tempi tutt’altro che certi. Ricordo che non c’è un contraddittorio paritetico fin dall’inizio e questo mina alla base il diritto di difesa da parte della famiglia. Non si può rispondere ogni volta con una querela per falso e così i provvedimenti, anche quelli urgenti, sono in teoria provvisori ma diventano invece lunghissimi, anni e anni. Se nel diritto penale il pm ha 48 ore per confermare il fermo, non si vede perché nel diritto minorile non si debba avere la stessa fretta: quando un errore riguardo a un bambino, la famiglia viene distrutta. Quindi possiamo dirlo: ci sono termini troppo discrezionali. Dobbiamo lavorare tutti insieme per modificarli».
Per quanto riguarda il metodo di interrogatorio dei minori, è corretto parlare di protocolli troppo generici? «Occorre senza dubbio fare chiarezza. Esistono linee guida rigorose, c’è la Carta di Noto, ma purtroppo non si è obbligati a seguirla, tanto che si sono varie associazioni legate al Cismai che usano il metodo del ‘disvelamento progressivo’ e in alcune regioni queste posizioni culturali sono preponderanti».
Sostenere le famiglie, anziché allontanare i minori: si fa davvero di tutto? «Benissimo parlare di recupero delle risorse familiari, quando è possibile. Ma dobbiamo essere tutti d’accordo nel perseguire questo intento positivo: giudici, avvocati, psicologici e assistenti sociali. Non sempre è così scontato».
Com’è possibile che a genitori assolti nel penale siano comunque sottratti i figli? «L’inadeguatezza del sistema si traduce anche in queste situazioni di contraddittorietà. Spesso tra giudizio penale e civile ci sono sentenze inconciliabili, e allora per mia esperienza diventa difficile riuscire a capire le decisioni di un Tribunale per i minorenni, non solo rispetto alla sentenza, ma anche rispetto al merito. E quando c’è questa contraddittorietà si creano situazioni difficilmente gestibili. Nel caso delle adozioni, per esempio. Quando, dopo anni, si riconosce l’ingiustizia di una condanna inflitta a un genitore a cui erano stati tolti i figli, come facciamo a riprendere quei minori e a ributtarli nelle famiglie di origine? È talmente enorme questo dramma da richiedere una riflessione molto attenta. Come ci possono essere pronunciamenti così in contrasto? In uno Stato civile questo non può avvenire».
LE SUE PROPOSTE:
1) Giusto processo con contraddittorio paritetico per garantire il diritto alla difesa della famiglia. Oggi non c’è.
2) Soppressione del Tribunale per i minorenni e istituzione del Tribunale della famiglia con competenze specifiche anche degli avvocati.
3) Abolizione dell’articolo 403 del codice civile (allontanamento coatto dei figli dalla famiglia sulla base della valutazione dei servizi sociali).
ROSANNA FANELLI, avvocato, Bari-Roma, portavoce del Movimento 15 maggio (genitori separati): Mancano i dati, lo abbiamo detto. «Ma al di là dei numeri ci sono vite umane, non dimentichiamolo. E non dimentichiamo che l’Italia ha accumulato molte condanne dalla Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) proprio perché le nostre istituzioni si intromettono nella vita familiare in maniera spropositata, violando l’articolo 8 della Convenzione internazionale per i diritti dell’uomo».
Troppo potere agli assistenti sociali, dunque? «Certo, l’articolo 403 del Codice civile va sicuramente modificato. Io sono portavoce di un’associazione che raccoglie situazioni in cui l’indebita ingerenza dei servizi sociali nella vita delle famiglie è un dato assodato, non un’impressione. Non si tratta di errori giudiziari ma di orrori giudiziari, e le continue condanne della Cedu rappresentano un costo economico intollerabile per la collettività. Non possiamo trincerarci dietro il fatto che un ufficio funziona o non funziona: è il sistema nel suo complesso che non funziona».
L’esternalizzazione dei servizi è uno dei gravi problemi? «Certo, la norma è assolutamente da cambiare. Non si può dare a un soggetto che non fa parte dell’amministrazione pubblica, il potere di decidere la vita delle persone. I maltrattamenti dei bambini ci sono sempre stati, ed ovviamente esistono provvedimenti giustificati e tempestivi, ma ci sono anche bambini che non godono di queste attenzioni, che dopo essere stati maltrattati in famiglia continuano ad essere maltrattati nelle comunità. E ai quali per di più vengono recisi tutti i rapporti familiari. Noi avvocati ascoltiamo il dramma di questi bambini e cerchiamo di dare loro risposte, ma non sempre è possibile. Conosciamo situazioni limite, casi giudiziari assurdi, come quelli di bambini tolti alle famiglie per conflittualità coniugale di genitori già separati, ma queste sono ingerenze illecite. Stiamo lasciando troppo spazio a operatori, assistenti sociali, “ctu” (consulenti tecnici d’ufficio) che non hanno la competenza necessaria».
Le ingerenze quindi ci sono? «Quando un assistente sociale, o uno psicologo, stende una relazione e la manda a un giudice, quella diventa legge. E non c’è possibilità di cambiare le cose, se non a prezzo di sforzi terribili sul piano giudiziario e su quello economico. Conosciamo bene il ruolo di “perito peritorum” del magistrato, ma difficilmente un magistrato si prenderà la responsabilità di dissentire rispetto alla posizione del suo perito. E intanto passano anni e le posizioni si consolidano. Esistono casi noti e terribili».
LE SUE PROPOSTE:
1) Abolizione dell’articolo 403. E riappropriarsi dei ruoli e delle competenze delle varie professionalità.
2) Estendere e consolidare le garanzie: diritto alla difesa, contraddittorio paritetico nel rispetto del dettato costituzionale.
3) Estendere la qualità del lavoro giudiziario, con l’accertamento delle responsabilità, comprese le garanzie risarcitorie a favore delle famiglie in caso di giudizio errato.
LUISA FRANCIOLI, avvocato, responsabile legale Cam (Centro affidi minori) di Milano: ingerenza dei servizi sociali sulla famiglia? «Io l’ho vista solo quando è necessaria: nessuno desidera aprire un procedimento giudiziario per una volontà di ingerenza, si apre un caso quando c’è una situazione di pregiudizio. E gli allontanamenti in comunità sono sempre motivati, per le situazioni drammatiche, mentre in altre situazioni viene fatto solo dopo un’indagine».
Troppo potere ai servizi sociali? «Non mi pare, sono senz’altro i primi che intervengono e sono quelli che hanno il dovere di riferire ai giudici, ma non è che i giudici si attengono semplicemente a quello che riferiscono i servizi sociali, ci sono anche le relazioni dei consulenti, dei periti, eccetera. Non è una posizione univoca. D’altra parte sulle difficoltà, sull’incompetenza e sulle carenze d’organico siamo tutti d’accordo».
Quali allora le disfunzioni del sistema? «Anche il fatto che l’attività dei servizi sociali venga appaltata a cooperative esterne è un grosso problema. Sono invece in disaccordo sul fatto che le famiglie non siano adeguatamente rappresentate nel momento del contraddittorio».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse, altrimenti tutto continuerà a funzionare male.
2) Maggiore professionalità da parte di tutte le categorie.
3) Individuazione di un procedimento che dia maggiori garanzie, uguali tra tutte le procure italiane.
MARIA CARLA BARBARITO, avvocato a Milano, curatore speciale minori: «Non ho mai visto una volontà esplicita da parte degli avvocati o degli assistenti sociali di creare problemi o di ingerenza. Mi sono invece resa conto che c’è una differenza abissale tra procura e procura, tra regione e regione. Io personalmente non ho mai visto le situazioni marginali e drammatiche che sono state descritte stasera (l’inchiesta “Angeli e Demoni” di Reggio Emilia o “I Diavoli della Bassa” del Modenese, ndr)».
Eppure le falle del sistema sono emerse con drammaticità, in certi casi. «Sugli interventi necessari per rimediare alle falle, che certamente esistono, credo che qui siamo sulla strada giusta: dobbiamo fare fronte comune per arrivare a riconoscere in ogni caso il diritto di un contraddittorio paritetico e di difesa per le famiglie nel momento dell’allontanamento del bambino. Urgono poi tempi più rapidi per l’avvio del procedimento ed è necessario migliorare la competenza di tutti gli operatori, eliminando i conflitti di interesse. Poi certamente ci sono molti ambiti su cui non dobbiamo stancarci di lavorare, per esempio definire un maltrattamento è un fatto complicatissimo, che richiede mille cautele. Più aumenta la competenza, più si lavora in modo concorde, meglio è per tutti.
LE SUE PROPOSTE:
1) Una maggiore competenza di tutti nell’ascolto dei minori, con garanzie del contraddittorio e giusto processo.
2) Tempi certi e non eterni nei procedimenti.
3) Non credo che il Tribunale per i minorenni vada abolito. Occorrono invece molte più risorse.
STEFANO BENZONI, neuropsichiatra del Policlinico di Milano: «Non è un problema soltanto di giustizia, ma di società in generale e di politica. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un aumento esponenziale dei bambini che hanno problemi di carattere psichiatrico… e nello stesso tempo sono diminuite le risorse pubbliche per affrontare queste situazioni. Proprio mentre le famiglie sono sempre meno attrezzate per risolvere autonomamente i problemi. Se questa è la situazione generale, inevitabile che anche il sistema della giustizia minorile sia in sofferenza».
Ma lo stato di necessità coinvolge tutti, dagli assistenti sociali ai consulenti tecnici d’ufficio. «Non dimentichiamo che al centro di ogni accertamento ci devono sempre essere gli interessi del bambino e della famiglia. In queste settimane abbiamo letto critiche feroci ai metodi seguiti dai Servizi sociali di Reggio Emilia. Quando c’è in gioco la tutela di un bambino o l’ipotesi di un maltrattamento, un abuso, c’è in gioco un bene superiore. Ma un’indagine psicosociale presenta una complessità cento volte maggiore rispetto a un’indagine medica, perché ciò che vogliamo accertare è molto più fluido rispetto a una diagnosi di malattia. Stiamo parlando di questioni che profondamente attengono all’idea di vita buona rispetto ai valori particolari di ogni singola famiglia. Questa idea non è dicotomica: bianco o nero. Quindi rispondere alla domanda, “cos’è un’indagine psicosociale accurata su un minore?” merita rigore e complessità, non risposte urlate e violente. Chi opera in questo sistema non deve avere conflitti di interesse, deve seguire le linee guida nazionali per quanto riguarda gli interventi su famiglie e bambini in situazioni di vulnerabilità. Linee guida che sono rigorose e precise. Uno dei criteri fondamentali è quello di mettere al sempre al centro gli interessi e i valori della famiglia, senza ingerenze indebite».
Ma purtroppo non succede sempre così, non è vero? «No, purtroppo spesso prevalgono le cattive prassi, legate all’incompetenza, al degrado del sistema, ma anche alla scarsità di mezzi e alle routine negative. Dobbiamo saper rilevare le risorse delle famiglie, non solo i loro problemi, questa deve essere la finalità comune. Raccontare che l’obiettivo del sistema è quello di togliere i bambini alle famiglie diventa fuorviante».
I protocolli non sono troppo generici e quindi a rischio di interpretazioni arbitrarie? «Per fortuna che i protocolli sono generici, perché devono fornire principi e orientamenti metodologici: abbiamo capito che l’iperspecializzazione porta ad aberrazioni nel giudizio clinico. Ciò non vuol dire che non serva una preparazione specialistica, ma il linguaggio tecnico deve servire a migliorare il contatto umano. Un lavoro di esplorazione di storia familiare costruita in termini partecipativi e collaborativi non si improvvisa, si costruisce se il professionista ha una specifica formazione all’ascolto attivo, se sa mettersi nei panni dell’altro. Nel campo dei maltrattamenti le sfumature sono infinite. Se mettiamo tra parentesi i fatti penali, una coppia di manager che trascura i figli, che non trova mai tempo di stare con loro, che li lascia davanti alla playstation con quattro tate diverse, è una coppia maltrattante anche se abita in un’attico di 400 metri quadrati o no? Ecco perché il concetto di maltrattamento è fluido. Ed ecco perché un’indagine psicosociale seria deve mettere in luce le carenze di una famiglia ma anche le sue risorse, i suoi punti di forza. E questo riguarda soprattutto le famiglie con fragilità. Se non ho una cultura positiva delle risorse delle persone, avrò sempre uno sguardo negativo sulle cose».
LE SUE PROPOSTE:
1) Maggiori risorse umane ed economiche
2) Un registro nazionale che ci dica quanti bambini sono in comunità, che esigenze e che punti di forza hanno.
3) Implementazione delle linee guida nazionali, che sono un vero patrimonio culturale del nostro sistema di accoglie