CARATTERISTICHE DELLA GENUINA FEDE CRISTIANA (Cesare Falletti)

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Il titolo dato a questo incontro ha molte pretese ed un campo troppo vasto per poter pensare di riuscire ad onorarlo anche solo in piccola parte. Toccherò, dunque, solo qualche punto, fra i tanti: quelli che mi sembra siano abbastanza urgenti e di cui si può prendere coscienza.

Il libro di Enzo Bianchi “Cristiani nella società” pone uno sguardo sull’attualità e nello stesso tempo apre a delle prospettive che possono certamente dirsi carismatiche, grandi sfide lucide, che penso occorra accogliere e raccogliere se non si vuole continuare a vivere nell’illusione che tutto va bene così e che tutto può o deve continuare così. L’onestà è una virtù “porta” della vita cristiana; senza di essa non si può neppure cominciare a parlare di Vangelo. E l’onestà ci fa riconoscere continuamente che non siamo ancora convertiti, né come singoli né come Chiesa. La conversione è ciò che Gesù ha cominciato a chiedere all’inizio della sua predicazione; ma già Giovanni Battista aveva preparato il terreno in questo senso.

Parlare di fede, dunque, implica un’affermazione di urgente bisogno di conversione. Oggi, come sempre.

Non parlerò dal punto di vista sociologico della situazione della fede oggi, non ne ho la competenza, ma neppure voglio tenermi nell’astratta definizione teologica della fede. La fede infatti non è schedabile né quantificabile. Uno sguardo sociologico non può che descrivere la situazione dei credenti senza toccare la vita di fede; uno sguardo teologico è atemporale; la definizione della fede non cambia col cammino della storia.

Oggi inoltre è impossibile parlare solo del nostro piccolissimo mondo, di cui siamo orgogliosi o/e preoccupati perché tutti riceviamo stimoli e influenze, notizie e condizionamenti dal mondo intero.

Il titolo “la fede oggi” mi stimola dunque semplicemente a condividere con voi alcune riflessioni su ciò che un uomo/donna di fede può cercare, dire, vivere oggi, particolarmente qui in Italia, e forse anche, non come un profeta o in modo orgogliosamente didattico, su ciò che al mio limitatissimo sguardo sembra un cammino augurabile alla Chiesa.

Comincio con una definizione della fede che traggo dall’inizio del capitolo 11° della lettera agli Ebrei: “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”. E’ ciò che ci permette di prendere con certezza e coraggio un certo cammino, il proprio della speranza è poter rischiare la vita su certi valori solidi che siamo certi non ci deluderanno (prova di ciò che non si vede), sicuri che “non deluderanno nella mia speranza” (Sl 118). Tutto questo non può essere se non pensiamo che ciò su cui posiamo i nostri passi è vero.

Non è cosa facile parlare di verità nella società in cui viviamo, estremamente pluralista e apparentemente molto tollerante, assai indeterminata, soprattutto riguardo ai valori spirituali. Tutto può andare bene, basta che soddisfi un certo mio bisogno di sentirmi bene, a mio agio, non pressato da esigenze.

Pensare che la Parola è vera e affermare che conosco la Verità e la verità tutta intera sono due cose differenti. Gesù promette che lo Spirito ci condurrà alla Verità tutta intera (Gv 16,12), ma è un cammino, non una conquista già realizzata, anche se conosciamo bene la scrittura; è il cammino verso Gesù che è la Verità che si dà, che ci mette in cammino, ma che non è mai pienamente raggiunta. Il Risorto ci conduce alla Risurrezione, alla Vita, allora “lo vedremo così com’è e gli saremo simili” (1 Gv 3,2) e finalmente la Verità si sarà totalmente donata a noi.

Per ora, sulla terra, dobbiamo avere l’umiltà di appoggiarci alla Parola detta nella Chiesa, con tanti limiti, rischiare sulla verità che crediamo, ma non possediamo, che annunciamo pur rimanendo poveri e in ricerca.

La fede ci fa dire che la Parola rivelata e annunciata nella Chiesa è vera ed è unica, non è una fra tante, così come Gesù, il Verbo incarnato, non è uno fra i tanti. E’ una delle più urgenti testimonianze di fede che dobbiamo al nostro mondo assai confuso. La Parola costituisce la Chiesa e la Chiesa vive se la riceve. Ma la Parola vive se la Chiesa l’annuncia con rettitudine.

Possiamo rischiare gioiosamente e con certezza la nostra vita, forti nella fede, ma non possiamo farci proprietari di questa. Rischiamo, ma non sul nostro, solo ricevendo come mendicanti quotidianamente. Dobbiamo inoltre “esser pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della nostra speranza, ma con rispetto e mitezza” (1 Pt 3,15).

Sappiamo che la gioia di una certezza di fede e la pace che dà la vera speranza, sono la ricchezza che possiamo condividere, offrire ai nostri fratelli gli uomini, ma anche che questa certezza soprannaturale può diventare tentazione di arroganza e intolleranza e che nella storia ci siamo spesso caduti.

A queste cose l’uomo di oggi è particolarmente sensibile e noi siamo sempre responsabili del volto che appare dal nostro modo di credere e annunciare il Vangelo.

L’amore e la santa ansia della Verità devono radicarsi nell’ascolto, nella lettura, nella memoria assidua della Parola di Dio, ma anche della voce degli uomini.

Occorre evitare di puntellare la nostra fede con dei surrogati, invece di mettere queste giuste fondamenta. Tutto il resto può aiutarci nella comprensione ma non deve diventare sorgente di fede, fosse pura la Somma di San Tommaso, e ancor meno tutte le rivelazioni private, ecc.

Sarà la Parola stessa a giudicare la qualità di questi aiuti e a imporci di rigettare tante chiacchiere, sentimentalismi, visioni e facili illusioni, messaggi e tutti i miracoli che apparentemente stanno infestando il mondo.

La nostra fede per essere pura deve chiedere alla Parola di giudicare tutto e ritenere ciò che è buono, gettando ciò che non ha nulla a che fare con essa. Nella Chiesa ciò che nutre la fede sono la Parola e i sacramenti, e dalla Chiesa non dobbiamo chiedere altro. Quando la fede personale o collettiva vacilla non bisogna correre altrove per cercare sicurezze, ma ritornare con fiducia all’essenziale.

La fede e la speranza sono povere: di questa povertà occorre fidarsi perché è quella povertà che mette in comunione con “l’Onnipotente che fa grandi cose” (Lc 1).

Verità è una Persona; è anche il suo insegnamento. Ma verità deve essere anche un modo di pensare e di conformarsi ad essa, prendere sul serio l’insegnamento del Maestro, che è compimento e perfezione di tutta la dottrina biblica.

Come molte altre volte nella storia della Chiesa e del popolo di Dio, tutto è guidato verso un apparente spogliamento, una povertà radicale: è la dottrina della Croce. La fiducia in Dio ci provoca ad una sfiducia nelle pure forze umane, non per disistima delle capacità dell’uomo, che vediamo sempre più meravigliose e per cui possiamo notte e giorno rendere grazie al Creatore, ma perché coscienti del peccato, sempre in agguato, di ergersi di fronte a Dio come indipendenti, come autonomi, rifiutando quella comunione che Dio stesso ha preferito, nella sua relazione con noi, al potere.

Per credere autenticamente con una fede cristiana, oggi come sempre, non possiamo evitare la Croce, cioè il rischio della forza della debolezza. Il Dio biblico non è il Dio dei deboli, ma colui che dà la forza della carità a coloro che sono considerati deboli nella mentalità di tutti, affinché l’opera di salvezza venga non dalla prepotenza, ma dalla misericordia, dalla sinergia fra l’amore di Dio e la volontà di bene che questi ha seminato nell’uomo. Paolo sottolinea spesso la sua profonda debolezza in un’opera che sorpassa le capacità umane perché il Vangelo che annuncia possa essere accolto da tutti e conduca tutti ad ammirare la fonte della salvezza che è Dio e non ammirare in modo servile la potenza di un uomo.

Se possiamo dire una parola nuova al mondo, ma soprattutto se vogliamo viverla, non possiamo evitare di entrare in questa “debolezza” della Croce, debolezza dell’amore vulnerabile, debolezza di chi sempre ed in ogni caso lascia l’altro essere se stesso, anche a costo di pagare con la vita il voler essere se stesso: credente e fedele.

La fede e l’evangelizzazione sono come dei semi vivaci, che non portano frutto se non accettano di scomparire nella terra. Questa parola chiara di Gesù non la facciamo mai abbastanza nostra. Per questo è ora (subito) di smettere di cercare i mezzi potenti per convincere (o costringere?) e di contare la quantità per rassicurarci. Il Vangelo non è una quantità misurabile e rassicurante, ma una qualità come la bellezza: seduce chi vuol lasciarsi sedurre, totalmente gratuitamente, senza dar nulla salvo l’amore per una Persona che ci immette nella comunione divina dei Tre e questa ci aprirà alla comunione umana.

La Croce è comunione, né forza né debolezza. Le dure vicissitudini e le prove storiche della Chiesa, come quelle del popolo di Israele, hanno sempre avuto lo scopo di rinnovare la comunione; il credente oggi vede una situazione di apparente diminuzione con la gioia del Battista: “occorre che io diminuisca perché lui cresca.” (Gv 3,30). La sfida a cui siamo chiamati è questa: fidarci solo della fedeltà di Dio che può e sa fare ciò che è bene.

Non è fideismo, né quietismo: la carità è operosa e la fede senza carità è morta; ma il cristianesimo non può ridursi a delle opere, anche se meravigliose. I santi non sono tali perché hanno fatto tanto, ma perché hanno lasciato nella loro vita Dio fare tanto. Rimanendo umili e piccoli e fidandosi più della loro impotenza che dei mezzi, talvolta importanti, che maneggiavano.

Forse viviamo in un’epoca in cui va riscoperto il silenzio che edifica più della parola. Invece di imporre la propria immagine attraverso tanti media, accettare di essere dati in spettacolo al mondo come Paolo e lasciarsi giudicare nella nudità del silenzio, piuttosto che ammantare e decorare con tante belle parole le nostre insicurezze e incertezze dovute al cambiamento epocale. Il silenzio è fede in Dio che non dorme né sonnecchia, ma sempre veglia sui suoi fedeli e sulla sua Chiesa.

Vivere in un mondo di efficacia nevrotica, la serena fiducia nella piccolezza evangelica è la grande sfida dei cristiani del nostro tempo. Altrimenti siamo dei controtestimoni e non saremo neanche felici. Perdiamo Dio e perdiamo il mondo. Meglio darsi da fare per conquistare un impero di qualunque genere che barattare il Vangelo con dei piccoli poteri umani.

Croce vuol dire anche Risurrezione, altrimenti non è fede ma passionismo, moralismo, vittimismo malato. Dio è potente, è l’Onnipotente, che dispiega la sua potenza solo per far lievitare la pasta dell’amore. Israele vinceva le battaglie quando ritornava alla fedeltà dell’amore, amore che ha un solo sguardo, un solo Dio. Il Verbo incarnato per amore e per salvare gli uomini “uscì vittorioso per vincere ancora” (Ap 6,2). La fede è innanzitutto fede nella Risurrezione, nella salvezza dal peccato e quindi anche accettazione del proprio essere peccatori, senza giustificazioni, ma nella speranza della misericordia salvatrice. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi…Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.” 1 Gv 1,8.10) E’ importante dunque riconoscere il proprio peccato per poter accogliere la Risurrezione che ci è data mediante la Croce di Cristo. La dipendenza dalla misericordia, che è totalmente gratuita, è urgente, oggi in modo particolare.

Risurrezione oggi, subito, perché Dio opera il bene per colui che lo ama e si fida di lui, e lo introduce nella dimora della Vita nuova, anche se attraverso il lungo vestibolo della vita terrena.

Un terzo punto su cui vorrei soffermarmi per una vita di fede oggi è la necessità dell’Istituzione e il suo giusto volto. Riscoprire la Chiesa, come corpo unico in cui Cristo è presente, in cui è il capo, la testa, e quindi considerare la nostra appartenenza a questo corpo come necessaria per ricevere la vita che circola a partire dal capo.

Malati di sensibilità soggettiva e individualista oggi fatichiamo ad accettare una verità e un cammino oggettivo a cui aderire con una libera volontà. La tentazione di credere falso ciò che non sento o non capisco e di agire unicamente secondo questo sentire è grande. La persona ha trovato una dignità più grande, ma col rischio di ledere non soltanto la comunità, ma anche e soprattutto la comunione. Perdendo questa si perde anche la vita della persona, perché essa è tale perché capace di relazione e di comunione. Fatti ad immagine della Trinità non possiamo separare vita personale e comunione. E’ dunque nella fede che riceviamo la vita comunitaria della Chiesa e vi aderiamo anche quando il cammino ci sembra oscuro.

Separare la comunione con Dio da quella con la Chiesa è illusorio, perché solo la Chiesa ci dà i veri strumenti per la comunione con Dio: la Parola e i Sacramenti. Fare da sé può essere virtuoso e forse anche legittimo, ma non efficace dell’efficacia divina, soprannaturale e mistica. La fede ci fa essere in comunione con la Chiesa tutta, gerarchia e fedeli; non ci chiede di essere d’accordo intellettualmente, né di difendere ogni operato presente o passato del cristianesimo in genere, della gerarchia in particolare. Comunione e approvazione sono cose molto diverse.

La verità dell’oggi ci chiede di non enfatizzare il ruolo della gerarchia, ma di essere obbedienti, della virtù dell’obbedienza, non della passività di essa. L’ascolto attivo, la collaborazione libera, la parola franca, la misericordia in ogni caso accompagnata dalla chiarezza esigente sono necessarie per vivere oggi la fede.

L’istituzione nella Chiesa non è un potere, ma un servizio; e questo lo si dice abbastanza, ma non lo si vive affatto; né come prassi, né come concezione dei fedeli.

La fede non ci chiede di criticare, ma di vivere la verità della rettitudine, dell’onestà, della giustizia e della carità; anche a costo di apparire, non a giusto titolo, in rottura. Ma bisogna sempre preferire la comunione alla ragione e l’umiltà alla vittoria.

Oggi non possiamo più delegare alla gerarchia tutto; la grazia della mancanza di ministri ordinati ci permette di prendere coscienza di questo e di addossarci le nostre responsabilità di battezzati.

Infine non esiste fede che non miri direttamente alla santità. Il cristiano vuole essere santo, pur rimanendo nell’umile coscienza che ne è ben lontano e che non può che contare sulla Grazia. Ma santità non è cosa appariscente, né un modo di vivere superumano. E’ un continuo volere e tendere alla somiglianza con l’unico santo lasciandosi separare (è il significato della parola santo) da tutto ciò che rinchiude in un ambito unicamente proprio per vivere in uno spazio vasto come la carità divina. La santità non è un sovrappiù del battesimo, ma è la naturale realizzazione dei semi ricevuti in esso. E’ la vita divina in cui il battesimo ci ha immersi che porta frutti sempre più belli e numerosi.

Chiamati alla santità, oggi come nei tempi apostolici, non possiamo far altro che dire con S. Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.(Gv 6,68-69)