Che speranza diamo agli uomini d’oggi? (Enzo Bianchi)

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Il precedente articolo di questa rubrica (lo potete trovare in fondo a questo articolo se interessa) ha destato molte reazioni, peraltro positive, al mio grido sull’urgenza di una nuova forma del “vivere la chiesa”. Mi è parso dunque doveroso continuare quel discorso, con alcune proposizioni o proposte per l’evangelizzazione oggi.

Grazie alla rivelazione di Dio fatta da Gesù Cristo (cf. Gv 1,18), la nostra fede è arrivata a dire, attraverso l’apostolo Giovanni, che “Dio è amore, carità” (1Gv 4,8.16). Dunque, la fede cristiana ha sempre come volto la carità, l’amore che i cristiani devono vivere nel mondo in mezzo agli altri uomini e donne, e la chiesa deve essere il sito della carità visibile di Dio tra gli umani. È significativo che Gesù non abbia mai cercato il riconoscimento della sua missione e di conseguenza della missione dei discepoli, ma ha offerto un criterio molto semplice e fondamentale: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’unico segno, l’unico sigillo dell’essere discepoli e discepole di Gesù è dato non da atteggiamenti religiosi e cultuali, liturgici – e questo lo dice un monaco che pratica abbondantemente la liturgia –, non da dichiarazioni di fede, ma semplicemente dal “comandamento nuovo” dell’amore verso gli altri. Questo è il comandamento ultimo e definitivo: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,43; 15,12), dice Gesù. La logica di queste parole è paradossale. Gesù non dice: “Come io ho amato voi, voi amate me”. No, dice: “Amatevi tra di voi perché, così facendo, amerete me”. Non basta invocare il Signore, non basta invocare la sua parola, non basta mangiare e bere con lui nell’Eucarestia per essere cristiani (cf. Lc 13,26); occorre vivere la carità come l‘ha vissuta Gesù, fino all’estremo (cf. Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio degli altri. Una carità praticata mai in modo ripetitivo e schematico, ma sempre reinventata e rinnovata nei gesti e nelle azioni.

Proprio per questo il giudizio del Figlio dell’uomo sull’umanità di ogni tempo sarà fondato sulle azioni che ogni essere umano avrà vissuto nei confronti degli altri. Gesù non ci ammonisce con un giudizio che riguarda le nostre debolezze di uomini e donne fragili nella loro condizione carnale, ma sulle nostre omissioni, quando incontriamo (o non incontriamo) l’altro, il bisognoso, l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,31-46). Ciò che ci viene chiesto è incontrare l’altro in quanto essere umano, fratello o sorella in umanità, uguale in dignità. Si tratta di andare incontro all’altro cercando di discernere il suo bisogno, ascoltando la sua sofferenza, la sua invocazione, fino a prendercene cura in una relazione ospitale all’insegna della gratuità. Questa carità vissuta decide la verità dell’appartenenza a Cristo.

Certo, i cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).

Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.

Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?

Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).

Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.

Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.

Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.

Un cambio radicale del vivere la chiesa

Negli ultimi tempi c’è una domanda che molti mi rivolgono e che io stesso mi pongo con frequenza: la chiesa è ancora capace di essere missionaria, di rendere eloquente la fede che professa? I mezzi della missione mutano sempre più rapidamente, ma la missione sarà sempre ineludibile perché fa parte dell’essere cristiani: non si è alla sequela del Signore senza essere da lui inviati. Siamo di fronte a un mutamento radicale, che riguarda tutta la vita cristiana, la vita della chiesa, ma in particolare ciò riguarda proprio la missione ad gentes. Abbiamo lasciato la sponda e navighiamo verso un’altra terra che ancora non conosciamo. Le sfide si presentano con una novità inedita e dunque alla chiesa tutta è richiesta un’operazione di discernimento, per attuare il mandato di Gesù risorto, sempre attuale: “Andate, evangelizzate in tutto il mondo, portate la Buona notizia a ogni creatura” (cf. Mc 16,15).

Dobbiamo confessare oggi un’astenia delle chiese locali, soprattutto nell’emisfero settentrionale del mondo: un’astenia nei confronti della missione, una mancanza di coraggio nel lasciare la propria terra segnata dal benessere per terre che sono ancora toccate dalla fame, dalla miseria e spesso anche dalla violenza e dalla guerra. È sufficiente constatare la mancanza delle vocazioni alla missione ad gentes; è sufficiente vedere come gli istituti missionari, che hanno dato una testimonianza eroica di evangelizzazione, conoscono, almeno nelle nostre terre di antica cristianità, sterilità e invecchiamento, che rende alcuni di essi addirittura precari. Da quando ha assunto il ministero di Pietro, papa Francesco chiede con frequenza alle chiese di porsi “in uscita”, di volgersi alla missione in condizioni dinamiche, aperte, libere, per poter portare la Buona Notizia del Vangelo. Ma dietro a queste espressioni, che rischiano di essere ripetute semplicemente come slogan, c’è in realtà la richiesta di un cambiamento radicale del vivere la chiesa, ben prima del vivere la missione che le è inerente.

Non spetta a me fare un’analisi di queste urgenze, ma occorre almeno mettere in evidenza che si richiede in primo luogo che ogni battezzato e ogni comunità cristiana si sentano responsabili dell’evangelizzazione, cioè del portare ovunque la Buona Notizia del Regno. Le espressioni che si usano per parlarne sono meno importanti, ma a mio avviso occorre una vera e propria conversione della vita cristiana. Bisogna che la vita cristiana ecclesiale sia impegnata in un esercizio, in un’attenzione reale alla sinodalità, affinché popolo di Dio e pastori camminino insieme. Tutti i cristiani sono chiamati ad assumere la responsabilità di essere inviati a uomini e donne che non conoscono Gesù Cristo; devono dunque essere innanzitutto soggetti capaci di esprimere la fede cristiana e, di conseguenza, di edificare la chiesa con il loro specifico contributo culturale, religioso e umano. È la dinamica alla quale il papa ritorna sovente nei suoi discorsi missionari, ricordando parole come ascolto, incontro, dialogo, testimonianza, annuncio.

Credo inoltre che sia importante ricordare che oggi la missione non è rivolta solo alle genti ma riguarda le nostre chiese. Se alla fine della seconda guerra mondiale il cardinale di Parigi parlava della Francia come di una terra di missione, oggi siamo tutti convinti che l’Europa è terra di missione, come scrive il teologo Christoph Theobald. Viviamo in un’epoca che non è soltanto secolarizzata: siamo in un’epoca post-cristiana, e nelle nostre terre di antica cristianità ci sono delle situazioni che fanno sì che la missione sia quanto mai urgente. Soprattutto le nuove generazioni, quelle dei millennials, sono segnate da una profonda indifferenza verso la religione, verso la ricerca di Dio, verso l’appartenenza alla chiesa. Sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia profondamente il volto delle nostre comunità, nelle quali le nuove generazioni e le donne sono la chiesa che manca, secondo l’efficace espressione di don Armando Matteo. Sì, sta avvenendo una rivoluzione silenziosa che cambia e cambierà profondamente il volto delle nostre comunità.

Abbiamo sognato una chiesa evangelizzante e invece ci troviamo di fronte a una chiesa in realtà non evangelizzata e con generazioni senza più alcun contatto con la fede cristiana. In questa situazione inedita occorrerebbe da parte nostra una capacità di lettura, un esercizio di discernimento per assumere la responsabilità della mancata trasmissione della fede alle nuove generazioni. Non basta parlare dei millennials, bisogna riferirsi ai loro padri e alle loro madri, cioè la prima generazione che ha veramente tradito la trasmissione della fede, a partire dalla famiglia e dai vari contesti educativi. Risulta evidente che in una chiesa così debole va riconosciuta ormai una crisi di fede: dobbiamo avere il coraggio di dirlo, il problema è la debolezza della fede!

Ma allora quale missione e quale evangelizzazione, non nei mezzi, ma alla radice? Occorre innanzitutto prendere coscienza dell’indifferenza regnante nei confronti di Dio e della ricerca di lui. Da anni ormai ripeto che la chiesa deve prendere atto di tale indifferenza, ma sembra che in realtà nessuno ci voglia credere, e così si continuano a studiare le strategie per l’annuncio, nella stessa maniera di prima. Per le nuove generazioni – ma anche per alcuni delle generazioni post ’68 – Dio non è più interessante, non è più necessario per vivere bene, nella felicità. Si continuano a ripetere alcuni slogan ma, se si ascoltano veramente i giovani, si comprende che stanno bene senza ricerca di Dio. Il problema è eventualmente quello della “gratuità” di Dio, il che ci richiede nuovi atteggiamenti per annunciarlo: Dio non sta più nello spazio della necessità! Dio è addirittura una parola ambigua, respinta dalle nuove generazioni, perché spesso è legata al fanatismo religioso, all’intolleranza, alla violenza.

Per molti aspetti, fatte le dovute differenze, siamo in una stagione analoga a quella dei primi secoli della chiesa, quando i cristiani per difendere la loro singolarità avevano il coraggio di dire: “La parola ‘Dio’ non è un nome per noi cristiani, è un’approssimazione naturale dell’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (Giustino). Dio è una parola che può contenere tante proiezioni umane, che può essere il frutto di una riflessione intellettuale, che può essere l’esito di una ricerca di senso fatta dall’uomo. Ciò che invece è decisivo nella fede cristiana è la meta di un percorso compiuto alla sequela di Gesù Cristo, “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Questo richiede che, nella nostra missione ed evangelizzazione, sia davvero Gesù Cristo l’annuncio, l’uomo Gesù Cristo vissuto nella carne: l’uomo come noi, totalmente uomo in una vita mortale, nella storia, dalla nascita alla morte, con tutti i nostri limiti umani, eccetto il peccato, perché è con la vita umana che egli ci ha rivelato Dio e ci porta alla comunione con lui. E Cristo non solo ci rivela Dio: egli infatti si fa conoscere come Dio, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo.

Qui sta lo specifico del cristianesimo, anche in un tempo di confronto con gli altri monoteismi e con altre vie religiose. Io amo parlare della “differenza cristiana”, che è una differenza non contro o senza gli altri, ma una differenza che nasce dalla convinzione che Gesù Cristo è davvero colui che ha unito umanità e Dio. Dopo di lui, non si può dire l’umanità senza dire Dio e non si può dire Dio senza dire l’umanità. Questa è la nostra fede: confessiamo che Gesù Cristo è uomo e Dio, Dio fatto carne, Dio sempre vivente nei secoli dei secoli. Benedetto XVI, in apertura dell’enciclica Deus caritas est (2005), aveva il coraggio di scrivere: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con una persona”, Gesù Cristo. Questo secondo me è il punto centrale, a partire dal quale può veramente mutare la situazione astenica della fede e, di conseguenza, quella dello slancio missionario. Il problema della crisi della missione ad gentes in realtà è un problema della missione anche qui nelle nostre terre di antica cristianità, non c’è molta differenza. Le nostre comunità cristiane si sono assestate, spesso per loro sono più decisivi i valori o le prassi etiche che non la passione bruciante e la fede in Gesù Cristo. Al contrario, nell’evangelizzazione siamo chiamati a mettere al centro Gesù Cristo e la sua umanità, rivelazione del Dio vivente, non lo si ripeterà mai abbastanza. E si faccia attenzione: nessuna negazione della divinità di Gesù, ma neppure nessun debito della fede cristiana al teismo, perché è Cristo che ci conduce a Dio, non un qualsiasi dio che ci conduce a Cristo.