DIO MANDO’ NEI NOSTRI CUORI LO SPIRITO DEL SUO FIGLIO (Seconda predica di Avvento 2021 di padre Cantalamessa)

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Nel 1882 l’archeologo William M. Ramsay scoprì a Geropoli, in Frigia, un’antica iscrizione greca. Il reperto fu donato dal sultano Abdul Hamid a papa Leone XIII nel 1892, in occasione del suo giubileo. Dal Museo Lateranense esso è passato in seguito al Museo Pio Cristiano.
L’epitaffio – definito dagli storici “la regina delle iscrizioni cristiane”- contiene il testamento spirituale di un vescovo di nome Abercio vissuto verso la fine del II secolo. In esso, l’autore riassume tutta la sua esperienza di fede cristiana. Lo fa nel linguaggio imposto in quel tempo dalla “disciplina dell’arcano”, cioè usando metafore ed espressioni, di cui solo i cristiani potevano capire il senso, senza esporre se stessi ed altri al dileggio e alla persecuzione. Ascoltiamola nella parte che ci interessa più da vicino:
“Io di nome Abercio, [sono] discepolo del casto pastore dagli occhi grandi che pasce greggi di pecore per monti e per piani… Egli mi insegnò le scritture degne di fede; mi mandò a Roma a contemplare la reggia e vedere una regina dalle vesti e dalle calzature d’oro; io vidi colà un popolo che porta un fulgido sigillo. Visitai anche la pianura della Siria e tutte le sue città e, oltre l’Eufrate, Nisibi. Dovunque trovai dei fratelli…, avevo Paolo con me, e la Fede mi guidò dovunque e mi dette per cibo un Pesce grandissimo, puro, che la casta Vergine concepì e che essa [la Fede] suole dare a mangiare ogni giorno ai suoi fedeli amici, avendo un eccellente vino che suole donare insieme con il pane” .
Il pastore “dagli occhi grandi” è Gesú, le scritture sono la Bibbia, la regina dalle vesti d’oro (allusione al Salmo 45, 10) è la Chiesa, il sigillo il battesimo; Paolo è naturalmente l’apostolo, il pesce, come in tanti mosaici antichi, indica Cristo, la casta Vergine è Maria; il pane e il vino l’Eucaristia. Agli occhi di Abercio, Roma non è tanto la capitale dell’impero (che pure in quel momento è all’apogeo della sua potenza), ma “la reggia” di un altro regno, il centro spirituale della Chiesa.
Quello che colpisce in questo testamento è la freschezza, l’entusiasmo e lo stupore con cui Abercio guarda il mondo nuovo che la fede gli ha spalancato davanti. Per lui tutto questo non è davvero qualcosa di scontato! È la vera novità del mondo e della storia. È proprio per questo motivo che l’ho ricordato: perché è il sentimento che più abbiamo bisogno di riscoprire noi cristiani di oggi. Si tratta, ancora una volta, di guardare le vetrate della cattedrale dall’interno di essa, anziché dalla pubblica strada.
Dopo più di quarant’anni di giri di predicazione per il mondo, io potrei fare mio il testamento di Abercio, senza nemmeno aver bisogno di usare il suo linguaggio velato. Anch’io, nel mio piccolo, ho incontrato dappertutto questo popolo nuovo che la Lumen gentium del Vaticano II definisce il popolo messianico che “ha per capo Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il nuovo precetto dell’amore e per fine il regno di Dio” (cf LG, 9).
Lo stesso Concilio ricorda che la Chiesa è fatta di santi e di peccatori; anzi, che essa stessa, – come realtà concreta e storica – è santa e peccatrice, “casta meretrice” , come la chiamano certi Padri , e che le due cose –peccato e santità – sono presenti in ogni singolo suo membro, non soltanto tra una categoria e l’altra di essi. È giusto dunque che ci rattristiamo e piangiamo per i peccati della Chiesa, ma è anche giusto e doveroso rallegrarci per la sua santità e la sua bellezza. Una volta tanto noi scegliamo di fare questa seconda cosa che è forse oggi quella più difficile e più trascurata.

La prova che siamo figli di Dio

Torniamo al testo di Galati che stiamo commentando:
Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio.
Abbiamo meditato la volta scorsa sulla prima parte, sul nostro essere figli di Dio; meditiamo ora sulla seconda parte, sul ruolo svolto in tutto ciò dallo Spirito Santo. Dobbiamo tener presente il brano quasi gemello di Romani 8, 15-16:
Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
Parlavo la volta scorsa dell’importanza della Parola di Dio per assaporare la dolcezza di sapersi figli di Dio e sperimentare Dio come padre buono. San Paolo ci dice ora che c’è un altro mezzo senza del quale anche la Parola di Dio risulta insufficiente: lo Spirito Santo!
San Bonaventura termina il suo trattato Itinerario della mente a Dio con una frase allusiva e misteriosa; dice: “Questa sapienza mistica segretissima nessuno la conosce se non chi la riceve; nessuno la riceve se non chi la desidera; nessuno la desidera se non chi è infiammato nell’intimo dallo Spirito Santo mandato da Cristo sulla terra” . In altre parole, noi possiamo desiderare di avere una conoscenza viva dell’essere figli di Dio e di farne l’esperienza, ma ottenere tutto ciò è opera soltanto dello Spirito Santo.
Lo Spirito “attesta” che siamo figli di Dio? Che significano queste parole ? Non si può trattare di una specie di attestato esterno e giuridico come nelle adozioni naturali, o come è il certificato di battesimo. Se lo Spirito è “la prova” che siamo figli di Dio, se egli lo “attesta” al nostro spirito, non può essere qualcosa che avviene da qualche parte, ma di cui noi non abbiamo alcuna percezione e conferma.
Purtroppo è così che noi siamo portati a pensare. Sì, nel battesimo siamo diventati figli di Dio, membra di Cristo, l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori…, ma tutto questo per fede, senza che nulla si smuova dentro di noi. Creduto con la mente, ma non vissuto con il cuore. Come cambiare questa situazione? La risposta ce l’ha data l’Apostolo: lo Spirito Santo! Non soltanto lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel battesimo, ma quello che dobbiamo chiedere e ricevere sempre di nuovo. Lo Spirito “attesta” che siamo figli di Dio; ora attesta, non “ha attestato”, s’intende una volta per tutte nel battesimo.
Cerchiamo dunque di capire come lo Spirito Santo opera questo miracolo di aprire i nostri occhi sulla realtà che portiamo dentro. La migliore descrizione di come lo Spirito Santo porta a compimento questa operazione nel credente, l’ho trovata in un discorso per la Pentecoste di Lutero. (Seguiamo, con lui, il criterio paolino di “esaminare tutto e ritenere ciò che è buono”) (1 Tess 5, 21).
Finché l’uomo vive nel regime di peccato, sotto la legge, Dio gli appare un padrone severo, uno che si oppone al soddisfacimento dei suoi desideri terreni con quei suoi perentori: “Tu devi.., tu non devi”. Non devi desiderare la roba d’altri, la donna d’altri…In questo stato l’uomo accumula nel fondo del cuore un sordo rancore contro Dio, lo vede come un avversario della sua felicità, al punto che, se dipendesse da lui, sarebbe ben felice che non esistesse .
Se tutto questo ci sembra una ricostruzione esagerata, da grandi peccatori, che non ci riguarda da vicino, guardiamoci dentro e osserviamo cosa sale dal fondo oscuro del nostro cuore davanti a una volontà di Dio, o una obbedienza che attraversa i nostri piani. Nei corsi di Esercizi spirituali che ho occasione di predicare io sono solito proporre ai partecipanti di sottoporsi da soli a un test psicologico per scoprire quale idea di Dio prevale in loro. Invito a domandarsi: “Quali sentimenti, quali associazioni di idee sorgono spontaneamente in me, prima di ogni riflessione, quando, recitando il Padre nostro, arrivo alle parole: ‘Sia fatta la tua volontà’ ”?

Non è difficile accorgersi che inconsciamente si collega la volontà di Dio a tutto ciò che è spiacevole, doloroso, e tutto ciò che costituisce una prova, un’esigenza di rinuncia, un sacrificio, a tutto ciò, insomma, che può essere visto come mutilante la nostra libertà e sviluppo individuali. Si pensa a Dio come se egli fosse essenzialmente nemico di ogni festa, gioia, piacere. Se in quel momento potessimo guardare la nostra anima come allo specchio, ci vedremmo come persone che chinano il capo rassegnati, mormorando a denti stretti: “Se proprio non si può fare a meno…ebbene, sia fatta la tua volontà”

Vediamo cosa fa lo Spirito Santo per guarirci da questo terribile inganno ereditato da Adamo. Venendo in noi –nel battesimo e poi in tutti gli altri mezzi di santificazione – egli comincia con il mostrarci un diverso volto di Dio, il volto rivelatoci da Gesú nel Vangelo. Ce lo fa scoprire come alleato della nostra gioia, come colui che per noi “non ha risparmiato il proprio Figlio” (Rom 8, 32).

Sboccia a poco a poco il sentimento filiale che si traduce spontaneamente nel grido: Abbà, Padre! Come Giobbe alla fine della sua storia, esclamiamo: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Il figlio ha preso il posto dello schiavo e l’amore quello del timore! L’uomo cessa di essere l’antagonista di Dio e diventa il suo alleato. L’alleanza con Dio non è più soltanto una struttura religiosa in cui si nasce, ma una scoperta, una scelta, una fonte di incrollabile sicurezza: “Se Dio è con noi, nostro alleato, chi sarà contro di noi?” (cf Rom 8, 31).

La preghiera dei figli

Il luogo privilegiato in cui lo Spirito Santo opera sempre di nuovo il miracolo di farci sentire figli di Dio è la preghiera. Lo Spirito non dà una legge di preghiera, ma una grazia di preghiera. La preghiera non viene a noi, primariamente, per apprendimento esteriore e analitico, ma viene a noi per infusione, come dono. Questa è la “buona notizia” a proposito della preghiera cristiana! Viene a noi la sorgente stessa della preghiera ed essa consiste nel fatto che “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4, 6).

Il grido del credente Abbà! dimostra, da solo, che chi prega in noi, attraverso lo Spirito, è Gesù, il Figlio unigenito di Dio. Per se stesso, infatti, lo Spirito Santo non potrebbe rivolgersi a Dio, chiamandolo Abba, perché egli non è “generato”, ma soltanto “procede” dal Padre. Lo può fare in quanto è lo Spirito del Figlio unigenito che continua nelle membra la preghiera del capo.

È lo Spirito Santo che infonde, dunque, nel cuore, il sentimento della figliolanza divina, che ci fa sentire (non soltanto sapere!) figli di Dio. Talvolta questa operazione fondamentale dello Spirito si realizza in modo repentino e intenso, nella vita di una persona, e allora se ne può contemplare tutto lo splendore. In occasione di un ritiro, di un sacramento ricevuto con particolari disposizioni, di una parola di Dio ascoltata con cuore disponibile, o in occasione della preghiera per l’effusione dello Spirito (il cosiddetto “battesimo nello Spirito”), l’anima è inondata di una luce nuova, nella quale Dio le si rivela, in un modo nuovo, come Padre. Si fa esperienza di cosa vuol dire veramente la paternità di Dio; il cuore si intenerisce e la persona ha la sensazione di rinascere da questa esperienza. Dentro di lei appare una grande confidenza e un senso mai provato della condiscendenza di Dio.

Altre volte, invece, questa rivelazione del Padre si accompagna a un tale sentimento della maestà e trascendenza di Dio che l’anima è come sopraffatta e tace. (Non sto descrivendo le mie esperienze, ma quelle dei santi!). Si capisce perché alcuni santi iniziavano il “Padre nostro” e, dopo ore, erano ancora fermi a queste prime parole. Di santa Caterina da Siena, il suo confessore e biografo, il beato Raimondo da Capua, scrive che “difficilmente arrivava in fondo a un “Padre nostro”, senza essere già in estasi” .

Questo modo vivido di conoscere il Padre di solito non dura a lungo, neppure nei santi. Ritorna presto il tempo in cui il credente dice “Abbà!”, senza sentire nulla, e continua a ripeterlo solo sulla parola di Gesù. È il momento, allora, di ricordare che quanto meno quel grido rende felice chi lo pronuncia, tanto più rende felice il Padre che lo ascolta, perché fatto di pura fede e di abbandono.

Noi siamo, allora, come quel celebre musicista (parlo di Beethoven) che, divenuto sordo, continuava a comporre ed eseguire splendide sinfonie per la gioia di chi ascoltava, senza che lui potesse gustarne una sola nota. Al punto che quando il pubblico, dopo aver ascoltato una sua opera (la celebre Nona Sinfonia) esplose in un uragano di applausi, dovettero tirargli il lembo della veste perché se ne accorgesse e si voltasse a ringraziare. La sordità, anziché spegnere la sua musica, la rese più pura e così fa anche l’aridità con la nostra preghiera se perseveriamo in essa.

Quando si parla dell’esclamazione “Abbà, Padre!”, noi siamo soliti pensare solo a ciò che tale parola significa per chi la pronuncia, a ciò che riguarda noi. Non si pensa quasi mai a ciò che essa significa per Dio che l’ascolta e a ciò che produce in lui. Non si pensa, insomma, alla gioia di Dio di sentirsi chiamare papà. Ma chi è padre sa cosa si prova a sentirsi chiamare così con l’inconfondibile timbro di voce del proprio bambino o della propria bambina. È come diventare padre ogni volta, perché ogni volta quel grido ti ricorda e ti fa accorgere che lo sei; tocca la parte più recondita di te stesso.

Gesù lo sapeva perciò ha chiamato così spesso Dio Abbà! e ci ha insegnato a fare lo stesso. Noi diamo a Dio una gioia semplice e unica chiamandolo papà: la gioia della paternità. Il suo cuore “si commuove” dentro di lui, le sue viscere “fremono di compassione”, al sentirsi chiamare così (cf Os 11, 8). E tutto questo dicevo lo possiamo fare anche quando non “sentiamo” nulla.

E proprio in questo tempo di apparente lontananza di Dio e di aridità che si scopre tutta l’importanza dello Spirito Santo per la nostra vita di preghiera. Egli – da noi non visto e non sentito – “viene in soccorso della nostra debolezza”, riempie le nostre parole e i nostri gemiti, di desiderio di Dio, di umiltà, di amore, “e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito” (cf Rom 8, 26-27). Lo Spirito diviene, allora, la forza della nostra preghiera “debole”, la luce della nostra preghiera spenta; in una parola, l’anima della nostra preghiera. Davvero, egli “irriga ciò che è arido”, come diciamo nella sequenza in suo onore.

Tutto questo avviene per fede. Basta che io dica o pensi: “Padre, tu mi hai donato lo Spirito di Gesú tuo Figlio; formando perciò “un solo spirito con lui” (1 Cor 6, 17), io recito questo salmo, celebro questa santa Messa, o sto semplicemente in silenzio, qui alla tua presenza. Voglio darti quella gloria e quella gioia che ti darebbe Gesù, se fosse lui a pregarti ancora dalla terra”.

Ciò che lo Spirito dice alla Chiesa

Vorrei, prima di concludere, accennare a una applicazione pastorale di questa riflessione sul ruolo dello Spirito Santo. Ho citato altre volte le parole che il metropolita ortodosso Ignatios di Latakia pronunciò in una solenne riunione ecumenica nel 1968, ma vale la pena riascoltarle qui:
“Senza lo Spirito Santo:
Dio è lontano,
il Cristo resta nel passato,
il vangelo è lettera morta,
la Chiesa una semplice organizzazione,
l’autorità una dominazione,
la missione una propaganda,
il culto una evocazione,
l’agire cristiano una morale da schiavi.

Ma, con lo Spirito Santo:
il cosmo è sollevato e geme nel parto del regno,
l’uomo lotta contro la carne,
il Cristo è presente,
il vangelo è potenza di vita,
la Chiesa segno di comunione trinitaria,
l’autorità servizio liberatore,
la missione una Pentecoste,
la liturgia memoriale e anticipazione,
l’agire umano è divinizzato” .

Dobbiamo fondare tutto sullo Spirito Santo. Non basta recitare un Pater, Ave e Gloria, all’inizio delle nostre riunioni pastorali, per poi passare in fretta e furia all’ordine del giorno. Quando le circostanze lo permettono, bisogna rimanere per un po’ esposti allo Spirito Santo, dargli tempo di manifestarsi. Sintonizzarsi con lui.
Senza queste premesse, risoluzioni e documenti restano parole che si aggiungono a parole. Succede come nel sacrificio di Elia sul Carmelo. Elia radunò la legna, la bagnò sette volte; fece tutto quello che poteva; poi pregò il Signore di fare scendere il fuoco dal cielo e consumare il sacrificio. Senza quel fuoco dall’alto tutto sarebbe rimasto soltanto legna umida (cf. 1 Re 18, 20 ss.).
Sono cose che, senza chiasso, cominciano a realizzarsi nella Chiesa. Ho ricevuto quest’anno la lettera del parroco di una diocesi francese. Diceva: “Da quasi tre anni il nostro Arcivescovo ci ha lanciati tutti nell’avventura missionaria e ha costituito una fraternità di missionari diocesani. Ci siamo proposti di vivere un ciclo di preparazione al battesimo nello Spirito. È stata una esperienza bellissima con 300 cristiani di tutta la diocesi, insieme con l’Arcivescovo. Poco dopo, tutte le 28 clarisse di un vicino monastero hanno chiesto di fare la stessa esperienza”.
Non si devono attendere risposte immediate e spettacolari. La nostra non è una danza del fuoco, come quella dei sacerdoti di Baal sul Carmelo. I tempi e i modi sono noti a Dio. Ricordiamo la parola di Cristo ai suoi apostoli: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (Atti 1, 7- 8). L’importante è chiedere e ricevere forza dall’alto; il modo di manifestarsi va lasciato a Dio.
Questa necessità si impone particolarmente nel momento in cui la Chiesa si lancia nell’avventura sinodale. Su questo punto non c’è che da rileggere e meditare le parole pronunciate dal Santo Padre nell’omelia per l’apertura del Sinodo del 10 Ottobre scorso. In essa esortava a prendersi “un tempo per dare spazio alla preghiera, all’adorazione, a quello che lo Spirito vuole dire alla Chiesa.
Mi domando se, almeno nelle assemblee plenarie di ogni circoscrizione, locale o universale, non sia possibile designare un animatore spirituale che organizzi tempi di preghiera e di ascolto della Parola, in margine alle riunioni. “La testimonianza di Gesú è lo spirito di profezia”, dice l’Apocalisse (Ap 19,10). Lo spirito di profezia si manifesta di preferenza in un contesto di preghiera comunitaria.
Abbiamo un esempio meraviglioso di tutto ciò in occasione della prima crisi che la Chiesa ha dovuto affrontare nella sua missione di proclamare il Vangelo. Pietro e Giovanni sono arrestati e messi in prigione per aver “annunciato in Gesú la risurrezione dei morti”. Vengono rilasciati dal Sinedrio con l’ingiunzione di “non parlare in alcun modo, né di insegnare nel nome di Gesú”. Gli apostoli si trovano davanti a una situazione che si ripeterà tante volte nel corso della storia: tacere, venendo meno al mandato di Gesú, o parlare con il rischio di un intervento brutale dell’autorità che mette fine a tutto.
Che fanno gli apostoli? Si recano dalla comunità. Questa prega. Uno proclama il versetto del salmo: “Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme contro il Signore e contro il suo Cristo” (Sal 2,2). Un altro lo applica a ciò che è avvenuto nell’alleanza tra Erode e Ponzio Pilato nei confronti di Gesú. “Quand’ebbero terminato la preghiera –si legge – il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza (parresia )” (cf Atti 4, 1-31). Paolo mostra che questa prassi non rimase isolata nella Chiesa: “Quando vi radunate –scrive ai Corinzi – uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle” (1 Cor 14, 26).
L’ideale per ogni risoluzione sinodale sarebbe di poterla annunciare –almeno idealmente – alla Chiesa con le parole del suo primo concilio. “È parso bene allo Spirito Santo e a noi…” (Atti 15, 28). Lo Spirito Santo è l’unico che apre strade nuove, senza mai smentire le antiche. Egli non fa cose nuove, ma fa nuove le cose! Cioè, non crea nuove dottrine e nuove istituzioni, ma rinnova e vivifica quelle istituite da Gesù. Senza di lui, saremo sempre in ritardo sulla storia. “Lo Spirito Santo –diceva il Santo Padre nell’omelia ricordata – soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi”. Egli –aggiungo io – è maestro di quell’ aggiornamento che san Giovanni XXIII pose a scopo del Concilio. Il Concilio doveva realizzare una nuova Pentecoste e la nuova Pentecoste deve ora realizzare il Concilio!
La Chiesa latina possiede un tesoro a questo fine: l’inno Veni Creator Spiritus. Da quando fu composto, nel secolo IX, esso è risuonato incessantemente nella cristianità, come una prolungata epiclesi su tutta la creazione e sulla Chiesa. A partire dai primi anni del secondo millennio, ogni anno nuovo, ogni secolo, ogni conclave, ogni concilio ecumenico, ogni sinodo, ogni ordinazione sacerdotale o episcopale, ogni riunione importante nella vita della Chiesa si sono aperti con il canto di questo inno. Esso si è caricato di tutta la fede, la devozione e l’ardente desiderio dello Spirito delle generazioni che lo hanno cantato prima di noi. E ora, quando viene cantato, anche dal più modesto coro dei fedeli, Dio lo ascolta così, con questa immensa “orchestrazione” che è la comunione dei santi.

Vi chiedo la carità, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, di alzarvi in piedi e di cantarlo con me per invocare una rinnovata effusione dello Spirito su di noi e su tutta la Chiesa…

1.In Enchiridion Fontium Historiae Ecclesiasteicae Antiquae, Herder 1965, pp.92-94.
2.Cf. H.U. von Balthasar, “Casta meretrix, in Sponsa Chnristi, Morcelliana, Brescia, 1969.
3.Bonaventura, Itinerario della mente a Dio 7,4.
4.Cf. Lutero, Sermone di Pentecoste (WA, 12, p. 568 s.).
5.Raimondo da Capua, Leggenda maggiore, 113.
6.Metropolita Ignazio di Latakia, in The Uppsala Report, Ginevra 1969, p. 298.