Fenomenologia dell’attenzione – Cent’anni fa nasceva simone Weil

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Henri Rousseau, «I Giardini del Lussemburgo» (1909), dove Simone Weil passeggiava da studentessa

Simone Weil è conosciuta per una stupefacente sintesi tra partecipazione civile, ricerca filosofica ed esperienza mistica. Nonostante la familiarità con il linguaggio del soprannaturale, il suo pensiero è ancorato all’offrirsi della realtà e fedele a un metodo “materialistico”, espressione con cui Simone amava descrivere il suo approccio scientifico. Rigore intellettuale, realismo politico, qualità profetica congiungono biografia e scritti weiliani: ne risultano continue provocazioni in un coerente orizzonte filosofico. In particolare, le opere e l’impegno di Simone evidenziano la sua fiducia nella storica possibilità di una trasfigurazione delle istituzioni umane, a partire dal prioritario rinnovamento di alcune, il più possibile numerose, coscienze individuali. Si susseguono nei suoi scritti, in tal senso, importanti analisi sia della personale disposizione al vero — una fenomenologia dell’attenzione in cui all’alterità è riconosciuto lo spazio per manifestarsi nel suo adeguato rilievo — sia di come il carattere necessariamente individuale di tale attenzione possa riuscire a ridisegnare la vita pubblica, le istituzioni politiche, la sfera giuridica. Scommessa, quella di Weil, su una più profonda legittimità della legge, a fronte dell’evidente “banalità del male” che nel Novecento si vide dilagare nelle molteplici forme di legalità e burocrazia vuote di responsabilità e giustizia. Il problema è che, al di là di quanto Stato e Diritto dichiarano di garantire, il tragico scenario della storia non può non attivare livelli di obbligazione personale assolutamente pre-giuridici.

C’è un punto — leggiamo ne La persona e il sacro — «che nell’intimo, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l’esperienza di crimini commessi, sofferti e osservati […] si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. È questo, prima di tutto, che è sacro in ogni essere umano». Così, rispetto agli interrogativi tipici del dibattito contemporaneo sui diritti umani — a proposito della loro universalità, del loro statuto, del loro fondamento, della loro efficacia — Simone identifica un preciso ambito di ricerca e di lotta. È lo spazio della giustizia, del “soprannaturale” inteso quale superamento imprescindibile, inciso come un grido al fondo del nostro essere, del mero livello della necessità. Superamento richiesto per rimanere umani, ma tutt’altro che automatico o spontaneo e naturale: «La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli uomini. Vien fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: “Perché mi vien fatto del male?”. Spesso si sbaglia appena cerca di rendersi conto del male che subisce, di chi glielo infligge, del perché gli venga inflitto. Ma il grido è infallibile. L’altro grido sentito così spesso: “Perché lui ha più di me?” è relativo al diritto. Bisogna imparare a distinguere i due gridi e a far tacere il più possibile il secondo, con meno brutalità possibile, aiutandosi con un codice, con tribunali ordinari e con la polizia. Per formare menti capaci di risolvere problemi che si pongono in questo ambito, basta la Scuola del Diritto. Ma il grido: “Perché mi viene fatto del male?” pone tutt’altri problemi, per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e d’amore» .

È una vera e propria provocazione, questa, che mette in questione tutto il pensiero giuridico e giusfilosofico moderno, centrato sull’identificazione — o quanto meno su una strettissima correlazione — tra diritto e giustizia, da un lato, e Stato-forza dall’altro. Di fronte al circuito diritto-giustizia-Stato, Simone procede con determinazione e radicalità: mettendo sotto accusa il principio weberiano del monopolio legittimo della forza, contestare la spada e tutto ciò che a essa è legato significa rifiutare una teoria dell’ordinamento giuridico e dello Stato strutturata sul principio di effettività. Ciò di cui c’è bisogno, piuttosto, è di una nuova legittimità. Pur rilevando, infatti, la “contaminazione” del giuridico da parte della forza — intrinseci al linguaggio dei diritti, persino dei “diritti umani” sono per lei lo scontro, la rivendicazione, il “far valere” — Simone Weil dimostra di non rifiutare mai del tutto la nozione di diritto. Là dove si dia già una “tendenziale uguaglianza delle forze”, per cui non sia drammaticamente in causa la radicale istanza della giustizia e i conflitti siano connessi alla vivace complessità di una società libera, il diritto ha ragion d’essere e spazio d’efficacia. Ciò permette di immaginare una vera e propria rifondazione di ciò che la modernità ha avvertito come suo cuore — il carattere politico della libertà — in un più ricco orizzonte antropologico, in cui i soggetti siano pensati come originariamente in relazione e richiesti di un reciproco riconoscimento. «Solo l’obbligo può essere incondizionato. Esso si pone in un campo che è al di sopra di ogni condizione, perché è al di sopra di questo mondo. Gli uomini del 1789 non riconoscevano la realtà di un simile campo. […] Questo obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto, né sulla giurisprudenza, né sui costumi, né sulla struttura sociale, né sui rapporti di forza, né sull’eredità del passato, né sul supposto orientamento della storia. Perché nessuna situazione può di fatto suscitare un obbligo. Quest’obbligo non si fonda su alcuna convenzione. Perché tutte le convenzioni sono modificabili secondo la volontà dei contraenti, mentre in esso nessun cambiamento della volontà degli uomini può nulla modificare». L’obbligo è connesso al bisogno e quindi al grido che la facoltà di attenzione è capace di distinguere nell’altro, fondando ciò che in Weil è condizione affinché si possa parlare di diritti umani e cioè l’esistenza di doveri umani. Il grido istituisce un obbligo, che genera un dovere, cui corrisponderà un diritto. A una tale esperienza di non-isolamento e di reciprocità, si accompagna poi, la preferenza per “società a equilibrio instabile”, in cui diventi collettiva l’esperienza della “parentela della debolezza al bene”: dove c’è libertà, dove fiorisce il rispetto, dove coesistono i differenti non manca il conflitto, ma ciò è espressione di vitalità. Osserva Simone: «Le lotte tra cittadini non derivano da mancanza di comprensione o di buona volontà; esse derivano dalla natura delle cose, e non possono essere placate, ma soltanto soffocate dalla costrizione. Per chiunque ama la libertà, non è desiderabile ch’esse spariscano, ma soltanto che rimangano al di qua di un certo limite di violenza». Paradossalmente, infatti, in Simone Weil il congiungersi di doveri umani e debolezza del bene non scaturisce dall’opzione per la debolezza del pensiero, quanto da una più radicale adesione di ciascuno all’Assoluto, in cui ragione ed empatia convergono nell’ospitare la differenza, cioè il carattere trascendente, Altro, del reale. Il diritto e lo Stato garantiranno allora lo spazio della vita: delle sue legittime contraddizioni, delle necessarie diversità.

di Sergio Massironi