HANDS, FACE, SPACE. La pandemia, l’autorità della fede e forme nuove di evangelizzazione (Andrea Grillo)

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Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla. Francesco (Pentecoste, 31 maggio 2020)

… Impariamo a veder nuovamente il mondo attorno a noi da cui ci eravamo distolti nella convinzione che i nostri sensi non potessero insegnarci nulla di valido e che solo un sapere rigorosamente oggettivo meritasse di esser preso in considerazione. […] In un mondo così trasformato non siamo soli, e non siamo soltanto tra uomini. Questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai pazzi, che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso” (Maurice Merleau-Ponty)

Le mascherine hanno coperto i volti, ma hanno anche fatto cadere diverse maschere, nella società come nella chiesa. La condizione di “presidio sanitario”, nell’esperimento di vita e di morte che abbiamo condotto per la minaccia tremenda che ha fatto irruzione con il virus Covid-19, ha determinato sollecitudine, cura, organizzazione, difesa, dedizione, ma anche reazioni sbagliate, parole stonate, inerzie colpevoli e indifferenze dolorose. Sotto la pressione di eventi del tutto inattesi, sono saltate evidenze, si sono sospesi automatismi, tutto ha dovuto essere riconsiderato.  C’è stato chi ha minimizzato al limite della ipocrisia, per interesse o per rigidità; c’è chi ha addirittura ironizzato e deriso; c’è chi si è fissato sul particolare e ha perso il senso del complessivo.

Anche chi ha detto “nulla sarà più come prima” può aver esagerato, proprio perché nulla e tutto sono sempre molto vicini. Per la vita ecclesiale è stata, è ancora e sarà a lungo una prova dura, dalla quale alcuni hanno cercato di uscire con il peggio della tradizione recente: è emersa, a tratti, l’ombra lunga di una chiesa burocratica, falsamente tridentina, inutilmente combattiva sulle quisquilie e trascurata e scostante sulle cose fondamentali: forte con i deboli e debole coi forti.

Soprattutto abbiamo tutti faticato a tenere insieme le tre dimensioni centrali del culto e del sacramento cristiano: il Signore della storia, Gesù il Cristo, che si fa presente alla sua chiesa come sacramento del pane e del vino, come sacramento della parola e come sacramento del prossimo. Riconoscerlo nello spezzare il pane, riconoscerlo nella parola ispirata che scalda il cuore e riconoscerlo nel povero, nel malato, nel defunto, nel sopravvissuto che bussa alla porta sono state esperienze che si sono “scisse”: spesso abbiamo rischiato di alzare troppo la voce solo sul primo senso di sacramento, e di sussurrare parole poco convincenti e troppo leggere sugli altri due.

Vorrei soffermarmi proprio sul primo senso di sacramento, per liberarlo da tutto il peso di un linguaggio formalistico, burocratico, freddo e regolamentare che lo ha soffocato, fino quasi a renderlo irriconoscibile, in una alleanza sotterranea tra formalismi senza popolo e devozioni senza comunità. Vorrei farlo in un breve itinerario di 4 passaggi: dopo una premessa sulle “condizioni fattuali” della pandemia (§.0), vorrei chiedermi in che modo questo tempo ha modificato la nostra percezione della autorità (§.1), restituendocene un volto parzialmente dimenticato. Da qui vorrei trarre una serie di conseguenze proprio sul recupero di “esperienza simbolica”, che non può essere né compresa né valorizzata da nozioni “formali” di autorità, nelle quali sono cadute anche molto

parole ufficiali della recente comunicazione ecclesiale (§2.). Perciò mi occuperò di analizzare le “condizioni normali della ripresa celebrativa limitata” (§.3). Prendere sul serio il presidio sanitario e non svilire la pratica simbolica sono una sfida in cui la Chiesa può perdere o ritrovare se stessa. Deve essere calda o fredda: nulla di tiepido potrà salvarci.

Premesse: Hands, Face, Space

Come ho indicato nelle parole di apertura, tratte da due discorsi molto diversi e collocati in tempi assai diversi – il papa alla Pentecoste scorsa e un filosofo poco dopo la II guerra mondiale, nel 1948 – dobbiamo “cogliere l’occasione” di questo dramma della pandemia per rivedere il profilo complessivo della esperienza ecclesiale. Da un lato prendendo congedo da forma vecchie e ormai finite di presenza ecclesiale, dall’altro assumere in pienezza quella nuova visione che il Concilio Vaticano II ha inaugurato e che spesso fa ancora tanta fatica ad essere compresa e valorizzata. Inizio da tre parole che ho visto valorizzate dai messaggi che il governo inglese ha lanciato, all’inizio della pandemia. Si concentrano su tre termini:

HANDS – FACE -SPACE

Sono una ottima sintesi sia degli “obblighi/divieti” del nostro tempo di pandemia, sia delle sfide che la Chiesa, con tutti gli uomini e le donne, è chiamata ad attraversare e a valorizzare. Esaminiamoli per cominciare.

  1. HANDS: le mani sono ritenute decisive. “Mani pulite” – sanificate, protette, purificate, immacolate – sono condizione di salvezza propria e altrui. Ma questo, attenzione, porta ad una radicale limitazione del tatto, che è “organi fondamentale di conoscenza”. Se non puoi toccare ed essere toccato questo cambia la tua e la altrui percezione del mondo. Un mondo senza tatto – per ragionevoli motivi – è un mondo che conosce un grave handicap di conoscenza, di decisione e di emozione. Tutte le facoltà sono
  2. FACE: sono apparse le mascherine e sono scomparsi i volti. Salvo in privato, lo spazio comunitario e lo spazio pubblico viene alterato dalla “interposizione” della mascherina tra l’occhio e il volto. In questo modo non è possibile né dall’esterno “riconoscere” il soggetto, né dall’interno “esprimere” se stessi. La mascherina, con la sua funzione di protezione, agisce in profondità sulla esperienza “intersoggettiva”: nessuno può essere facilmente riconosciuto nel suo volto, e nessuno riesce davvero ad esprimere se stesso. Seconda grande
  3. SPACE: in terzo luogo, teniamo le distanza. Dobbiamo tenere “almeno un metro” tra noi e il prossimo. Anche in questo caso, salvo le logiche private, lo spazio pubblico e comunitario subisce una sostanziale alterazione. Non potendo “far parlare lo spazio” risultiamo minorati. Quella “dimensione nascosta” che E. Hall ha scoperto nel 1968 – ossia la “prossemica” – consiste proprio nel far parlare lo spazio, da m. 0 all’infinito. Se in quasi tutti i contesti il “minimo” di spazio è 100 cm, questo altera l’intero quadro dei nostri

Queste tre parole, usate per la pubblica educazione al presidio sanitario, ci illustrano una questione profonda, che riguarda il linguaggio e l’esperienza degli uomini e delle donne. Che, nella lotta al COVID 19, entrano nel tunnel di una “condizione di minorità”. Questo sollecita tutti noi ad una grande riflessione. E’ appunto occasione per “non perdere l’occasione” e per “riscoprire dimensioni profonde” della nostra identità, umana e cristiana.

1.   Le dimensioni nascoste della autorità

Una domanda si impone, in forma preliminare, per orientare tutto il percorso. Si potrebbe formularla così: in quale misura questo “tempo di quarantena”, imposto dalla lotta contro la pandemia, incide sul nostro modo di percepire e di vivere la relazione di “autorità”?

  • L’inatteso e l’incompreso irrompono

Lo spazio vitale si è contratto, la dimensione di clausura si è fatta normale, un “fuori” segnato dal divieto di assembramento e dal divieto di uscita non giustificata dalla propria dimora viene percepito come una nuova e quasi immemorabile esperienza di autorità – che per le sue forme drastiche si avvicina al “coprifuoco” bellico – e ci porta a rileggere con occhi diversi il “polo” opposto, o comunque reciproco, alla autorità: ossia la libertà, che diventa vigilata, circoscritta, svuotata, negata e non progetta più il suo futuro, perché non lo controlla. L’esercizio dei “diritti di libertà” del soggetto diventa sinonimo di rischio, per sé e per gli altri. Ma proprio questo primo sondaggio della nuova condizione ci invita alla cautela. Non sarà forse proprio per il fatto che il nostro modo di leggere la “autorità” si è talmente semplificato, negli ultimi due secoli, che oggi facciamo tanta fatica a riscoprire le diverse forme con cui l’autorità ci parla in tutta questa vicenda?

  • La vita non si lascia addomesticare troppo

Proviamo a identificare bene il nostro “oggetto”: la autorità. Potremmo dire che il “senso comune” identifica con autorità quella forza, quel potere, quella parola che ha la caratteristica di “imporsi”. E che si impone avendo sempre un rapporto diretto con la possibilità di infliggere una sanzione. Il “monopolio della violenza” è una delle caratteristiche della autorità. Questa nozione di autorità si è costruita secondo una evidenza politica nuova: la autorità è esteriore alla libertà, ne è limite esterno. E’ “altro da me”.

Tuttavia, il senso originario del termine autorità arricchisce molto questa prospettiva, che risulta troppo povera: la autorità è, più originariamente, capacità e potere di far crescere. Avere autorità è un servizio alla maturazione e alla crescita. Ed è la forma della funzione liberante dell’”altro per me”. Qui però sorge un problema tipico dei tempi tardo-moderni ( a partire dal XIX secolo), nei quali si inizia a pensare la autorità come opposta alla libertà, “altra” dalla libertà. Ma nel nostro frangente “epidemico” sembra che le cose si siano invertite: la autorità politica e sanitaria limita drasticamente la possibilità di movimento e la libertà del soggetto si trova “inclusa” in un esercizio di autorità altro e sovrano. Una sorta di “primum vivere” si impone su tutto e scalza ogni altra “cura fondamentale”: amicizia, lavoro, scuola, culto, turismo, passeggiate sono per lo più sospesi. Tutto è subordinato alla tutela della “salute pubblica”. Questo primato del “restare vivi” – che non si identifica con la “nuda vita” – ci fa scoprire di nuovo una “dipendenza della libertà dalla autorità” che forse avevamo dimenticato o rimosso. Di qui nasce la domanda: “quale ruolo ha l’altro per la mia libertà?”.

  • L’autorità e le sue forme dimenticate

La prima cosa che dovremmo osservare è questa. I sistemi di privatizzazione della vita, che il mondo contemporaneo ha sviluppato con una velocità e con una finezza sorprendente, mettono in luce un paradosso. Come mai, proprio nel mondo che diciamo tanto individualistico, privatizzato, nel quale si vive isolati e distanti, come tante monadi, il contagio corre tanto veloce? Il contagio ci parla di un “altro mondo” e ce lo rivela: di un mondo che vive di relazioni, e che noi viviamo, ma che non sappiamo capire. O, meglio, che ricostruiamo, nella nostra testa, soltanto come un insieme di diritti dei soggetti singoli. Ogni soggetto ha diritto alla salute, ad esempio. Ma il contagio ci dice: la salute dell’altro è più importante della tua. E questo è un trauma. Perché noi ci siamo abituati a recuperare l’altro con una sorta di “appendice caritativa”, non come la struttura fondamentale del nostro “star bene”.

Ecco qui un caso di “infrazione” del codice condiviso e che si mostra così fragile: scopro che la salute dell’altro è almeno tanto importante quanto la mia. Il che significa che prendermi cura della salute dell’altro è l’unico modo per difendere la mia salute. La furia del contagio, nel suo aspetto devastante, nasconde questo lato inatteso: in ogni contagiato curato, è curata la infinita serie di possibili contagiati che in lui avrebbero trovato la occasione per ammalarsi. “Restare a casa” non è soltanto “salvare noi dall’altro”, ma ancor più “salvare l’altro da noi”.

Che cosa ci dice dell’autorità, questa condizione? E che cosa ha da dire, teologicamente, al nostro concetto di autorità e di libertà?

  • Teologia del virus, tra autorità e libertà

Una prima cosa mi sento di negare: che vi sia una correlazione tra “ciò che compie il morbo” e “ciò che vuole Dio”. L’argomento apologetico classico, almeno dei nostri ultimi 200 anni, insiste, in modo quasi ossessivo, su questa correlazione: siamo limitati, siamo impotenti, siamo ridimensionati dal virus, così impariamo qualcosa di Dio. Ma è proprio così? Non vi è, sotto questo argomento, lo stesso meccanismo che, in fondo in fondo, fa del virus uno strumento di Dio? Che strumentalizza il virus in funzione teologica e Dio in funzione sociale? Una apologetica dell’uomo “drogato di libertà” che prende la sberla dal virus, e paternalisticamente si ridimensiona, non mi convince affatto. Non può essere così. La nostra rinuncia sociale alla libertà, oggi, è a sua volta il frutto di una accurata elaborazione della libertà. E il divino non sta nella libertà perduta, ma nella libertà riorganizzata. Che sperimenta la autorità a livelli più complessi e più articolati.

La pandemia ci mette di fronte ad una maggiore complessità del mondo, dell’io e di Dio, che non comprendiamo “arretrando”, tornando ad una apologetica del limite o ad una teodicea antiliberale, ma solo avanzando, attraversando la terra della libertà che di nuovo si fa deserto, ma che cerca di ritrovare e di ricostruire la strada e la città. E sa che può darsi solo “strade comuni”. Così il virus può essere “autorevole” se ci permette di scoprire, in forme sorprendenti, di quante relazioni viviamo ordinariamente, senza neppure accorgercene o, addirittura, in un mondo che fa di tutto perché ce ne dimentichiamo.

Ed ecco allora una “declinazione” della autorità che ci suona nuova: se il fatto di “non ammalarci” dipende non semplicemente dalla nostra moralità, dal nostro “comportarci bene”, ma dalla salute degli altri – è questa la verità nascosta in ogni contagio – la gestione pubblica del “bene comune” non può essere più considerata il risultato del comporsi “libero” delle iniziative dei singoli. Il liberismo perde così ogni autorità. Tra libertà e liberismo si viene a creare una distanza nuova, una estraneità inattesa.

Ma in questo nostro tempo, chi esercita davvero la autorità? La società si ferma, eccetto la sanità, l’ordine pubblico, la “filiera alimentare” e i servizi di base (acqua, luce, gas, strade, ferrovie, telefono, televisione…). Mangiare, bere, essere curati e essere difesi. A ciò si può aggiungere tutto ciò che si può fare “a distanza”: pagare un debito, spiegare una lezione, richiedere un certificato, fare un compito, persino suonare una sinfonia. Certo con dei limiti. Questo ritorno ai “beni primari” è sempre istruttivo. Tra questi bisogni primari della vita, però, vi è anche la morte. Una società che lotta per la vita deve anche “saper morire”. Non nel senso omerico della virtù, ma nel senso cristiano della compagnia e della condivisione di ciò che è indisponibile, perché sta prima di me e dopo di me.

  • Tre soggetti di autorità: l’altro, l’io e Dio

Vi sono dunque tre esperienze di autorità: l’altro da me che si impone, come autorità politica; l’altro per me che mi dispone, come autorità etica; l’altro sopra e sotto di me, che mi compone, come autorità di grazia. Ma la esperienza politica, quella etica e quella religiosa della autorità tra loro non sono del tutto trasparenti, neanche del tutto comunicanti. Non si può dire integralmente l’una nei termini dell’altra. Ed è qui che il regime di pandemia ci sorprende. Perché ci mostra, in una forma quasi immemorabile, prossimità impensate o lontananze spaventose tra queste tre esperienze, di cui abbiamo tutti radicalmente non solo bisogno, ma desiderio incontenibile. Nessun contenimento, a lungo andare, può reggere a questa incontenibile dinamica della autorità, che è bisogno e desiderio di imposizione, di disposizione e di composizione. Questo corrisponde, singolarmente, ad una esperienza di libertà, perfettamente parallela alle tre esperienze di autorità. L’altro da me che si impone, non mi schiaccia soltanto, ma mi consente di essere me stesso; l’altro per me, che mi “forma” e mi “dispone”, mi raggiunge ora per vie più complesse, meno dirette, mediate dai media, fino a dove può. L’altro sopra e sotto di me, l’intimior intimo meo e l’omnipotens, nel “compormi” si nasconde e si rivela, come sempre, ma in forme nuove. E libera la mia capacità di riconoscere i doni con una forza diversa, certamente più fragile, ma forse più autentica e meno mediata.

La condizione estrema di questo tempo “recluso” riordina le priorità e le esperienze, dell’autorità dell’altro e della libertà dell’io. L’altro è, allo stesso tempo, tenuto a distanza e riassunto come orizzonte del desiderio. L’io è affidato a se stesso in modo più radicale e tenuto a bada molto più duramente. Dio, come sintesi di sé e dell’altro, sembra scomparire dal quadro e insieme ritornare come orizzonte, per vie inattese e sorprendenti: più come brezza leggera che come uragano o terremoto o fuoco divorante.

  1. Raduno liturgico e contenimento civile: una armonia discors

Se la Chiesa non può “radunarsi”, è inevitabile che entri in crisi. Uno dei modi storici per lottare contro le Chiese è stato quello di impedirne l’atto elementare, che sta scritto a chiare lettere nel loro nome. “Ecclesia” è assemblea, “essere convocati”, “essere chiamati”, “essere radunati”. Senza raduno non c’è chiesa. Chi impedisce il raduno appare come il nemico. Questo immaginario  è scattato in molti cuori, non solo in quelli cupamente reazionari. Ma se il raduno risulta vietato non per far male alla Chiesa, ma per fare il bene comune dei cittadini e delle loro case, allora le cose cambiano e le pratiche si complicano. Il raduno è un grande bene, ma il divieto di raduno diventa un bene maggiore, cui sacrificare la assemblea. E tra i due beni non sono possibili spazi di mediazione. Questo apre un ventaglio di questioni che sono effettivamente nuove e come tali devono essere affrontate, sapendo che i precedenti sono pochi, o troppo dissimili o troppo poco rilevanti. Proviamo allora a fare una rassegna delle questioni e delle opportunità emerse in questi ultimi 40 giorni.

  • Senza raduno, ma non senza meeting

Se i corpi restano a casa, almeno gli occhi, le orecchie, le menti e i cuori provano a “uscire”, cercano di “incontrarsi”, non tardano a “connettersi”. Attraverso gli schermi dei PC, dei tablet, degli smarthones o dei televisori abbiamo provato a sopperire. E questa via ha trovato facile riconoscimento, anzitutto ufficiale, ma anche particolare, personale, pastorale. Moltissime parrocchie hanno attivato dirette streeming, altre si sono appoggiate a tv locali. Questo, però, è un canale che facilmente “spettacolarizza” il rito. Non “fai pasqua”, ma guardi un altro che, poco più che solo, fa Pasqua. Questo non solo è triste, ma va proprio contro l’idea, profetica, che il popolo di Dio non sia “muto spettatore”, tanto più se accomodato sul divano di casa. Non tutto, però, è stato condotto in questo modo. Abbiamo visto il bambino che “segue” la messa a casa, ma vestito da chierichetto. Abbiamo sentito di forme di partecipazione più intensa, più attiva e interattiva. Abbiamo anche trovato la forza di “fare comunione” non visuale, ma corporea e pratica. L’incontro con il Signore, se non può essere garantito dal “raduno di popolo”, può esserlo nella forma domestica, casalinga, “economica” della chiesa. Così persino il Triduo Pasquale, il cuore pulsante della assemblea ecclesiale, ha preso forma a casa, con una creatività, una pertinenza e una intensità che forse nessuno si sarebbe atteso.

  • Il fatto da accettare e la spiegazione da offrire

Un secondo punto, più delicato, è parso il complesso percorso di “giustificazione” del fatto della rinuncia al raduno e di una teologia capace di elaborarlo in modo significativo. Entrambi questi passaggi non sono stati indolori. Da un lato, infatti, almeno all’inizio della epidemia, era corsa, nel corpo della Chiesa, la percezione che “chiudere”, “rinunciare” sarebbe stato “tradire” la tradizione, la missione, la testimonianza, la carità…ma non appena il fenomeno ha assunto tutta la sua tragicità di sofferenza e di morte, ad esitare sono rimasti soltanto o i fedelissimi senza cuore, o i comunicatori con cuore da sciacalli. La questione, però, non si è risolta, ma si è solo spostata. Così, acquisita la condizione di chiusura, si è entrati nel tunnel oscuro delle giustificazioni.

E qui, ahimè, si è vista molto chiaramente una frattura grave, una faglia profonda, una scissione drammatica tra la iniziativa lodevole di diversi ministri e fedeli, e la lettura fredda, burocratica, distante, puramente normativa di una parte non irrilevante del corpo episcopale. Se, di fronte alla dura necessità di rinunciare al raduno, scatta immediatamente, quasi come un riflesso condizionato, tutta la lettura eucaristica centrata sul prete, che quindi, anche da solo, costituirebbe “soggetto sufficiente” alla celebrazione eucaristica, tutto questo sembra un messaggio assai dissonante rispetto alla sensibilità maturata dopo il Concilio Vaticano II.

E’ parso che la ragione teologica della emergenza venisse improvvisata con gli scampoli mal composti di una teologia vecchia e senza cuore. Questo va poi sommato a circolari e decreti, emessi a livello universale o particolare, nei quali, quasi fossimo in una chiesa-nave sorpresa da una grave tempesta che ne alterasse gravemente l’assetto di galleggiamento, tutte le istruzioni fossero dedicate all’equipaggio, mentre i passeggeri risultassero come lasciati a loro stessi o rimandati al divano con vista TV.

  • Lo stato di eccezione e lo scandalo di liturgie straordinarie

Un aspetto che non è stato facile mettere a fuoco è la correlazione complessa tra l’imporsi dello “stato di eccezione civile”, con il distanziamento, il contenimento e il divieto di assembramento, e lo “stato di eccezione liturgica”, che causa, ormai da 13 anni, nella Chiesa, la accettazione di un distanziamento, di un “raduno parallelo” che minaccia la qualità della vita ecclesiale. Per certi versi i due stati di eccezione si “sostengono”, per altri versi si oppongono. Da un lato, infatti, si discute sulla “eccezione liturgica”, ossia su un regime strano e poco trasparente, con cui la Chiesa, per rispondere ad una contingenza di 13 anni fa, ha imboccato una strada da cui non riesce più ad uscire. Ma vi è, accanto a questo, la pressione di un momento del tutto eccezionale, in cui siamo costretti, dal presidio sanitario, a rinunciare a molte “pratiche consolidate” e a inventare “pratiche nuove”.

Se consideriamo che nel pieno della pandemia la Congregazione per la Dottrina della fede ha presentato due decreti (Quo magis e Cum sanctissima) con cui modifica l’Ordo Missae del 1962, per scongiurare lo scandalo occorre precisare che:

  • la “legittimità” di un atto non implica la sua opportunità o giustizia la trama istituzionale della Chiesa diventa opaca quando afferma prima di tutto la ripetizione inerziale di se stessa
  • le trasformazioni di una procedura devono essere controllate e verificate con molta attenzione.

Così, se una procedura, che era stata pensata per un “Commissione speciale” – come era Ecclesia Dei – e che ora viene svolta da una Sezione della Congregazione per la dottrina della fede, si occupa di “riformare il rito del 1962″, l’effetto ecclesiale di questo atto appare mutato di segno. E la Congregazione, quasi automaticamente e senza colpo ferire, diventa il “luogo” di un dissidio tra forme concorrenziali dello stesso rito romano. Questo è un segnale estremamente negativo per la comunione ecclesiale. Un “sistema eccezionale” voluto da papa Benedetto in vista e nella speranza di una riconciliazione, genera invece continuamente divisione, separazione, per non dire sedizione. Giustificare tutto ciò dicendo che “la legge lo consente” non è una soluzione, ma anzi  trascina anche la legge nello scandalo che doveva essere evitato.

  • Le limitate benedizioni della casa, e le prospettive di una “chiesa in uscita”

La differenza tra la legge del 2007 (Summorum Pontificum) e il disegno del Concilio Vaticano II ci permette di dire che “lo stato di eccezione è finito”. Possiamo tornare alla logica conciliare. Perciò il “contenimento civile” fa esplodere due logiche opposte e antitetiche. Corrobora una “chiesa di soli preti” (e di preti soli) e rilancia la iniziativa dei fedeli non chierici e non maschi. In particolare ne emerge, allo stesso tempo:

  • il tentativo di avvalorare una “chiesa di emergenza di soli preti celebranti”,che attinge a lessici e a canoni primo-moderni e preconciliari;
  • il tentativo di giustificare il ruolo della assemblea, di una ministerialità allargata e del ruolo femminile, che implica la ripresa di discorsi forti e decisivi su questi

Tutto ciò impone una declericalizzazione radicale e urgente, che possa dire tre cose decisive, niente affatto nuove, ma che è urgente dire in modo nuovo. Il “caso pandemia” riapre i giochi del discorso conciliare sulla Chiesa e sulle sue necessarie riforme:

  1. Che la assemblea celebrante è il Corpo di Cristo risorto (e quindi non può essere in alcun modo essere pensata o resa accessoria). Questo non ha solo evidenze liturgiche, ma anche per l’annuncio e per la vita di fede. Il ripensamento del ruolo di tutti i fedeli, religiosi e sposati compresi, implica un ridimensionamento non della “gerarchia”, ma della riduzione della Chiesa a gerarchia.
  2. Che la assemblea ha bisogno di “più ministeri”, non del solo presbitero. La articolazione ministeriale è questione liturgica, ecclesiale, di ascolto della parola, di esercizio della autorità e di testimonianza del vangelo. Per la verità e per la carità, un ministero solo clericale sfigura la tradizione. Questa evidenza è oggi più forte di
  3. Che le donne possono esercitare funzioni di autorità, perché possono e debbono essere riconosciute titolari di un ministero in senso forte e pieno, di un ministero vero, non di un ministero di plastica. Nelle donne è implicato e si esprime l’annuncio apostolico, dal quale dipende la stessa tradizione ecclesiale nella sua piena verità. Avere gli strumenti per riconoscerlo è diventato, anche in pandemia, una priorità liturgica, ecclesiale, teologica e

Ecco, questo passaggio è difficile ed è anche teologicamente assai esigente. Potrà mettere definitivamente in soffitta i discorsini clericali, belli sigillati in autoevidenze tristi, dove ci si accontenta di citare le frasi di uomini geniali, che però sono vissuti nell’epoca delle invasioni barbariche o del feudalesimo, e si scambiano gli assetti istituzionali che loro condividono senza averli scelti come se fossero vangelo o, peggio, come se fossero “di diritto divino”.

Sono i trucchi tipici di una chiesa che non c’è più e che appare bene solo “a porte chiuse”. Perché c’è una Chiesa che è sempre stata “a porte chiuse” anche quando le porte erano belle aperte. Che è rimasta bloccata su ruoli vecchi, su parole vecchie, su forme vecchie. E proprio ora si vede meglio, perché realizza pienamente se stessa, grazie alla epidemia. E lo dice anche, con una ingenuità semplice e talora con una arroganza senza pudore. E può anche scoprire, questa chiesa, che le “distanze” imposte nell’aula eucaristica dalla emergenza sanitaria, almeno nei giorni feriali rischiano di farci stare “più vicini” di quanto era nostra abitudine!

  • La Chiesa viva e la inerzia burocratica

Ma non c’è solo questo. C’è anche, e ben viva, una Chiesa che ha bisogno urgentissimo di rilanciare i grandi discorsi, che la ufficialità ecclesiale ha avuto la forza di fare apertamente e solennemente solo 60 anni fa, con Concilio Vaticano II, e che oggi sembra tanto confusa quando deve ripeterli in modo credibile. C’è però chi lo sa fare. E si trova proprio in quel vertice della piramide che è rovesciata. Proprio per questa condizione rovesciata, ben prima della pandemia di oggi che desertifica il mondo, anche quando usciva ancora in una piazza S. Pietro aperta, in mezzo alla folla festante, Francesco era già apparso tremendamente solo, per il fatto di vivere lui a porte aperte in una chiesa che preferiva le porte chiuse, già allora.

E’ quella stessa Chiesa che si rivitalizza oggi se può fare senza il popolo, se può sostituirlo in tutto, con un timbro o con un decreto. Se si ha la pazienza di leggere i discorsi scritti nelle ultime settimane da molti che stanno a stretto contatto con questo vertice di piramide capovolta, non si fa grande fatica a riconoscere questa condizione paradossale di solitudine raddoppiata: dalla chiusura civile che reduplica la chiusura ecclesiale. Le porte chiuse, dunque, aprono un doppio compito, meravigliosamente complicato: a chi in chiesa ci può stare, di starci diversamente. A chi in chiesa non ci può stare, di saper essere chiesa altrove e diversamente.

Qui è evidente e toccante il “respiro ecclesiale” di una ariosa presentazione della esperienza eucaristica. In un orizzonte di “comune offerta del sacrificio e di comune partecipazione alla mensa del Signore”, con la comunione nella parola e nel sacramento, prende forma l’esperienza della Chiesa, che non si lascia chiudere in una “pratica da funzionari assediati”, che tradirebbe non solo il munus episcopale, ma il senso stesso del ministero ordinato. Non scendere sotto il tono dell’Ordinamento Generale del Messale Romano – per far fronte alla sfida di un tempo così sorprendente e così spiazzante – a me pare l’unico modo per accedere davvero sia ad un “minimo sindacale” di tenerezza ecclesiale, sia ad un “minimo episcopale” di competenza eucaristica.

3.   Il sacramento della mascherina: forma e contenuto del culto cristiano

Una mia prozia, anziana ma di non indiscutibile saggezza, soleva dire che la prima cosa che faceva la domenica, al ritorno dalla messa, era lavarsi le mani, avendo toccato col segno della pace le mani di diversi sconosciuti. Ogni volta che sento ripetere le “normative del presidio sanitario” – che dai primi di marzo vengono ripetute da tutti i canali della comunicazione civile – ripenso alla prozia e alla sua profezia della diffidenza. Non solo nella grande Chiesa, ma anche nelle nostre piccole chiese domestiche abbiamo inossidabili profeti di sventura, che da sempre hanno fatto della distanza, della sanificazione e della mascherina un “sacramento”.

Perché inizio dalla prozia “igienista”? Perché il ricordo di lei, e delle sue “fissazioni”, ci è utile per considerare il dissidio nel quale tutti siamo caduti dal momento in cui, a causa del “distanziamento imposto” e del “divieto di assembramento” che l’autorità sanitaria e pubblica ha disposto a livello nazionale, ci siamo accorti di essere entrati in un grave dissidio. Tale dissidio investe in pieno il “culto cristiano”, perché lo deforma, lo ammutolisce, lo emargina, lo silenzia, lo svilisce. Ma ci è utile fermarci un attimo in una riflessione che vorrei proporre in tre momenti.

Dopo un passaggio preliminare, di esame della realtà che ci ha investito, provo a distinguere le questioni “formali” dalle questioni “sostanziali”. Perché una cosa è la “garanzia della libertà di culto” e un’altra cosa è “che cosa fare della libertà garantita”.

  • La condizione di “confinamento sociale”

Poiché la malattia mortale si trasmette “per contatto”, e ne vediamo gli effetti devastanti su tanti fratelli e sorelle, tutte le forme del tatto rilevante pubblicamente risultano alterate: nessuna vera vicinanza, la mano protetta dal guanto e sempre “sanificata”, il volto coperto dalla mascherina. La prossemica dello spazio, il tatto della mano e lo sguardo del volto e sul volto sono bloccati, censurati, impediti. Questo “blocco del contatto” agisce in ogni luogo che non sia “casa privata”. La “clausura” definisce in modo molto più netto del solito una differenza tra “ambito pubblico” – sottoposto ad una legge non negoziabile – e ambito “privato”, che continua – al di qua della soglia – a gestire prossimità, intimità, tatto, abbraccio, bacio: si può riconoscere il volto altrui e si può mostrare, spudoratamente nudo, il proprio volto.

Il fatto culturalmente più rilevante, almeno per gestire correttamente il problema ecclesiale, è che lo “stato di eccezione” approfondisce radicalmente la differenza pubblico/privato, quasi annullando totalmente gli “spazi intermedi”, nei quali si coltivava un “non privato” che però restava “non pubblico”. Sono i luoghi della “gratuità sociale”, che oggi vengono tutti risucchiati dalla emergenza pubblica. Per così dire: tutto ciò che non è privato diventa “ex lege” pubblico. E la Chiesa, tutte le chiese, ricadono in questa riduzioni di emergenza e vengono risucchiate in questo vortice dell’anonimato.

  • La forma: libertà di culto come diritto

Notevole è il fatto che, almeno in prima battuta, una parte della Chiesa abbia saputo rispondere a questa sfida restando rigorosamente sullo stesso piano. Se infatti contrappongo alla logica di emergenza, che elimina la mediazione comunitaria tra privato e pubblico, il “mio diritto di libertà di culto”, accetto di restare sul piano formale. Sollevo una questione che riguarda “soggetti singoli”, i cui diritti sarebbero (eventualmente) violati. Di me, prete, che non posso esercitare il “diritto di dire messa”. Di me, non prete, che non posso esercitare il diritto di “andare a messa”. La risposta è di “privati” di fronte alla “legge pubblica”.

Non importa se a questo proposito anche uomini politici, la cui fede è ben nota da secoli, si siano prestati a difendere i diritti conculcati dal tiranno. Resta il fatto che la risposta in termini di “libertà di culto” – per quanto possa essere giustificata – implica una considerazione meramente formale del culto stesso. E rischia di ridurre la questione alla possibilità che al soggetto individuale – ministro o semplice fedele – possa essere riservata di esercitare un “diritto” che fa capo al soggetto stesso. Difendiamo la fede privatizzandola e pubblicizzandola, ma trascurando il profilo comunitario, di cui vive.

  • La sostanza: il culto cristiano è azione comune

La questione vera riguarda non soltanto la forma, ma la sostanza del culto cristiano. Infatti, se accettiamo di ridurre la questione del culto ai diritti dei soggetti che lo pongono o che ne fruiscono, restiamo immediatamente imbrigliati in una cattiva teologia: una considerazione meramente “formale” – giuridica o amministrativa – del culto cristiano rischia di falsarlo irrimediabilmente.

Proviamo ad esaminare meglio questo profilo, in una serie di punti.

  • La messa e il sacerdozio della comunità

Se la messa è riconosciuta come “azione della comunità sacerdotale” – composta da tutti i battezzati che si riuniscono, sotto la presidenza del presbitero/parroco – essa ha costitutivamente carattere comunitario e per questo rientra nell’ambito delle normative comuni a tutti gli spazi pubblici. Solo se la pensiamo come “atto del prete” al quale “assistono” – opportunamente distanziati e isolati e protetti – un numero massimo di fedeli, possiamo cavarcela e porre atti che inevitabilmente contraddicono ciò che si fa. Lo stato ha tutto il diritto di considerare la messa una “cerimonia pubblica”; ma la comunità cristiana dovrebbe anzitutto custodire la qualità comunitaria del proprio raduno.

  • La messa non è un rito di passaggio

La messa è luogo di contatto, di riconoscimento, di prossimità: la mano inguantata, il volto coperto e la distanza “di sicurezza” sono forme corporee di controtestimonianza simbolica, poiché dicono diffidenza, non confidenza. Possono essere sopportate, anche con fatica, solo per “riti di passaggio”, non per “riti di strutturazione comunitaria”. Non a caso i funerali, o eventualmente i matrimoni, possono sopportare le limitazioni formali, perché sono inseriti in percorsi vitali irreversibili e tendenzialmente non procrastinabili. Altro sono le esequie e altro è la celebrazione eucaristica: la chiara differenza tra un rito necessario in vista di altro (come il funerale) e un rito gratuito, che è fine a se stesso (come la messa), dovrebbe aiutare non solo a comprendere, ma anche a provvedere alle soluzioni più equilibrate.

  • Il linguaggio elementare del culto

La Chiesa cattolica sa che nel culto trova, allo stesso tempo, il culmine e la fonte di tutta la sua azione. In un lungo percorso di riflessione e di esperienza, che comincia nei primi anni del XX secolo, la tradizione ecclesiale ha iniziato a recuperare la “dimensione comunitaria” del culto. Questo è il frutto anche dei traumi che due guerre mondiali hanno recato alle vite. Ma tutto questo è avvenuto assai lentamente, contro due “nemici”, che restano sempre in agguato, e che sono la cattura privata e la cattura pubblica del culto. Se riduciamo il culto a devozione privata o a “funzione istituzionale” cadiamo in contraddizione con la nostra storia più alta degli ultimi 100 anni. E qui dovremmo dire: 100 anni fa iniziavamo a vedere meglio ciò che oggi possiamo custodire! Il culto sta prima sia della sua versione privata, sia della sua versione pubblica: vive della comunione comunitaria, della intimità del contatto, del riconoscimento dello sguardo, del contatto diretto – di parole e di pasto – della Chiesa con il suo Signore.

  • La salvezza dell’uomo in comunità, non dell’anima

I nostri linguaggi sono vecchi: e la loro arretratezza emerge proprio “in extremis”. Appena è arrivata la “pandemia” la comunicazione ecclesiale è come impazzita. Abbiamo comunicato “ufficialmente” che il papa avrebbe “celebrato in forma privata” (quale contraddizione in termini peggiore si potrebbe escogitare?). Abbiamo sottolineato la autosufficienza del prete nei confronti della messa; abbiamo fatto normative “sul culto” che riguardavano solo i ministri, non il popolo. Così scopriamo di avere, proprio nel cuore delle nostre istituzioni, ciò che ci immunizza da una lettura vera e comunitaria del culto. Da un lato è facile pensare, ancora oggi, che tutta la liturgia sia ancora semplicemente “ufficio ecclesiastico”. Dall’altro si può leggere, alla fine del Codice di Diritto canonico, che tutta la struttura giuridica ha, come “lex suprema”, la “salus animarum”. Proprio qui, in questo “salto mortale” tra pubblico e privato, sta il cortocircuito che oggi viviamo in modo traumatico. Il soggetto della salvezza – come ha detto Guardini già nel 1918 – non è l’anima, ma l’uomo. Almeno nel culto non possiamo cavarcela “saltando” da pubblico a privato, dalla cerimonia all’anima. O elaboriamo una strategia “di comunità” o non ne veniamo fuori.

  • Le condizioni della intimità liturgica

Perciò una liturgia “a numero chiuso” resta una contraddizione in termini: può essere sopportabile solo se un “rito di passaggio” ha fuori di sé la propria ragione. Ma quando la Chiesa si raduna per celebrare la propria intimità con il Signore può farlo solo a certe condizioni. Se le condizioni non si danno, la Chiesa deve parlare e fare esperienza negli unici luoghi in cui si dà ancora una intimità e una gratuità della esperienza e della espressione: ossia nelle case. Che, con i loro limiti “privati”, soddisfano solo alcune delle condizioni di vita della Chiesa, ma almeno non la contraddicono.

 Essere celibi e restare senza casa

Qui aggiungo, infine, un’ultima questione delicata, che riguarda la vita “celibataria” dei ministri ordinati. La clausura civile mette in luce un aspetto di questa vita che è oggi è diventato molto rilevante. La vita celibataria è una vita “senza casa”. Una vita che fa, profeticamente, della comunità cristiana la propria casa. Ma le condizioni di pandemia violentano in profondità questa vocazione: poiché trasformano la comunità in spazio pubblico, sottraendo ai preti la loro casa. Questo giustifica, almeno in parte, alcune reazioni “affettive” proiettate sulla vita “confinata”. Ovviamente questo appare diverso per quei preti che, con una logica nuova, hanno accettato da tempo di “vivere insieme”. Per loro c’è anche la casa della comunità presbiterale. Anche in queste case può essere una possibilità che il digiuno eucaristico della Chiesa corrisponda ad una scelta dei ministri stessi. Che possono essere consolati dalla parola proclamata e dalla parola pregata. Luogo di presenza e luogo di salus animarum et corporum, su cui la comunità può fiorire. Per ora potrà farlo nelle “case”, per tornare presto alla “casa del Signore”, con nuovo e più esplicito desiderio di parola e di pasto, perchè il cuore arda e gli occhi riconoscano. E il corpo risorto del Signore si renda visibile nella comunità di coloro che fanno dell’amore la loro legge.