I Dodici. Dall’esperienza pasquale a «testimoni» della risurrezione (Giovanni Leonardi)

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Le chiese cristiane vedono nei «dodici», che troviamo con Gesù durante la vita terrena e nella comunità primitiva di Gerusalemme, i predecessori dei vescovi e dei presbiteri (1);

però per un esegeta è impresa ardua e complessa determinare qual era la loro funzione specifica e la trafila attraverso cui si è passati dalla fine del I secolo (cf. le Lettere Pastorali e più chiaramente Ignazio di Antiochia) alla struttura dirigenziale di ogni comunità cristiana espressa con la terminologia «vescovo, presbiteri e diaconi».

  1. I «Dodici» e le «dodici tribù» di Israele (2)

Nelle Scritture Ebraiche il numero «dodici » ricorre spesso in riferimento alle dodici tribù che formavano l’intero popolo ideale di Israele (cf Gn 35,22-26; Es 1,1-4; Nm 26,5-51;. Dt 33), tradizionalmente fatte derivare dai dodici patriarchi, figli di Giacobbe o Israele (Gn 29,31-30,24; Gn 49,1-28: spec. 49,28). L’espressione assumeva anche la valenza religiosa di popolo scelto da Dio e a lui legato con l’alleanza sinaitica: ne erano segno sensibile le dodici stele simboliche tradizionalmente erette nella celebrazione del sacrificio di stipulazione d’alleanza del Sinai (Es 24,4), nelle sue rinnovazioni (Gs 4,19-24), nella sfida di Elia (1 Re 18,31).

Dapprima con lo scisma e poi con la diaspora la riunificazione delle tribù disperse divenne un motivo escatologico (Is 11,1-6;27,12-13; 35,8-10; 49,6-22; 60,4-9; 66,20; Ger 30,3; 31,10; Ez

39,27s; Mi 7,1-12): il tema verrà ripreso anche nella letteratura apocrifa intertestamentaria (3); nei Testamenti dei Dodici patriarchi si divide idealmente il popolo giudaico nelle dodici tribù con gli antichi dodici nomi e si dice che le costituiscono gli abitanti della terra promessa e della diaspora.

Nella Regola di Qumran (1 QS 8,1) si parla di un consiglio formato da dodici uomini, tre dei quali sacerdoti; nota J. Mateos: «anche se non si attribuiscono a questi dodici funzioni determinate, pare che gli Esseni, dato che si consideravano la comumtà degli ultimi tempi, si ritenessero come una figura delle dodici tribù» (4); Paolo stesso chiama Israele «il nostro [popolo] delle dodici tribù» (At 26,7 gr.).

Perciò lo stesso Mateos conclude, facendo propria la posizione di K. Stock e A. Jaubert: «Si può pertanto dire che il numero dodici, sia nell’AT che al tempo di Gesù, simboleggiava l’unità e totalità del popolo eletto. Entrava così, come elemento essenziale nella prospettiva escatologica, quando Israele, come popolo delle dodici tribù, dovrà essere restaurato» (ivi).

In corrispondenza col numero delle tribù, pure dodici uomini secondo la tradizione ebraica erano stati designati a esercitare certe funzioni o per rappresentare l’intero popolo di Israele: così in Nm 4,1-19 dodici uomini, uno per tribù, sono eletti per fare il censimento degli uomini atti alla guerra, ciascuno nella sua tribù; poi gli stessi compaiono come capi dell’esercito di ogni tribù (Nm 2,3-31; 10,1-16) e offrono doni per il santuario, ciascuno come capo della sua tribù (7,2-3: 7,2LXX: hai dòdeka archontes).

  1. Gesù istituì il gruppo dei Dodici?

Come nota V. Fusco, «l’esistenza del gruppo dei discepoli e dei Dodici prima della pasqua, ma anche una loro attività missionaria prepasquale è accettata quasi unanimemente come un dato storico tra i più sicuri, sulla base dei vari criteri di storicità» (5).

Infatti non solo i tre vangeli sinottici – come vedremo – si soffermano sulla scelta e missione dei Dodici da parte di Gesù; ma già prima di loro Paolo nella I Corinzi, verso il 55, riporta la formula di fede pasquale tradizionale che recitava: Gesù «apparve a Cefa e quindi ai Dodici» e quindi, dopo altre apparizioni, «a tutti gli apostoli» (15,5.7: che risultano quindi un gruppo più vasto dei Dodici). Da notare inoltre che il dodici appare un gruppo collegiale tradizionale ben definito, dato che si continuava a dire «i dodici», anche se di fatto erano undici, dopo il tradimento di Giuda.

In una frase della Fonte Q (Lc 22,30 Mt 19,28), anteriore a Matteo e Luca e che quindi gode della patente di autenticità, lo stesso Gesù collega i Dodici con le dodici tribù: preannuncia infatti loro che nel giudizio escatologico per la partecipazione al regno di Dio siederanno accanto a lui su «dodici troni» a giudicare «le dodici tribù di Israele».

Lo stesso Giovanni, con tradizione autonoma dai Sinottici e quindi significativa, sa che Gesù aveva un numero più vasto di discepoli: un numero superiore a quelli dello stesso Battista (4,1), così che gli stessi farisei si lamentano che «tutto il mondo va dietro a lui» (12,19); riferisce che, alla fine del discorso sul pane di vita «molti dei suoi discepoli si tiravano indietro» (6,66). Questi «molti» discepoli risultano distinti dalla folla (6,2), ma anche dal gruppo dei Dodici (6,67-69): infatti subito dopo costoro, interpellati da Gesù come tali («voi i Dodici»), dichiarano per bocca di Pietro di voler perseverare nella fede in lui (6-67-69); sono presupposti come un gruppo già noto e già scelto da Gesù (6,70-71: cf 20,24).

Ammesso quindi che Gesù stesso abbia scelto un gruppo di dodici seguaci, gli stessi esegeti si chiedono quale delle due serie di riferimenti sopra riferiti fanno da sfondo alla scelta di questi Dodici da parte di Gesù: il popolo di Israele o i suoi dodici rappresentanti e capi?

La maggioranza degli esegeti si schiera per il primo significato e perciò J. Mateos conclude: «Escluso pertanto che la istituzione dei Dodici si ispiri a determinati episodi dell’AT dove dodici uomini dirigevano le tribù o tenevano una missione da esercitare con esse, resta come sfondo di questo numero lo stesso popolo di Israele, in quanto il numero dodici lo rappresentava come popolo dell’alleanza e lo costituiva il simbolo della pienezza escatologica» (6). La stessa Pontificia Commissione Biblica nel 1989, parlando di «Gesù di Nazaret», afferma: «Gesù appartiene al popolo giudeo e si rivolge a Israele. I suoi discepoli sono pure giudei e, quando sono inviati per estendere la sua azione, si limitano a Israele. Costituendo il gruppo dei Dodici […], Gesù pone un gesto profetico e manifesta la sua volontà di riunire di nuovo e di ricostituire il popolo di Israele con le sue dodici tribù, come la tradizione giudaica l’attende al tempo messianico» (7).

Invece Kl. Stock (pp. 37-40) si pronuncia per la seconda alternativa: pone la costituzione dei Dodici in parallelo con i sopraccitati dodici capi di Nm 1,4-19 e paralleli Si fonda soprattutto sulla frase «e saranno con voi» (kai meth’hymòn ésontai, Nm 1,4) [Mosè e Aronne], che vede in parallelo con la frase di Mc 3,14 «affinché siano con lui» (hina òsin met’auto).

La scelta esegetica adottata ha notevoli implicanze: nel primo caso Gesù abbozzò una chiesa «popolo di Dio», nel secondo solo una chiesa di «capi» o di vertice. A mio parere non dobbiamo contrapporre i due aspetti, ma vederli entrambi in maniera inclusiva: Gesù scelse i Dodici primieramente per significare e fermentare il popolo messianico escatologico e anche per formare con essi i suoi futuri capi. In questo senso si esprime lo stesso Vaticano II (8); e il documento ecumenico BEM di Lima del 1982 (9).

  1. Vita comunitaria con Gesù in vista della missione

I tre vangeli sinottici – riferendosi evidentemente à una tradizione comune – attribuiscono espressamente allo stesso Gesù l’istituzione dei Dodici e una loro missione esperimentale già durante la vita terrena.

Marco (3,13-19) racconta che Gesù, alquanto tempo dopo la chiamata dei primi quattro discepoli (le due coppie di fratelli Pietro-Andrea, Giacomo-Giovanni) e poi di Levi il pubblicano e di molti altri discepoli con lui, scelse tra la folla simpatizzante accorsa (cf 3,7-11) dodici persone, quelle da lui stesso volute e quindi giudicate adatte; precisa che Gesù li scelse dopo di essere salito su un monte (3,13), insiste per due volte sul numero dodici (3,14.16) e ne riporta i singoli nomi: voleva evidentemente far notare che Gesù, come già Dio al monte Sinai aveva scelto Israele, sceglieva in loro simbolicamente le dodici tribù di Israele quale popolo della nuova alleanza. Furono da Gesù scelti «perché stessero con lui» (3,14), cioè facessero vita comunitaria con lui, e così formarli coi suoi esempi e parole e poi mandarli quali suoi apostoli (cf il verbo apostellò già qui ricorrente) e collaboratori nella stessa predicazione messianica.

Alcuni esegeti sostengono che Marco identifica poi i discepoli e i Dodici in base ad alcune equivalenze (per es. 11,11.14; 14,14.17); la maggioranza invece vede una differenza tra i discepoli e i Dodici, così espressa da Kl. Stock: i discepoli sono i normali seguaci di Gesù. Marco non espone mai tematicamente i compiti dei discepoli e il loro rapporto coi Dodici; ma li distingue chiaramente in quanto nomina espressamente la speciale chiamata e i compiti che Gesù ha determinato per il circolo delimitato dei Dodici (3,l4-15) (10).

Matteo non narra la scelta dei Dodici da parte di Gesù, ma, quando inserisce l’elenco dei dodici apostoli come semplice introduzione nel discorso della loro missione (10,2-4), la presuppone già da lui attuata. Gli esegeti comunemente ritengono che Matteo, per attualizzare il messaggio, identifichi il gruppo dei discepoli e dei Dodici (11): ha infatti la formulazione «i dodici discepoli» (l0,l; 11,1; 20,17?; 26,20?), e una volta, nel contesto della loro missione, «i dodici apostoli» (10,2); intende infatti presentarli quali prototipi della prima comunità cristiana.

Luca nel Vangelo (6,12-16) fa proprio il racconto della scelta dei dodici di Marco; inoltre presenta Gesù che scelse i Dodici tra un gruppo più numeroso di discepoli, e nota che Gesù stesso impose a questi dodici il nome di «apostoli» (6,13). Il motivo di questa sua variazione o specificazione pare essere teologico, come risulta chiaro dal seguito del suo Vangelo. Infatti egli presenterà Gesù che manda in missione apostolica questi dodici discepoli nella regione della Giudea, e perciò alle dodici tribù di Israele che colà prevalentemente abitavano (9,1-6). Solo Luca poi narra che Gesù lungo la strada per Gerusalemme, attraversando la Samaria, designò e mandò (apostèllò) con direttive più o meno simili «altri settantadue discepoli», quali araldi a preannunciare il suo arrivo (12). È chiaro il significato generale: secondo Luca, Gesù scelse un «gran numero» di collaboratori o missionari, oltre i Dodici: per mandarli a tutti i popoli catalogati in settantadue nella carta geografica degli ebrei (cf Gn c. 10; Hen Et. 89,59); forse anche nel senso di loro collaboratori e continuatori, al modo dei 72 «presbiteri» o «giudici» scelti da Mosè quali suoi coadiutori nel governo del popolo (Nm 11,24-30; Es 18,13-27). Da notare che sia nei codici della Bibbia ebraica e dei Settanta sia nei codici evangelici il numero oscilla, con varianti di pari valore critico, tra 70 o 72.

Luca perciò, in vista di questo futuro sviluppo missionario, ha bisogno di sottolineare subito che Gesù aveva formato un gruppo assai vasto di discepoli per mandarli a tutti gli uomini: tra costoro forma dapprima un gruppo più ristretto, i Dodici, che invia subito alle dodici tribù di Israele, poi il gruppo dei 72 discepoli, quali loro continuatori, che invierà a tutti i popoli della terra. Da notare che il termine greco «apòstoli» aveva nelle primissime comunità cristiane (cf le prime Lettere paoline) un senso più vasto, non ristretto ai Dodici: indicava tutti gli inviati da Gesù risorto e anche gli inviati dalle comunità cristiane a fondare nuove comunità.

  1. Atti degli Apostoli: i dodici, testimoni e dirigenti

Già nel Vangelo (9,10; 17,5; 22,14: 24,10), ma soprattutto nella prima parte degli Atti (1,2.26; 2,37.42.43 ecc.) Luca non presenta mai i dodici come gruppo chiuso o isolato: la sera stessa di pasqua sono circondati da altri discepoli (24,33); nei giorni precedenti la pentecoste sono già al centro di un gruppo numeroso di «circa 120 fratelli» (At 1,13-16) e poi della comunità di Gerusalemme tutta impegnata con loro nell’evangelizzazione (cf 2,47; 8,4).

Questi «dodici apostoli» avevano il compito di testimoniare (At 1,8) tutto il messaggio – detti e fatti – di Gesù, di cui – come sottolinea Pietro – furono testimoni oculari dal battesimo del Battista, e quindi dall’inizio della vita pubblica, fino alla sua ascensione al cielo (1,21-22: cf Lc 1,2); lo comunicarono dapprima a Gerusalemme (At 1,4: cf 8,1.14), poi in Giudea (11,1), cioè alle «dodici tribù di Israele». Il loro compito principale fu quindi la trasmissione al popolo eletto per l’era messianica di tutto il messaggio di Gesù, alla luce della risurrezione, che ne è il vertice e la chiave di interpretazione.

La stessa Pontificia Commissione Biblica nel 1989 afferma: «I dodici apostoli (At 6,2), divenuti i servitori della Parola (cf Lc 1,2) […], sono i testimoni qualificati dell’azione, della morte e della risurrezione di Gesù» (At l,8.2l-22)» (13). Anche M. Dumhais conclude il suo studio annesso dicendo: «in quanto fonti e garanti della tradizione relativa al Gesù storico e al Signore risorto, i Dodici assicurano la continuità tra Gesù e la chiesa. Essi hanno dunque un posto unico, irrimpiazzabile nella chiesa. Dopo loro, non vi saranno altri apostoli. È alla loro testimonianza ormai, che si deve collegare tutta la testimonianza della chiesa» (14).

  1. Altri testimoni in continuità coi Dodici

Rileva però al riguardo A. Barbi: «Ci sembra […] suggestiva e non infondata la tesi di E. Nellessen che dall’analisi di alcuni testi (Lc 24,48; At 1,8; 1,22; 10,39.4ls e 13,31) è arrivato alla conclusione che Luca ha di vista una larga cerchia di testimoni tra i quali ha dato particolare risalto al gruppo dei dodici (At 2,32; 3,15; 5,32; inoltre 2,40; 4,33; 8,25)». In specie sono menzionati come «testimoni» Stefano (At 22,20) e Paolo (At 22,15; 26,16; cf At 18,5; 20,21.24:22,18; 23,11 bis; 26,22; 28,23), sul quale A. Barbi si sofferma, per poi concludere: «Da questi cenni su Paolo ci sembra di cogliere una duplice preoccupazione lucana. Da una parte egli assimila Paolo al gruppo originario mostrando la sua funzione di testimone come voluta da Dio e stabilita dal Risorto e presentando la sua testimonianza-annuncio in continuità con i primi testimoni. Dall’altra parte egli distanzia Paolo da quel gruppo, indicando che l’esperienza qualificante l’oggetto della sua testimonianza è quella del Signore esaltato e della sua guida nella missione universale» (15). È perciò il testimone della seconda generazione cristiana, precedente a quella di Luca; anche se al gruppo dei Dodici è affidata la missione universale (1,8), di fatto la loro azione non varca i confini della Terra di Israele; è invece Paolo, che, dopo la scomparsa dei Dodici (At c. 15) la porta a compimento (cf 26,17.20).

  1. Dai dodici/Pietro ai presbiteri/vescovo

Nei primi 15 capitoli degli Atti questi dodici apostoli con Pietro come gruppo risultano non solo testimoni di Gesù, ma anche dirigenti della prima comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme.

Nella comunità di lingua ebraica, rimasta a Gerusalemme, il gruppo dirigente dei dodici apostoli una quindicina d’anni dopo appare già stabilmente coadiuvato da un gruppo di presbiteri (11,30). Questi, che avevano loro portavoce Giacomo, parteciparono alle decisioni del concilio di Gerusalemme assieme ai dodici apostoli e a Pietro (15,2.4.6.22.23; 16,4) e a tutta la chiesa (cf 15,4.22). Dopo il concilio di Gerusalemme, Luca non nomina più «gli apostoli» e neppure il loro capo Pietro; ormai la comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme passa a essere diretta da Giacomo con un gruppo di presbiteri.

Anche Paolo e Barnaba fin dal primo viaggio apostolico posero a capo di ogni comunità pagano-cristiana un gruppo, che Luca chiama pure presbiteri (14,23). Intende così insegnare che la funzione testimoniale e direttiva dei dodici apostoli di Gerusalemme, e quella dei missionari itineranti Paolo, Barnaba, Silvano, Timoteo ecc. è ormai passata al gruppo dei presbiteri delle varie comunità; essi sono presieduti da un loro coordinatore che, nelle Lettere Pastorali (1 Tm 3,1-7), comincerà a venir chiamato al singolare «vescovo» (gr. Episcopos = «ispettore» o «sorvegliante»). A questo gruppo dirigente – secondo il testamento spirituale di Paolo ai presbiteri della comunità di Efeso (20,17-38) – ormai compete la funzione di vegliare su tutto il gregge come «vescovi» (episcopountes), per «pascerlo» nella testimonianza, fedeltà e attualizzazione della Parola evangelica (20,24.32).

  1. Sacchi (16) osserva che questa missione organizzata e controllata dai primi testimoni e dai loro continuatori riflette una preoccupazione e accentuazione di Luca: all’inizio essa dovette essere piuttosto un movimento di base, del tutto analogo al proselitismo ebraico senza organizzazione e centralizzazione, con la coscienza che la missione apparteneva a tutti. Del resto lo stesso Luca presenta impegnati nell’evangelizzazione non solo i Dodici e i loro continuatori – gli apostoli itineranti e i presbiteri delle comunità locali – ma anche tutti i cristiani, uomini e donne, tra cui spiccavano profeti, maestri o catechisti.

Giovanni Leonardi

 

Nota bibliografica

  1. LEONARDI, apostolo/discepolo, Nuovo Dizionario di teologia biblica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, pp. 196-123 (con bibliografia): in specie sul nostro tema pp. 109-112. 120-122.
  2. STOCK, Boten aus dem Mit-him-Sein. Das Verhiltnis zwischen Jesus und den Zwòlf nach Markus, Biblical Institute Press, Roma 1975; Id., vangelo e discepolato in Marco, Rassegna di teologia 19(1978)1-7 (sintesi).
  3. MATEOS, Los «Doce» y otros seguidores de Jesus en el Evangelio de Marcos, Ediciones Cristiandad, Madrid 1982.
  4. DUPONT, L’apostolo come intermediario della salvezza (pp. 103-122) e I ministeri nella chiesa nascente (pp 123-170), in Nuovi Studi sugli Atti degli Apostoli, Edizioni Paoline, Cinisello B. 1985, pp. 103-122, 123-170.
  5. SCHNEIDER, I Dodici apostoli come «testimoni» in Gli Atti degli apostoli, I, Paideia, Brescia 1985, pp. 305-320.
  6. ADINOLFI, L’apostolato dei Dodici nella vita di Gesù, Ed. Paoline, Milano 1985.
  7. PRETE, I «dodici» negli Atti degli Apostoli, in L’opera lucana. Contenuti e prospettive, Elle Di Ci, Leumann 1986, pp. 376-391.

COMMISSION BIBLIQUE PONTIFICAL, Unité et diversité dans l’Église, Vaticana, Città del Vaticano 1989: documento ufficiale dallo stesso titolo (pp. 9-28) e vari studi di suoi membri, tra cui: M. DUMAIS, Le ròle des Douze, de Pierre et de Jerusalem dans la fondation et la vie des Communautés chrétiennes des Actes, pp. 237-263.

  1. FUSCO, Dalla missione di Galilea alla missione universale. La tradizione del discorso missionario (Mt 9,35-10,42; Mc 6,7-13; Lc 9,1-6; 10,1-16), Ricerche storico religiose 2 (1990) 101-125.
  2. BARBI, La missione negli Atti degli apostoli, ivi, 127-154.
  3. SACCHI, La missione davanti alla parola di Dio (sintesi), ivi, 201-211.

Note

  1. Cf Vaticano II: LG: Ench. Vat., 330-335, 354-360; BEM, Bench. Oecum. 3121-3122. 3154-3160,
  2. Cf J. MATEOS, Los «doce», cit., pp. 48-52.
  3. 1 Henoch 90,32; salti; Apoc. Baruch 78,1; 1 Esdra 13,12s.39-47.
  4. Los «doce», cit., 49 (mia traduzione).
  5. Dalla missione, cit., 108-109.
  6. Los «doce», cit., p. 62.4
  7. Unité, II,2, p. 14.
  8. AG. Ench. Vat. 1096.
  9. Ench. Oecum,
  10. Boten, cit., 198-203.
  11. Cf K. STOCK. Boten, cit., 199.
  12. Per la presentazione esegetica di questi due discorsi rimando all’articolo di F. Mosetto in questo numero; per il problema della storicità della/e missioni vedi V. Fusco, dalla missione, cit., 123-125.
  13. P. 19.
  14. Le ròle des Douze, cit., p- 240.
  15. Pp. 145-147.
  16. La missione, cit., p. 208.

 (in Parole di vita, n. 1, 1999, pp. 6-15)