Il mistero del Natale: comunicazione di Santa Teresa Benedetta della Croce ocd (Edith Stein)

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I giorni del Natale

Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale cadono i primi fiocchi di
neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice parola emana un
fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi.
Ma per il cristiano – e in particolare per il cristiano cattolico – Natale è anche qualcos’altro. La stella lo guida
alla mangiatoia col Bambino Gesù, che porta la pace in terra. L’arte cristiana ce lo pone davanti agli occhi in
innumerevoli e delicate immagini, mentre antiche melodie, da cui risuona tutto l’incantesimo dell’infanzia, lo
cantano.
Nel cuore di colui che vive con la Chiesa, le campane del “Rorate” (1) e i canti dell’Avvento risvegliano una
santa e ardente nostalgia, e a chi si disseta alla fonte inesauribile della sacra liturgia il grande profeta
dell’incarnazione ripete, giorno dopo giorno, le sue grandiose esortazioni e promesse: “Stillate, cieli, dall’alto,
e le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni, Signore, e non tardare! Esulta,
Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!”.
Dal 17 al 24 dicembre le grandi antifone gridano con un desiderio e ardore crescente il loro “Vieni a salvarci”.
Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una nostalgia inappagata continua a
tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che le campane della Messa di mezzanotte
suonano e il miracolo della Notte Santa si rinnova su altari inondati di luci e di fiori :”E il Verbo si fece carne”.
Allora è il momento in cui la nostra speranza si sente beatamente appagata.

Seguire il Figlio incarnato di Dio

Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono ancora
divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi in una notte
oscura. Già all’indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e indossa il colore del
sangue: Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i bambini innocenti, i lattanti di
Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle rozze mani dei carnefici.
“Rallegriamoci tutti nel Signore, perché è nato nel mondo il Salvatore! Oggi la vera pace è discesa dal Cielo.”
[Notre Dame – Paris]
Che significa questo? Dov’è ora il giubilo delle schiere celesti, dov’è la beatitudine silente della notte santa?
Dov’è la pace in terra? “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Ma non tutti sono di buona volontà. Per
questo il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il mistero dell’iniquità aveva
avvolto la terra.
Le tenebre ricoprivano la terra, ed Egli venne come la luce che illumina le tenebre, ma le tenebre non
l’hanno accolto. A quanti lo accolsero Egli portò la luce e la pace; la pace col Padre celeste, la pace con
quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore e profonda del cuore; ma
non la pace con i figli delle tenebre.
Ad essi il Principe della pace non porta la pace, ma la spada. Per essi Egli è la pietra d’inciampo, contro cui
urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l’incanto del Bambino nella mangiatoia non
deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell’incarnazione e il mistero del male sono strettamente uniti. Alla luce,
che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante la notte del peccato. Il Bambino protende
nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue
labbra diranno: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e affaticati”.
Alcuni seguirono il suo invito. Così i poveri pastori sparsi per la campagna attorno a Betlemme che, visto lo
splendore del cielo e udita la voce dell’angelo che annunciava loro la buona novella, risposero pieni di fiducia
:

“Andiamo a Betlemme” e si misero in cammino; così i re che, partendo dal lontano Oriente, seguirono con
la stessa semplice fede la stella meravigliosa. Su di loro le mani del Bambino riversarono la rugiada della
grazia, ed essi “provarono una grandissima gioia”.
Queste mani danno e esigono nel medesimo tempo; voi sapienti deponete la vostra sapienza e divenite
semplici come i bambini; voi re donate le vostre corone e i vostri tesori e inchinatevi umilmente davanti al Re
dei re; prendete senza indugio su di voi le fatiche, le sofferenze e le pene che il suo servizio richiede. Voi
bambini, che non potete ancora dare alcunché da parte vostra: a voi le mani del Bambino nella mangiatoia
prendono la tenera vita prima ancora che sia propriamente cominciata; il modo migliore di impiegarla è
quello di essere sacrificata per il Signore della vita.

“Seguitemi”, così dicono le mani del Bambino, come più tardi diranno le labbra dell’uomo adulto. Così
dissero esse al giovane amato dal Signore e che ora fa anche parte della schiera disposta attorno alla
mangiatoia. E san Giovanni, il giovane dal cuore puro e semplice, lo seguì senza domandare: Dove? A che
scopo? Abbandonò la barca del padre e andò dietro al Signore su tutte le sue strade, fino al Golgota.
“Seguimi”, questo invito percepì anche il giovane Stefano. Egli seguì il Signore nella lotta contro le potenze
delle tenebre, contro l’accecamento della testarda mancanza di fede; gli rese testimonianza con le sue
parole e col suo sangue; lo seguì anche nel suo spirito, nello spirito dell’amore, che combatte il peccato, ma
ama il peccatore e intercede per l’assassino davanti a Dio anche in punto di morte.
Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi, che sono in
grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve nascere, ma che non
deducono alcun “Andiamo a Betlemme!”; il re Erode, che vuole uccidere il Signore della vita. Di fronte al
Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il Signore della Vita e della morte,
pronuncia il suo “Seguimi”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli lo pronuncia anche per noi e ci pone di
fronte alla decisione di scegliere fra luce e tenebre.

Il corpo mistico di Cristo

Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito della quale non
dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti amano il Signore
tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce, vanno al di là di questa
terra.
O scambio mirabile! Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero diventare figli di Dio.
Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva di nuovo riannodarlo e pagare
per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata e imbastardita, era in grado di farlo.
Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile. Egli è divenuto uno di noi, anzi di più
ancora, una cosa sola con noi.
Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola. Se le cose
stessero diversamente, la caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli altri. Egli è il nostro
capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino divino e rispondiamo con un
“sì” al suo “Seguimi”, allora siamo suoi, è libera la via perché la sua vita divina possa riversarsi in noi.
Non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della fede, però la
nostra vita non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Tale regno sopravvenne in
maniera diversa da come ce lo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I romani rimasero i padroni del
paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo povero sotto il loro giogo. Chiunque
apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi
dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma dentro era sorretto da una forza alata, che
rendeva dolce il giogo e leggero il peso. La vita divina, che viene accesa nell’anima, è la luce che è venuta
nelle tenebre, il miracolo della Notte Santa.

Essere una cosa sola in Dio

Essere una cosa sola con Dio: questa è la prima cosa. Ma una seconda ne segue immediatamente. Se nel
corpo mistico Cristo è il capo e noi le membra, allora noi siamo membra gli uni degli altri, e tutti insieme
siamo una cosa sola in Dio, una vita divina. Se Dio è in noi e se egli è amore, allora non possiamo che
amare i fratelli. Per questo il nostro amore del prossimo è la misura del nostro amore di Dio.
Ma si tratta di un amore diverso dall’amore naturale per gli uomini. L’amore naturale si dirige verso questo o
verso quello, verso chi è a noi legato da vincoli di sangue, da affinità di carattere o da interessi comuni. Gli
altri sono “estranei”, di essi “non ci importa alcunché”. Per il cristiano non esiste alcun “estraneo”. Cristo è
venuto per i peccatori e non per i giusti. E se il suo amore vive in noi, allora agiamo come lui e andiamo
dietro alla pecorella smarrita.
L’amore naturale tende ad avere per sé la persona amata e a possederla nella maniera più indivisa
possibile. Cristo è venuto per riportare al Padre l’umanità perduta; e chi ama col suo amore vuole gli uomini
per Dio e non per sé. Questa è naturalmente nello stesso tempo la via più sicura per possederli
eternamente; quando infatti abbiamo posto in salvo una persona in Dio, siamo con lei in Dio una cosa sola,
mentre il desiderio di conquistarla conduce spesso – anzi prima o poi sempre – alla sua perdita. Ciò vale per
l’altrui anima come per la propria e per ogni bene esteriore: chi si dedica alle cose esteriori per conquistarle
e conservarle, le perde. Chi ne fa dono a Dio, le guadagna.

“Sia fatta la Tua volontà!”

Tocchiamo così un terzo segno della figliolanza divina. Essere una cosa sola con Dio, il primo. Il fatto che
tutti sono una cosa sola in Dio, il secondo. Il terzo :”Da questo riconoscerò che mi amate, se osserverete i
miei comandamenti”. Essere figlio di Dio significa camminare dando la mano a Dio, fare la volontà di Dio e
non la propria, riportare nelle sue mani ogni preoccupazione e speranza, non affannarsi più per sé e per il
proprio futuro. Questa è la base della libertà e della gioia del figlio di Dio.
Tutti conoscono la parabola degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Ma quando incontrano una persona
che non possiede alcun bene, non ha alcuna pensione e alcuna assicurazione e tuttavia va incontro serena
al suo futuro, scuotono il capo come se si trovassero di fronte a un tipo strano. La fiducia in Dio rimane
incrollabile solo se essa include la disponibilità ad accogliere qualunque cosa dalla sua mano. Dio solo infatti
sa quel che è bene per noi. E se un giorno per noi dovessero esser meglio la miseria, la privazione, anziché
un reddito sicuro, oppure l’insuccesso e l’umiliazione al posto dell’onore e del prestigio, dovremmo tenerci
pronti anche a questo. Se lo facciamo, allora possiamo vivere il presente senza lasciarci turbare dal futuro.
Il “sia fatta la tua volontà”, in tutta la sua estensione, deve essere il criterio della vita cristiana. Esso deve
scandire la giornata dal mattino alla sera, il corso dell’anno e tutta la vita. E deve quindi essere anche l’unica
preoccupazione del cristiano. Tutte le altre il Signore le prende su di sé.
Chi appartiene a Cristo deve vivere tutta la sua vita. Deve maturare fino all’età adulta di Cristo, imboccare un
giorno la via della croce, dirigersi al Getsemani e al Golgota. E tutte le sofferenze che provengono
dall’esterno sono un nulla a paragone della notte oscura dell’anima, allorché la luce divina non brilla più e la
voce del Signore tace. Perché fa così? Siamo qui di fronte ai suoi misteri, misteri che non possiamo
penetrare fino in fondo. Un pò però li possiamo già perscrutare.
Dio è divenuto uomo per farci di nuovo partecipare alla sua vita. Partecipazione che era al principio e che è
l’ultimo fine. Ma nell’intervallo c’è ancora qualcos’altro.. Cristo è Dio e uomo, e chi vuol partecipare alla sua
vita, deve prender parte alla sua vita divina e umana. La natura umana da lui assunta gi diede la possibilità
di soffrire e morire. La natura divina, da lui posseduta dall’eternità, conferì alla sua passione e morte un
valore infinito e la capacità di compiere la redenzione.
La passione e la morte di Cristo continuano nel suo corpo mistico e in ognuna delle sue membra. Ogni uomo
deve soffrire e morire. Ma se egli è un membro vivo del corpo di Cristo, la sua sofferenza e la sua morte
diventano, grazie alla divinità del capo, redentrici.
Questo è il motivo oggettivo, per cui tutti i santi hanno aspirato a soffrire. Non si tratta di un desiderio
malsano. Gli occhi della mente naturale lo vedono come una perversione. Ma alla luce del mistero della
redenzione esso appare come estremamente ragionevole. E così colui che è unito a Cristo persevera
incrollabile anche nella notte oscura della lontananza soggettiva da Dio; forse la provvidenza divina gli
impone questo tormento per liberare una persona oggettivamente incatenata. Diciamo pertanto: “Sia fatta la
tua volontà!” anche e proprio per questo, nella notte più oscura.

Mezzi di salvezza

Ma possiamo ancora pronunciare questo “sia fatta la tua volontà” , quando non sappiamo più con certezza
che cosa la volontà di Dio esige da noi? Esistono mezzi così potenti che uno sbandamento, per quanto in
linea di principio possibile, diventa in realtà infinitamente inverosimile. Dio è infatti venuto per redimerci, per
unirci a sé, per rendere la nostra volontà conforme alla sua. Conosce la nostra natura. Ne tiene conto e ci ha
quindi fatto dono di tutto ciò che può aiutarci a raggiungere il traguardo.
Il Bambino divino è diventato il Maestro e ci ha detto che cosa dobbiamo fare. Per permeare tutta una vita
umana di vita divina non basta inginocchiarsi una volta all’anno davanti alla mangiatoia e lasciarsi prendere
dall’incanto della notte santa. A questo scopo bisogna stare quotidianamente in contatto con Dio per tutta la
vita, ascoltare le parole che egli ha pronunciato e che ci sono state tramandate, e metterle in pratica. Prima
di tutto bisogna pregare, così come il Salvatore ci ha insegnato a fare e ha continuamente e pressantemente
raccomandato. “Chiedete e vi sarà dato”. E’ una sicura promessa di esaudimento. E chi recita
quotidianamente di cuore il suo “Signore, sia fatta la tua volontà”, può confidare di non tradire la volontà
divina anche quando non ne ha più alcuna certezza soggettiva.
Inoltre: Cristo non ci ha lasciati orfani. Ha inviato il suo Spirito, che insegna a tutti noi la verità. Ha fondato la
Chiesa, che è guidata dal suo Spirito, e ha istituito in essa i suoi rappresentanti, dalla cui bocca il suo Spirito
ci parla in parole umane. In essa egli ha unito i fedeli in una comunità e vuole che ognuno sia responsabile di
ogni altro. Pertanto non siamo soli, e dove viene meno la fiducia nel proprio giudizio e anche nella propria
preghiera siamo soccorsi dalla forza dell’obbedienza e della forza dell’intercessione.
“E il Verbo si fece carne”. Ciò è divenuto verità nella stalla di Betlemme. Ma si è adempiuto anche in altra
forma. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Il Salvatore, ben sapendo che siamo
uomini quotidianamente alle prese con le nostre debolezze, viene in aiuto della nostra umanità in maniera
veramente divina. Come il corpo terreno ha bisogno del pane quotidiano, così anche la vita divina aspira in
noi ad essere continuamente alimentata. “Questo è il pane vivo, che è disceso dal cielo”. Per chi ne fa
veramente il suo pane quotidiano, in lui si compie quotidianamente il mistero del Natale, l’incarnazione del
Verbo. E questa è indubbiamente la via più sicura per conservare ininterrottamente l’unione con Dio e
radicarsi ogni giorno sempre più saldamente e profondamente nel corpo mistico di Cristo.
So bene che ciò apparirà a molti un’esigenza troppo radicale. In pratica essa comporta, per la maggior parte
di coloro che cominciano a soddisfarla, un rivoluzionamento di tutta la loro vita, interiore ed esteriore. Ma
appunto così dobbiamo fare! Nella nostra vita dobbiamo far spazio al Salvatore eucaristico, affinché possa
trasformare la nostra vita nella sua.
E’ questa una richiesta esagerata? Abbiamo tempo per tante cose inutili: per leggere ogni genere di libri,
riviste e quotidiani futili, per bighellonare da un caffé all’altro e passare quarti d’ora e mezzore a
chiacchierare per strada, tutte ‘distrazioni’ in cui sprechiamo e disperdiamo tempo e energie. Non ci è proprio
possibile riservare ogni mattina un’ora, in cui non ci distraiamo, ma ci raccogliamo, in cui non ci logoriamo,
ma accumuliamo energia per poi affrontare col Suo aiuto i nostri compiti quotidiani?
Ma naturalmente ci vuole più di una semplice ora del genere. Essa deve animare tutte le altre, sì da rendersi
impossibile “lasciarci andare”, fosse anche solo momentaneamente. Così succede nei rapporti quotidiani col
Salvatore. Diventiamo sempre più sensibili nel discernere ciò che gli piace e gli dispiace. Se prima eravamo
tutto sommato molto contenti di noi, ora le cose cambiano. Troveremo che molte cose sono cattive e nei
limiti del possibile le cambieremo.
E scopriremo alcune cose che non possiamo ritenere belle e buone, e che pur risulta tanto difficile cambiare.
Allora diventiamo a poco a poco molto piccoli e umili, pazienti e indulgenti verso le pagliuzze presenti negli
occhi altrui, perché abbiamo da fare con la trave presente nei nostri; e infine, impariamo anche a sopportarci
nella luce della presenza di Dio e ad affidarci alla sua misericordia, che può venire a capo di tutto ciò che si
fa beffe delle nostre forze.
Lungo è il cammino per passare dall’autocompiacimento del “buon cattolico”, che “compie i suoi doveri”, ma
per il resto fa come gli piace, ad una vita che si lascia guidare per mano da Dio ed è caratterizzata dalla
semplicità del bambino e dall’umiltà del pubblicano. Chi però l’ha imboccata una volta, non la rifà più a
ritroso.
La vita filiale in Dio significa perciò divenire piccoli e nel medesimo tempo divenire grandi. Vivere l’Eucaristia
significa uscire spontaneamente dalla meschinità della propria vita e addentrarsi negli ampi spazi della vita di
Cristo. Chi fa visita al Signore nella sua casa, non si occuperà più solo e sempre di sé e delle proprie
faccende, ma comincerà ad interessarsi delle faccende del Signore.
La partecipazione al sacrificio quotidiano ci immerge, senza che ce ne accorgiamo, nella vita liturgica. Le
preghiere e i riti dell’altare ripropongono continuamente davanti alla nostra anima, nel corso dell’anno
liturgico, la storia della salvezza e ce ne fanno penetrare sempre più profondamente il senso. E l’azione
sacrificale ci impregna instancabilmente del mistero centrale della nostra fede, cardine della storia del
mondo: del mistero dell’incarnazione e della redenzione. Chi può assistere con spirito e cuore aperto al
sacrificio eucaristico senza entrare a sua volta nel suo dinamismo, senza essere preso dal desiderio di
inserire se stesso e la propria piccola vita personale nella grande opera del Redentore?
I misteri del cristianesimo sono un tutto indivisibile. Chi ne approfondisce uno, finisce per toccare tutti gli altri.
Così la vita che si diparte da Betlemme procede inarrestabilmente verso il Golgota, va dalla mangiatoia alla
Croce. Quando la santissima Vergine presentò il Bambino al tempio, le fu predetto che la sua anima sarebbe
stata trafitta da una spada, che quel bambino era posto per la caduta e la risurrezione di molti e come segno
di contraddizione.
Nella notte del peccato brilla la stella di Betlemme. Sullo splendore luminoso che irradia dalla mangiatoia
cade l’ombra della croce. La luce si spegne nell’oscurità del venerdì santo, ma torna a brillare più luminosa,
sole di misericordia, la mattina della risurrezione. Il Figlio incarnato di Dio pervenne attraverso la croce e la
passione alla gloria della risurrezione. Ognuno di noi, tutta l’umanità. perverrà col Figlio dell’uomo, attraverso
la sofferenza e la morte, alla medesima gloria.

(conferenza che Edith Stein tenne nel 1931 per un gruppo dell’Associazione cattolica di Ludwigschafen