IL PELLEGRINAGGIO DOPO IL GIUBILEO.LE PROSPETTIVE BIBLICHE. DOM INNOCENZO GARGANO, Priore Monastero di S. Gregorio al Celio (Roma)

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Mi è stato chiesto di dare alcune linee per un approccio biblico al pellegrinaggio tenendo conto naturalmente di qualche pagina particolare del Nuovo Testamento. Non posso fare altro. Se avessi dovuto partire dal contesto patristico in cui viene ricevuta l’idea del pellegrinaggio cristiano, avrei dovuto tener conto invece di almeno due linee, in parte contraddittorie, presenti all’interno della grande tradizione, che tento comunque di richiamare brevemente.

Relativizzazione e superamento dei luoghi sacri

Una linea relativizza e supera i luoghi santi, soprattutto all’interno della grande teologia dei padri greci. La loro demitizzazione, nonostante tutto ciò che aveva fatto S. Elena nei territori di Terra Santa, fu piuttosto particolare. San Gregorio Di Nissa per esempio scrisse delle lettere molto critiche sui pellegrinaggi. Questo padre della Chiesa constatava che il pellegrinaggio era per molti solo un’occasione che noi oggi chiameremmo di “turismo” e spesso di “libertinaggio” e perciò più di una volta concludeva chiedendo ai suoi interlocutori: “Cosa andate a fare al Giordano? L’acqua che vi rinnova, che vi fa diventare creature nuove, non è forse l’acqua battesimale? Per quale motivo andate a cercare l’acqua del Giordano?. E lo spazio in cui il Signore si rivela non è forse lo spazio della comunità ecclesiale? Non è forse lo spazio eucaristico? Perché andate a cercare spazi che hanno avuto certamente un loro senso e un loro significato in passato, ma che adesso ormai si allargano fino a comprendere l’intera ecumene?”.

Anche in Occidente San Cipriano di Cartagine aveva ripetuto con chiarezza ai suoi fedeli: “Lasciate ai pagani la preoccupazione di individuare spazi particolari in cui rivolgere a Dio la vostra preghiera. Il cristiano infatti sa che, dopo la venuta di Cristo, il mondo intero è divenuto templum Domini e spazio in cui si adora il Signore”

In una linea diversa si pongono invece coloro che individuano nelle tombe dei martiri i luoghi divenuti tempio dello Spirito Santo, perché dai corpi dei martiri usciva o si espandeva il profumo appunto dello Spirito Santo.

Spesso però le due linee coincidevano nel pensiero dello stesso padre della Chiesa.

Lo stesso Gregorio di Nissa per esempio, che realizzava tanto i luoghi santi della Palestina, copriva poi di una venerazione particolarissima la tomba dei suoi genitori e del suo stesso fratello Basilio. Quante contraddizioni nei Padri! D’altra parte c’era anche chi, e sto pensando a San Girolamo, sentiva come un grande amore e privilegio poter peregrinare e mettere i propri piedi sulle stesse orme lasciate fisicamente dal Figlio di Dio fatto carne, sulla terra e precisamente sulla terra santa di Israele.

Una certa sacramentalità

Qualcuno arrivava addirittura a evidenziare una certa sacramentalità intrinseca a questi spazi “particolari” della Palestina, come se fossero una sorta di continuazione del Mistero dell’Incarnazione. Riteneva infatti che fosse molto importante per la fede cristiana rendere partecipi anche i sensi del corpo della memoria viva della presenza del Signore sulla terra e nella storia.

Se avessi dovuto tener conto solo del pensiero dei Padri della Chiesa mi sarei trovato dunque abbastanza

infatti in loro da una parte il tentativo di relativizzare e superare certe cose; ma dall’altra c’è anche una sottolineatura che, come ho appena detto, tende a definire certi luoghi come sacramentali. Esempio eccellente di quest’ultima convinzione fu la peregrinatio alle tombe degli Apostoli, qui a Roma oppure alla famosa tomba di San Giacomo di Compostela, o ad altri luoghi ritenuti spazi in cui vi era stata una sorta di epifania della divinità, San Michele sul Gargano – nei tempi immediatamente successivi all’epoca patristica – fu per esempio, proprio per una leggenda legata a simili convinzioni, uno dei luoghi più importanti nell’itinerario spirituale del credente europeo fino all’epoca moderna. Si arriva alla tomba dei martiri per attingerne in qualche modo la forza testimoniale e quindi riempirsi dello stesso Spirito – così si crede – che aveva animato i martiri della fede.

Ho pensato invece che vi avrei proposto degli strumenti più appropriati se, prendendo una pagina del Nuovo Testamento, fossi riuscito ad approfondire con voi l’atteggiamento interiore di una pellegrina particolare, che è Maria per esempio, suggerendo un confronto del suo particolare pellegrinaggio con quello dei discepoli di Emmaus i quali, partono da un determinata esperienza storica e scoprono lungo il cammino il Signore che li carica di un entusiasmo tale da farli ritornare là da dove erano partiti con una tensione interiore estremamente diversa.

Maria pellegrina di pace

Ho preso la pagina della Visitazione di Maria a Elisabetta. Siamo al cap. I di Luca, versetti 39-45.

Leggiamo dunque anzitutto questi versetti e poi tenteremo di approfondirli insieme. «In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo. A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta a me il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”»

Sono appena sei versetti eppure la pagina è di una pregnanza straordinari. Il testo greco comincia con un participio che in se stesso è già altamente rivelatorio: “Anastasa de Marian”. Sapete benissimo che “anastasis” significa resurrezione. Da che cosa è risorta Maria? A che si riferisce questo “anastasa”? Gli esegeti possono anche dirci che tutto sommato non bisogna dare troppa importanza a questo participio, perché Luca può utilizzare questo stesso verbo semplicemente per indicare qualcuno che si alza in piedi, niente di più.

In realtà la pagina precedente ci ha presentato Maria che, nel dialogo con l’Angelo, riesce a scoprire la sua vocazione più profonda identificata, al termine del colloquio, con quell’espressione “Ecce Ancilla Domini fiat mihi secundum verbum tuum”, che permette di individuare nella storia personale di Maria la stessa esperienza di Colui che si sarebbe presentato come il Servo di Dio per antonomasia.

Dunque il dialogo con l’Angelo aveva condotto Maria all’accettazione di una sua identità misteriosissima, che le aveva permesso di anticipare nella sua persona la stessa vocazione profetica che sarebbe stata poi manifestata da Gesù, Figlio di Dio fatto carne in lei piccola “ancella” di Nazareth.

Avendo condiviso con anticipazione profetica la stessa sorte del figlio che stava per nascere da lei, Maria aveva accettato anche tutte le conseguenze di questa obbedienza propria del servo, che avrebbe comportato sia la partecipazione alla morte di Cristo e alla sua sepoltura; sia – come indica Luca nel participio anastasa – la partecipazione alla sua resurrezione.

Essendosi conformata profeticamente alla morte del figlio, servo obbediente, essa sentiva adesso emergere dentro di sé anche la conformazione alla sua resurrezione.

Da qui nasce l’intuizione dei Padri della Chiesa, i quali definiscono spesso Maria prima evanghelitria, prima evangelizzatrice del Nuovo Testamento. Maria, che ha accolto dentro di sé tutto il mistero del Figlio, compresa la sua resurrezione, diventa anche portatrice di questa bella notizia alla casa di Giuda. Dice Origene commentando questo testo: “Maria dopo il saluto dell’angelo non poteva più restare nei territori pianeggianti”, perché i territori pianeggianti sono tipici delle anime piccole, di coloro che si immedesimano con le cose terra terra. Essa infatti non poteva più pensare alle cose della terra perché era stata elevata ormai alle cose del cielo.

Facendo riferimento a Paolo Origine aggiunge che Maria non può fare a meno di comunicare questa sua novità di vita a coloro che, come lei, vivono sulle alture, cioè in quegli spazi nei quali abitano le anime grandi che paradossalmente sono anche le anime umili, le più disponibili e le più povere. Maria evidenzierà tutto questo quando dira nel canto del Magnificat: “L’anima mia dichiara grande il Signore perché si è piegato sull’umiliazione della sua serva (badate bene: non sull’umiltà, ma sull’umiliazione della sua serva)… e d’ora in poi tutte le genti mi chiameranno beata”.

Tutto questo di nuovo in perfetta sintonia con ciò che afferma Paolo a proposito di Gesù il quale “proprio perché – dice ai Filippesi – svuotò se stesso fino al massimo dell’umiliazione, fu esaltato in modo tale che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi, in cielo, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore” (cfr. Filippesi 2,6-11).

Un approfondimento adeguata della pagina dell’Annunciazione ci permetterebbe di capire che ogni risposta dell’Angelo è stata per Maria un invito a rileggersi pagine determinanti dell’Antico Testamento per scoprire in quelle stesse pagine la profezia di ciò che si stava verificando in lei. Gesù farà la stessa cosa nella pagina dei discepoli di Emmaus (Lc 24,27) quando indicherà ai due, a partire da Mosè e dai profeti, ciò che lo riguardava in tutta la Scrittura.

Il pellegrino annuncia il vangelo

E siamo al punto di partenza di ogni pellegrinaggio: riuscire a scoprire la propria identità di discepoli partecipi della morte e resurrezione di Cristo da cui ha inizio la chiamata all’evangelizzazione. Il pellegrinare si coniuga così con la missione. E quest’ultima si rivela essere una condivisione di vita, una partecipazione di esperienza, non una imposizione. Si tratta infatti di offrire una testimonianza, l’esperienza vissuta lungo la strada nella incandescente conversione del cuore.

Sappiamo che tutto il Vangelo di Luca si svolge lungo la strada e che quando in apparenza la comunità si ferma nel tempio di Gerusalemme ha inizio di fatto il nuovo cammino della Parola che, come ci spiegano gli Atti degli Apostoli, arriva fino ai confini del mondo.

Dunque è da qui che si parte. Ogni pellegrinaggio credo che acquisti la sua autenticità a partire dalla capacità di coniugarsi con la missionarietà che a sua volta non è mai proselitismo ma è testimonianza, è proposta, è comunicazione di vita, lasciando che sia il Signore, come per i viaggi di Paolo, a scegliersi coloro che poi permetteranno alla parola ricevuta di radicarsi nel concreto dei singoli luoghi e delle singole comunità, di portare i suoi frutti.

Seguiamo intanto Maria che “abiit in montana cum festinatione”, con fretta. Una volta infatti che si è scoperta questa identità di fede, una volta che si è vissuta la conformazione alla morte e alla resurrezione di Gesù, non si può fare a meno di trasmetterla, in modo che chiunque vive nella verità, possa ascoltarne la voce. Luca

permette di scoprire tutto questo quando descrive il momento in cui Maria entra in casa di Zaccaria o di Elisabetta.

“Udito il saluto”; quale saluto? Lo shalom! Luca non lo dice, ma nessuno ebreo avrebbe potuto dire altro se non shalom entrando in una casa soprattutto se si trattava di una casa di amici, di parenti. Ai discepoli inviati da Gesù sarebbe stato prescritto: “Appena entrate in una casa dite: ‘Shalom’”. Shalom fu pure la prima parola pronunciata da Gesù risorto!

Il pellegrino annuncia la pace

E qui scopriamo una seconda dimensione: se siamo consapevoli che il nostro pellegrinare deve coniugarsi intrinsecamente con la nostra missionarietà, allora dobbiamo prestare attenzione anche al contenuto. Che cosa portiamo? Che cosa esteriorizziamo con la nostra presenza in certi luoghi? Lo shalom, la pace di Gesù risorto.

Lo shalom ha poi dei risvolti orizzontali e verticali straordinari. Dice Gesù risorto ai suoi discepoli: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”.

E inviandoli a due a due per città e villaggio aveva prescritto: “Appena entrate in una casa dite shalom. Se ci sono figli di pace la pace si fermerà in quella casa, sennò tornerà a voi”.

Il pellegrino che sia riuscito a coniugare il suo pellegrinaggio con la missionarietà diventa dunque spontaneamente annunziatore di pace: “Come sono leggeri i piedi dei messaggeri che annunziano la pace”! Tutto questo è bellissimo. Questa è la pace del pellegrino cristiano, cioè del missionario che non attraversa i mari, i fiumi e i monti per conquiste più o meno esaltanti, per proselitizzare o per allargare gli spazi del potere, sia pure spirituale, ma si fa itinerante con Cristo, solo per essere testimone di pace.

Proprio questo si verifica all’interno della casa di Elisabetta, in cui chi è figlio di pace ed è venuto per aprire la strada a colui che sarà il garante della pace universale, si accorge immediatamente della venuta della personificazione stessa della pace e si sintonizza con lui.

Lo shalom detto da Maria è forse da identificare col pronunciamento delle sue labbra? No. Lo shalom di Maria è colui che essa porta in grembo.

Maria entra nella casa di Zaccaria, ma è colui che Maria porta in grembo a creare shalom nella casa di Zaccaria e di Elisabetta. Ed ecco di nuovo l’intuizione di Origene: apparentemente sono due donne che si incontrano e si salutano e probabilmente si abbracciano, ma in realtà sono i bimbi che portano in grembo a riconoscersi a vicenda, e a scambiarsi la pace esultando fino al punto da costringere Elisabetta a una sorta di confessione di fede ante litteram e la stessa persona di Maria a riempirsi di gaudio fino a prorompere nel bellissimo canto del Magnificat.

L’esultanza che avverte Giovanni e che Giovanni comunica a Elisabetta è l’esultanza propria di chi ha ricevuto una bella notizia, ha ricevuto il Vangelo, ha ricevuto l’annuncio dello shalom, inaugurato nel mondo con la resurrezione di Cristo.

Queste sono letture interne al testo, letture sollecitate dalla riflessione di fede dei Padri, letture che possono apparire, dal punto di vista strettamente esegetico, eccessive e tuttavia sono letture profondamente vere.

Riprendiamo il testo: “Appena Elisabetta ebbe udito lo shalom di Maria – permettetemi questa traduzione – il bambino le sussultò nel grembo”. E’ già iniziata la nuova vita e l’allegrezza, che ormai contamina tutto intorno a sé, arriva con il pellegrino portatore di pace che tutto cambia e trasforma.

Pensate a quante volte voi stessi potete aver fatto questa stessa esperienza, quando siete capitati o in un monastero o in un santuario abbandonato o in certi piccoli

insediamenti delle nostre umili realtà cattoliche o cristiane in Terra Santa. Arrivate voi e arriva la vita in quelle comunità. Il saluto fraterno indica la fraternità ritrovata ma è anche comunicazione di gioia che fa dire: “ecco, è arrivato qualcuno con cui mi posso sintonizzare nella fede”.

Questa particolare comunicazione di gioia permette di sintonizzarsi pienamente con l’ospite e rafforza la fede. Cosa scopre infatti Elisabetta? Dice il testo di Luca: “Elisabetta fu piena di Spirito Santo” L’esultanza del bambino, spiega Origene, produce in Elisabetta un’esperienza di pienezza che è propria dello Spirito Santo.

La pienezza del dono dello Spirito è dunque legata alla sintonizzazione che il bambino, che essa portava nel grembo, ha potuto sperimentare col bambino portato in grembo da Maria.

“Piena di Spirito Santo – dice il testo – esclamò a gran voce”. Anche questo è un grido di gioia, un grido che non può essere contenuto. E’ questa la gran voce.

E cosa le dice? “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo”. Cioè: tu sei punto di riferimento di tutte le donne, perché il frutto del tuo grembo è irradiazione della pace, dello Shalom e dunque della vita.

Se di nuovo identifichiamo Maria con la pellegrina, allora scopriamo che in lei, divenuta l’evanghelitria, il pellegrino acquista una dignità enorme dal momento che, compiendo il suo viaggio nella fede, diventa irradiazione di Colui che porta nel cuore. Il pellegrino può non parlare neppure. Infatti Maria, fino al Magnificat è completamente silenziosa lasciando che sia il mistero ineffabile che porta nel grembo a parlare per lei.

Elisabetta aggiunge: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?”. Si tratta certamente di un’aggiunta della comunità di fede. E’ difficile immaginare che Elisabetta fosse talmente ispirata di riconoscere in Maria la madre di Dio come confessa la fede cristiana. L’evangelista però vuole spiegare, con queste parole, che la sintonizzazione fra le due donne è divenuta a tal punto perfetta da permettere loro di scoprire addirittura l’ultima identità di Maria riconosciuta come madre del mio Signore.

Una cosa enorme. In nessun altro testo del Nuovo Testamento troviamo una confessione di fede sull’identità di Maria così precisa. Pensate che, perché questo diventasse la pubblica condivisione gioiosa di tutta la chiesa si è dovuto attendere l’anno 431 in cui ad Efeso, in un Concilio Ecumenico, venne solennemente acclamata Maria come Theotokos, cioè Madre di Dio.

Elisabetta stessa spiega il perché sia arrivata a questo straordinario riconoscimento quando, ripensando all’esultanza del figlio che portava in grembo, aggiunge: “Appena la voce del tuo Shalom è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo”. L’esultanza, un’esultanza di gioia, è partita dalla percezione dell’orecchio: fides ex auditu.

Il contatto fisico è dunque estremamente importante. E qui di nuovo ritorniamo al nostro tema del pellegrinaggio. E’ importante stringere una mano per comunicare il calore, l’affetto, la gioia della fraternità ritrovata. E’ importante far visita a chi si sente abbandonato, a chi si sente isolato, a chi può attraversare momenti di estrema tristezza e depressione.

Pensate alla situazione che si vive attualmente in Palestina o in Israele. Quanto sarebbe urgente farsi vicini fisicamente a questi nostri fratelli, esigua minoranza, non forse perseguitati, ma certamente carichi di enormi difficoltà. Aggiungo che, se dovessimo favorire dei pellegrinaggi dovremmo farlo soprattutto pensando a quegli ambienti, a quei luoghi, dove è più difficile per la minoranza dei credenti riuscire a dare con gioia la propria testimonianza di fede. Direi che dovrebbero essere privilegiati non quei luoghi dove vanno tutti, dove ci si può magari un po’ “gasare” e sperimentare quel sottile trionfalismo che può nascondere ancora una certa sete non del tutto superata di

proselitismo, di autoaffermazione o di trionfalismo più o meno ambiguo, ma piuttosto quei luoghi nei quali è più difficile per le minoranza cristiane mantenere la fedeltà richiesta dalla testimonianza di Gesù risorto.

Il pellegrinaggio di Maria ha permesso dunque ad Elisabetta, che nella sua ristrettezza e sterilità aveva ricevuto la gioia di un concepimento, di esultare di gioia insieme con il suo bambino.

L’evangelista si ferma un attimo permettendoci così di contemplare questo incontro meraviglioso fra le due Arche sante del Signore: quella dell’Antico e quella del Nuovo Testamento.

Il riferimento, bellissimo, all’arca è alla fine del testo nella nota dei tre mesi passati da Maria in casa di Elisabetta, ma già fin da ora possiamo pensare che Maria di fatto venga percepita da Elisabetta come arca che garantisce la presenza del Signore in mezzo al campo, in mezzo all’attendamento del suo popolo, in casa sua, nelle parole: “A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?”.

Il pellegrino vive la fede

E arriviamo all’ultima espressione, quella più pregnante, sulla quale i Padri dell’Oriente e dell’Occidente si sono piegati di più: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore”.

Cosa significano queste parole? Dovremmo cerca di giustificare tutto questo esegeticamente e considerare che quel “oti” greco può essere sia un “oti” dichiarativo, sia un “oti” causativo. Ma che cosa hanno capito i Padri, nostri maestri, quando hanno letto e pregato questo versetto? E, anzitutto: perché Maria è beata? Maria è già stata definita la Benedetta fra le donne perché riconosciuta spazio privilegiato del Benedetto, l’arca in cui Dio ha posto la sua dimora. Essa ha già tutto ciò che una donna potesse desiderare. Come mai si aggiunge questa beatitudine: “Beata colei che ha creduto”? Che cosa intende dire l’evangelista con queste parole poste sulle labbra di Elisabetta?

Spesso ci siamo sentiti dire anche noi durante un pellegrinaggio: “beato tu che te lo puoi permettere”. Infatti un pellegrinaggio può essere spesso anche legato alle possibilità concrete, direi economiche dei pellegrini stessi. Ma è di questo che si parla qui? Certamente no. Maria è beata perché ha creduto. Ma in che cosa ha creduto? Due correnti patristiche che più o meno si equivalgono, sia in Oriente come in Occidente interpretano in modo doveroso questo riferimento alla fede di Maria. Una prima corrente patristica dice: Maria è beata perché dicendo sì ha permesso l’adempimento delle parole del Signore. E’ il fiat di Maria! Il mondo intero era sospeso al suo fiat. Pensate alla bellissima terracotta di Della Robbia nel Santuario della Verna: il mondo intero, lo stesso Padre Eterno in alto, è sospeso alla risposta di Maria. Quanti nostri Padri spirituali hanno insistito sull’importanza di questa adesione alla proposta del Signore. E’ del tutto legittima ed è bellissima una simile interpretazione. Essa permette infatti di capire che Maria non è uno strumento morto, ma è una persona libera che risponde con tutta se stessa alla proposta del Signore.

Ne risulta una dignità enorme riconosciuta a Maria e conseguentemente una dignità enorme riconosciuta al credente. Qual è infatti il modo con cui noi rendiamo possibile l’adempimento delle parole del Signore? La fede. E come si esplicita la fede? Attraverso la nostra adesione.

Il Signore è sospeso al nostro “si”. Se io avessi detto di no non sarei qui a parlarvi. Non sarei stato infatti né sacerdote né monaco. E tutti voi potreste dire la stessa cosa, ciascuno secondo le vostre vocazioni personali. Dobbiamo dunque ammettere che il sì di Maria è stato determinante. I teologi potrebbero speculare che se non avesse detto sì lei lo avrebbe detto forse qualcun’altra; ma non occorre perdersi

dietro i se. Di fatto Maria ha risposto dicendo il suo sì e il Signore, che l’ha rispettata, ha preso sul serio il suo sì e ne ha tratto tutte le conseguenze.

Bisognerebbe riprendere in mano la pagina precedente di Luca quella dell’Annunciazione, e constatare rigo per rigo la fatica che ha fatto l’Angelo per sollecitare Maria all’adesione, senza imporgliela, perché fiorisse dall’interno di sé, mettendola di fronte alle grandi cose, ai magnolia Dei, alle grandi opere realizzate da Dio lungo la storia di Israele, fino a condurla liberamente a dire: “eccomi, si compia ‘anche’ in me la ‘sua’ Parola”.

A questa interpretazione siamo affezionati tutti. Essa ci dà un’enorme gioia perché ci carica di dignità, di responsabilità, di rispetto per la libertà nostra e altrui. Eppure, dicono i Padri, non basta questo tipo di interpretazione. Ce ne può essere anche un’altra, più drammatica, e anch’essa ci tocca tutti. Questa seconda interpretazione insiste sul fatto che la Parola del Signore si sarebbe comunque “compiuta” e dunque Maria è definita “beata”, perché ha colto il “kairos” (l’opportunità) e non se l’è fatto sfuggire.

Elisabetta avrebbe detto: “Beata te, perché se tu non ti fossi messa nella corrente della grazia, se tu non avessi colto il kairos, la realizzazione del progetto di Dio, sarebbe andato avanti lo stesso ma tu ne saresti stata tagliata fuori”. Una simile interpretazione è molto drammatica ma essa serve per scoprire anche l’altra lato della medaglia. E cioè, che è verissimo che Dio ci rispetta, è verissimo che Dio si attende da noi la nostra adesione personale, libera, un’adesione d’amore gratuito, e tuttavia rimane un rischio gravissimo: quello di non approfittare dell’occasione propizia, del momento opportuno e di essere così tagliati fuori dal suo progetto di salvezza.

Diventa molto drammatico, ripeto, tutto questo, ma ogni volta che mi confronto con la figura di Maria sia con la prima pagina, quella dell’Annunciazione, sia con questa seconda pagina, quella della Visitazione di Maria, e ancora di più con la terza pagina, quella del Magnificat, non posso fare a meno di scoprire quest’altro lato della misteriosa personalità di Maria.

Maria è davvero una donna forte, non è quella silhouette dipinta con colori tenui, tutti delicati e soffusi. No. Maria è una donna forte e quando ho cercato altre pagine che mi permettessero di cogliere il senso ultimo che si nascondeva dietro la sua misteriosissima personalità, l’ho trovata solo nella pagina in cui Luca parla della lotta di Gesù con la volontà del padre al Getsemani.

Proprio nel combattimento (agonia) in cui Gesù ha bisogno di Gabriel, cioè dell’Angelo identificato con la forza stessa di Dio, io scopro la drammaticità del fiat detto da Maria in perfetta sintonia col fiat voluntas tua detto da Gesù nel Getsemani.

Siamo dunque di fronte ad una donna che è lottatrice, una donna che – direbbero i Padri – di donna ha soltanto i lineamenti fisici ma in realtà è un vero uomo, come si esprime Gregorio di Nissa a proposito di sua sorella Macrina.

Mettetevi nei panni adesso di questa “virago” pellegrina che ha saputo coniugare il pellegrinaggi con la sua missionarietà, che ha portato dentro di sé lo Shalom che ha rivoluzionato l’atmosfera esterna e interna delle persone da lei incontrate lungo il suo pellegrinaggio, ma poi lasciatevi prendere per mano da questa donna che si chiama Maria. Non rendetela evanescente, scoprite invece la fortezza straordinaria di questa donna e l’apertura totale del suo cuore davanti a Dio e avrete un modello insuperato da proporre nei vostri viaggi ai vostri pellegrini in ogni tipo di pellegrinaggio cristiano.