Il prete in piazza

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Storia di don Francesco il parroco romano con la chiesa sempre aperta

Il prete in piazza“Ufficio parrocchiale”. Suono il campanello. Nessuna risposta. Aspetto un po’ e riprovo: ancora silenzio. Allora chiamo sul cellulare: «Don Francesco, avevamo un appuntamento alle 18, ricorda?», «Sì. Certo. Sono qui nel mio ufficio». «Veramente non risponde nessuno». «Sono in ufficio se ti volti mi vedi». In effetti mi volto e lo vedo, circondato da un gruppetto di persone.Il malinteso è che per don Francesco l’“ufficio” è la pittoresca piazzetta della Madonna ai Monti. È lì che don Francesco passa gran parte dei pomeriggi, parlando, ascoltando, confortando, suggerendo, aiutando. Mi avvicino, saluto, e colgo subito che il prete ha competenze che spaziano a 360 gradi: tiene banco nel gruppetto sul tema delle gomme da pioggia di Hamilton in F1, per poi passare con molta autorevolezza ai dilemmi di Higuain nel calcio mercato. «Confesso di avere un difetto di inculturazione in questo antico quartiere romano e romanesco di Monti: sono juventino… penso di essere l’unico in tutto il rione però i monticiani mi vogliono bene lo stesso».
Don Francesco Pesce, 55 anni, parroco di Santa Maria ai Monti, ha preso alla lettera l’invito di Papa Francesco per una chiesa “in uscita”. «Devo dire che ho sempre pensato che un prete debba vivere il più possibile in mezzo alla sua comunità. La parrocchia non è un edificio fortificato da difendere, è innanzitutto una comunità di persone che vive in un territorio». Monti è un quartiere particolare, pur situandosi nel pieno centro di Roma conserva un antico sapore popolare. La composizione sociale è tripartita: accanto agli ormai anziani monticiani, vivono un discreto numero di professional e manager che trovano cool vivere lì dove una volta si stendeva l’antica Suburra, il quartiere malfamato dell’antica Roma — dove erano nati Giulio Cesare e Marziale — oggi invece vicino ai centri del potere romano. E la sera la movida, frotte di giovani che si ritrovano per bere un drink nei vari localini che hanno soppiantato molte vecchie botteghe artigianali per le quali la zona era famosa. «Ma è una movida ordinata, non caciarona», spiega don Francesco. In pratica un paesotto all’interno della città, dove tutti si conoscono, «una periferia nel centro».
Chiesa in uscita, periferie dell’anima, accoglienza degli stranieri, ascolto empatico, rifiuto dell’autorefernzialità e del clericalismo: tutto il lessico caratteristico di Papa Francesco è divenuto stile pratico di vita per questo prete romano che prende alla lettera con entusiasmo ogni parola che esce dalla bocca del Pontefice. «Io sono diventato prete un po’ tardi. Prima — ricorda — facevo l’istruttore di guida. Che è un bel mestiere, perché sei in un cubicolo con un estraneo con cui cominci a parlare magari con una confidenzialità che non usi con chi conosci da sempre. Mi ricordo del mio mestiere antico ogni volta che entro in confessionale». «Non è stato un colpo di fulmine — dice parlando della sua vocazione — ma un lento progredire. Come d’altronde deve essere per i veri amori. I colpi di fulmine regalano solo innamoramenti, non amori». «Il mio di amore — prosegue — è iniziato con la lettura degli scritti del Papa Paolo VI. Fantastico! Una sintesi straordinaria di razionalità e sensibilità, spiritualità e immensa cultura. La Chiesa di oggi è figlia di Paolo VI, è lui che ha portato la “grande rottura” ma nel solco della Tradizione. Ecco, il mio amore per Papa Francesco nasce da qui: anche Papa Francesco è un uomo di rottura. Una “rottura” che ad alcuni spaventa, ma che era ed è necessaria: come dice lui, meglio una Chiesa accidentata che addormentata. E che fossimo un po’ addormentati, soprattutto sui fronti della carità e della misericordia, con umiltà dobbiamo ammetterlo», non lo manda a dire.
«Vieni, ti faccio vedere la mia parrocchia», e anche qui capisco male. Penso voglia farmi vedere la bella chiesa gesuita realizzata da Giacomo Della Porta (che poco distante aveva, qualche anno prima, realizzata la Chiesa del Gesù) e invece per “parrocchia” intende il quartiere che è affidato alla sua cura pastorale. La nostra conversazione si svolgerà nell’arco di più di due ore camminando tra le stradine di Monti. Conversazione non semplice perché ogni 50 metri siamo fermati da qualcuno, «Come vanno gli affari?». «Bene don France… Da quando m’avete benedetto er negozio…». «Seee… piuttosto domenica a messa non c’eri». Li conosce uno a uno. «Ho cambiato gli orari delle messe. Dicono che viviamo nella società post-industriale, ma i ritmi della Chiesa a volte non conoscono neanche la società industriale, siamo fermi a quella agricola. Se fai la messa alle sette di mattina non puoi lamentarti che vengono solo le vecchine. Io ho messo una messa alle 13.15 così vengono gli impiegati della Banca d’Italia e degli altri uffici in pausa pranzo. E poi una messa alle 21, che è affollatissima».
«Quando il Papa ha detto che non è giusto tenere le chiese chiuse — spiega — ho subito aderito con entusiasmo. Ora la nostra chiesa è aperta ininterrottamente dalle 7 alle 22. Capisco che possano esserci problemi di sicurezza, ma non sono insormontabili. È un peccato chiudere le chiese del centro da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio». Sembra incredibile ma il settore centro di Roma è quello dove vivono in percentuale rispetto al totale degli abitanti il maggior numero di stranieri: molti uffici e pochi abitanti ma molti portieri, custodi, guardiani, fattorini, tutti stranieri. «Quando il Papa ci ha invitato all’accoglienza durante la crisi siriana — ricorda — ci siamo subito attivati. La mia canonica era troppo grande per me. Ne sono usciti due appartamenti più piccoli e uno è dedicato all’accoglienza di rifugiati e migranti. Finora ne abbiamo ospitati sedici». Mi piace che don Francesco dica sempre al plurale, «abbiamo», pur essendo solo. «I laici — dice — mi hanno aiutato molto. Le lenzuola, il mangiare, la lingua, ecc. Però… manca qualcosa». «Cosa don Francesco?». «Non so. A volte ho la percezione che l’accoglienza dello straniero, del povero, pur se efficiente non cambi in profondità le persone che la operano. Che rimanga in superficie, non interpelli, non interroghi. Bravi parrocchiani che mi aiutano ad accogliere questi poveretti, ma che poi mi dicono che va bene chiudere i porti. Il volontariato vissuto come una sorta di dovere etico necessario, ma che non è occasione di crescita umana e spirituale».
Questa osservazione rimanda il discorso sui laici: «Siamo tanto indietro sul ruolo dei laici nella vita della Chiesa. La percezione, tutt’oggi, è che la Chiesa sia proprietà di vescovi e preti, i laici invece dei portatori d’acqua. Quando prima parlavo del carattere di “rottura” di questo pontificato proprio a questo mi riferivo: Papa Francesco non manca occasione di colpire quello stile autoreferenziale che va sotto il nome di clericalismo. È il male peggiore il clericalismo. Attenzione, anche i laici possono essere ammalati di clericalismo, se ne incontrano non pochi nelle esperienze parrocchiali. Succede ogni qualvolta che in cui si scambia la professione di fede con il bisogno psicologico di identità. Ma questo è il contrario dell’essere cristiano. La cifra dell’essere cristiano è piuttosto la libertà nell’amore».
Continuiamo la nostra passeggiata per le strade del quartiere, davanti alla chiesa dell’esarcato ucraino. «Lavoriamo insieme col prete ucraino, perché tante delle badanti dei miei vecchietti sono sue parrocchiane», lo salutiamo e ci inerpichiamo su una salitella. «Qui una volta c’erano gli “zingari”, vivevano in pace», una lapide ricorda le genti rom, sinti e caminanti deportate e sacrificate nei campi di sterminio nazisti. «Per chi ha la mia età razzismo e fascismo sono parole tabù, immaginavamo che fossero sepolte per sempre. Mi sembra incredibile che siamo di nuovo qui a farci i conti». Ora scendiamo lungo uno slargo da cui parte una lunga stradina da cui si scorge il campanile di Santa Maria Maggiore. «Questa è la strada delle “case chiuse”. Qui la prostituzione ha una storia millenaria, dai tempi di Messalina», dice ridendo. «Nella benedizione pasquale delle case ci sono passato, ho suonato, mi hanno aperto, e ci siamo messi a chiacchierare. Abbiamo costruito un rapporto di confidenza e di aiuto. Sono perlopiù straniere, ne hanno bisogno».
Nel quartiere ci sono anche una decina tra conventi, case religiose e rettorie, e anche qui, a proposito di autoreferenzialità, don Francesco non la manda a dire: «Ma non è che lascino un’impronta marcata nella vita del quartiere». Ci sono anche protestanti e orientali: «Ci incontriamo nelle occasioni ecumeniche che proponiamo, mi piace frequentarli, loro e le loro famiglie. Io sono felice del mio celibato ma mi fa piacere vedere questi preti sposati, danno un senso di serenità».
«A don France’ è uscito er calendario der campionato, stavorta ve famo penà all’urtima giornata», lo bloccano due parrocchiani ovviamente romanisti. «Mi piace questa pastorale del “tu a tu” per strada. Da sempre il brano della Scrittura che più ha ispirato la mia missione è il racconto, negli Atti degli apostoli, del battesimo dell’eunuco da parte di Filippo. Lo incontra e fanno un pezzo di strada insieme. È uno straniero, “capisci quello che stai leggendo?”, e gli spiega la Scrittura. C’era dell’acqua lì vicino: “Cosa mi impedisce di essere battezzato?”. Io questo cerco di fare: giro per il quartiere, incontro la gente per strada, gente che ha sete di una Parola, provo a darla, e cosa mi impedisce di battezzarli, confessarli, confortarli, dargli una speranza. Non li giudico, li ascolto. Appunto: cosa me lo impedisce?». «Io sono ottimista: in giro c’è tanta domanda di significato, di spiritualità, le chiese si svuotano quando stiamo lì ad aspettare, ma non quando andiamo fuori a cercare».
S’è fatto tardi, i monticiani lasciano la piazza ai giovani della movida, è una serata molto calda, e don Francesco va a prepararsi per la messa delle 21. La piazza brulica di gente, ma la chiesa non è da meno.
di Roberto Cetera