Il teologo francese Collin: «Il cristianesimo non sia soltanto etica»

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Il teologo francese critica un certo modo esclusivamente morale di vivere la fede. «Invece di parlare di Vangelo dobbiamo far parlare il Vangelo»

Non è molto frequente che un teologo si rifaccia a un letterato. Di solito la teologia viaggia su binari più razionali rispetto a quelli della narrativa, maggiormente legata all’immaginazione. Per questo, quando Dominique Collin intitola il suo ultimo lavoro, il primo tradotto in italiano, Il cristianesimo non esiste ancora (Queriniana, pagine 198, euro 22,00) attingendo a una citazione di Julien Green, ci sono tutte le premesse perché il testo si presenti ricco di significati. E le pagine, densissime, di Collin, docente di teologia al Centre Sèvres di Parigi, non tradiscono le attese. Confermando che oggi l’ordine dei Domenicani, sta continuando a vivere una stagione di feconda vitalità intellettuale, come da dna della casa: oltre a Collin, classe 1975, francese, residente a Liegi, in Belgio, autore già di diversi testi, sono da menzionare l’ancor più giovane Adrien Candiard (1982), islamologo molto apprezzato, di stanza a Il Cairo (dove di recente è stato eletto priore) e altrettanto sagace autore di spiritualità, nonché Éric Salobir, ex banchiere, entrato tra i frati nel 2000, creatore di Optic , un think thank dedicato all’etica delle nuove tecnologie.

Ma torniamo a Collin. Il cui volume ha diversi meriti e un piccolo limite. Anzitutto mette in dialogo fecondo tre autori di diversa epoca: Soren Kierkegaard, Michel de Certeau e Maurice Bellet. Molto citati nel testo sono anche i contemporanei Christoph Theobald, Paul Evdokimov e Alexander Schmemann. Dal pensatore danese l’autore riprende lo spunto radicale della paradossalità del cristianesimo e dell’irriducibile differenza tra fede e religione: «Non appena la religione esce dal presente esistenziale in cui è attualità pura, immediatamente si ottunde. Quando si ammorbidisce e in tal modo diviene meno vera, lo si vede subito poiché degenera in dottrina». Dal gesuita del ‘68 Collin mutua la formula del «credere debole», non come pedissequa analogia del pensiero debole, ma rilevando la fragilità della fede che non si impone tramite l’alleanza col potere bensì diventa parola che si propone, soprattutto nell’ascolto. Terzo, dall’autore di La quarta ipotesi Collin attinge lo scavo psicoanalitico e purificante la parola di fede, cercando di andare in profondità, dietro e dentro il testo biblico: la lettura esegetica del brano della resurrezione di Lazzaro, a tal riguardo, raggiunge livelli di notevole maestria spirituale. Citiamo di sfuggita il suo limite: un calcare troppo la mano contro quel cristianesimo popolare (lui lo chiama bigotteria o dysangelo) che tradisce un intellettualismo a volte sconfinante in disistima verso il cattolico della domenica o il clero impegnato sul campo.

Ma in sostanza quale è la tesi di Collin? La proposta interpretativa è molto semplice: il cristianesimo è una vita che si comunica, non una dottrina che si pratica. Perché se diventa (e da Costantino in poi lo è stato) la seconda, finisce per diventare non eloquente: «Esso parla, discorre e predica pressappoco su tutto, dalla pace nel mondo alla transizione ecologica, dai migranti all’economia, ma è sempre meno parlante per quanto attiene alla sfida decisiva per ciascuno: che ne è di me? Che avviene di me?». Collin però sfugge alle maglie di un solipsismo interiore quando rivendica la priorità della dimensione gratuita del fatto cristiano: «Se il cristianesimo parla dell’amore senza ricordare innanzitutto che l’amore è dono dell’amore, prima di essere l’amore del dono, si condanna a non saper più come parlare dell’amore, se non nelle categorie di ciò che è o di ciò che deve essere». In pratica, siamo dalle parti della denuncia di Karl Barth, che riecheggia in questo j’accuse: «La lettura che difendo qui è che la fede è stata screditata a vantaggio della credenza». La fede è il posto dell’impossibile, la credenza appartiene a quanto abbiamo addomesticato. Per questo il richiamo è netto da parte del teologo francese: «Occorre pensare che il carattere inverosimile e impossibile del cristianesimo non sia solo un modo di parlare, ma il richiamo al fatto che il cristianesimo non è mai più verosimile e possibile di quando ci sembra inverosimile e impossibile ».

Il perdono, ricevuto e offerto, è per Collin il luogo in cui capire la «differenza cristiana». In concreto, dove allora recuperare la capacità per il cristianesimo di parlare ancora in un mondo secolarizzato? Collin, riecheggiando Daniel Sibony, suggerisce una figura, quella della soglia, per significare la possibilità di far risuonare come inedito, oggi, il dono del Vangelo: «Non c’è che la faglia che mi si attaglia, e potremo dirlo in verità della parola cristiana. Solo la faglia fa parlare il Vangelo, in questo luogo segnato dalla croce, in questo luogo del perdono dato in anticipo e che nulla potrà mai riprendere ». Da notare che, forse anche perché dedica molta attenzione a quella “lingua di bosso” che secondo lui squalifica l’ardire evangelico e la parresia cristiana, Collin non ha paura di impugnare la spada della polemica ad personam, criticando due nomi che vanno per la maggior nella letteratura “spirituale” d’Oltrealpe: Eric-Emmanuel Schmitt e Frédéric Lenoir. Il primo scrittore di grandissimo successo, indagatore del fatto religioso nella serie di romanzi brevi intitolata “Ciclo del mistero”, il secondo saggista e giornalista che perlustra il campo ampio delle fedi.

Scrive Collin (forse con un po’ troppa spregiudicatezza): «Numerosi sono gli autori che potrebbero oggi essere annoverati fra i rappresentanti di questo deismo etico-terapeutico», e cita i due sopra. «Il problema di questo deismo è lo stesso che abbiamo individuato nel linguaggio della bigotteria: essi scimmiottano la grazia, facendola passare per il desiderio di un io che non vuole neanche per sogno lo spossessamento del sé. Invece la fede non elimina il desiderio, ma il compimento dell’ego nel giustificarlo». Resta comunque, in conclusione, una tesi molto puntuta e sfidante chi si domanda quale sia il posto del cristiano oggi nel mondo, quella di Dominique Collin. Il quale, sicuramente involontariamente, sembra riecheggiare Luigi Giussani quando indica nel primato dell’evento rispetto al ragionamento il quid dell’esperienza cristiana: «La percezione ha interesse a rafforzarsi contro l’imprevedibile, che è la modalità di apparizione dell’inafferrabile. È la ragione per cui la modalità sottovaluta l’evento e non sopporta la grazia». Invece è proprio quando il cristianesimo semplicemente accade che lo stupore apre lo squarcio alla conoscenza: «Il dono e il perdono spostano le linee del fronte, ridanno un posto sia alla vittima sia all’aggressore, aprendo un a-venire per coloro che il passato condanna alla tristezza di essere solo creditori o debitori». Cosa tocca dunque ai cristiani? Collin risponde con una frase che vale da sola il libro: «Insomma, invece di parlare del Vangelo, dobbiamo imperativamente far parlare il Vangelo». Aleksandr Men, il celebre prete ortodosso protagonista della rinascita russa in epoca sovietica, ebbe a scrivere un giorno: «Il cristianesimo non fa che cominciare ». Forse Collin ha avuto nella profezia del pope martire un insperato e fecondo aggancio profetico.