Intervista a Silvio Garattini: vi racconto la mia fede, da scienziato

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Il grande farmacologo, 93 anni, apre il cuore sui temi della religione, del rapporto con la Chiesa, sul Papa, ma anche su scienza, educazione, fine vita, cannabis. E sull’enigma della sofferenza umana
Sapienza senza età. A 93 anni Silvio Garattini non è solo uno dei più insigni farmacologi al mondo, il formatore di generazioni di scienziati cresciuti alla severa scuola dell’Istituto Mario Negri di Milano che fondò nel 1963: oggi è la voce più autorevole della ricerca in Italia, e soprattutto un uomo che non ci si stanca mai di ascoltare, per la precisione dei concetti, sempre calibrati e asciutti, e la gentilezza d’altri tempi. I trent’anni della Giornata mondiale del malato che la Chiesa ha appena celebrato offrono l’occasione per un dialogo a tutto campo. Partendo dalla sua Bergamo. E dalle radici, che custodisce gelosamente.

«Sono cresciuto in oratorio – racconta nel soggiorno della sua casa milanese –, ho sempre avuto come riferimento l’imperativo ebraico-cristiano: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. E questo è il punto di unione tra due grandi motori della società: la religione e la scienza. Se la religione ci introduce al mistero, la scienza crede nelle cose che può osservare e misurare. In molti campi però la finalità diventa la stessa: migliorare il mondo.

Cosa le ha insegnato l’educazione in parrocchia?
Devo moltissimo alla mia formazione oratoriana, ha avuto grande importanza aver partecipato da giovane alle iniziative del mio oratorio a Bergamo: seguivo con profitto il catechismo, recitavo nella filodrammatica della parrocchia, poi ho fatto parte di Gioventù studentesca, espressione di Azione Cattolica, anche con incarichi regionali, fino all’università, quando gli studi mi hanno assorbito.

E la sua famiglia?
Sono grato a mio padre di avermi abituato allo spirito critico. Quando scoppiò la guerra avevo 12 anni, tornavo a casa imbevuto di quello che mi insegnavano a scuola, e lui mi faceva ascoltare Radio Londra per farmi capire che occorre sapersi fare le proprie idee. Era un semplice impiegato di banca, aveva preso un secondo lavoro la sera per poter curare mio fratello più piccolo, affetto da spondilite tubercolare: allora non c’era il Servizio sanitario nazionale, si curava bene solo chi aveva soldi. Era malata anche mia madre, artrite reumatoide deformante. Nella mia vita ha influito l’aver visto la malattia in famiglia e il peso del fattore economico nella cura. Per questo scelsi Medicina. Ero perito chimico, lavorai alla Dalmine, per iscrivermi alla facoltà affrontai l’esame del liceo scientifico. Al terzo anno conobbi il farmacologo Emilio Trabucchi, che a fine corso chiese a noi studenti chi voleva tenere una lezione. Mi proposi, ed eccomi qui… Avevo il vantaggio della pratica di analisi alla scuola professionale di Bergamo.

Della sua fede cosa può dirci?
Studiando nascevano in me molte domande e altrettanti dubbi nel confronto con la realtà. Ma i dubbi fanno parte della vita, l’importante è non perdere i princìpi. Più o meno, lungo la vita la mia posizione è sempre stata questa, in fondo la stessa di Pascal: che Dio esista o non esista, conta che faccia bene quello che devo. Se esiste mi premierà, altrimenti avrò comunque fatto il mio dovere. Se c’è qualcosa al di là di ciò che conosciamo va bene: l’importante è non essere mai in contrasto con i propri princìpi.

E “qualcosa” crede ci sia?
La riflessione su questo è di chiunque ha un minimo di voglia di pensare, tanto più quando passa il tempo. Alla mia età considero ogni giorno un regalo, per fortuna ho giornate ancora piene di attività, studi, incontri.

Come vive questi anni “regalati”?
Con la stessa passione e intensità di sempre. Lavoro tutti i giorni in Istituto, giro per conferenze, i miei cinque figli mi “controllano”, si preoccupano per me. Ma li rassicuro…

La scienza offre tante risposte. Quali sono le sue domande sulla vita?
Quando vedi tanta gente che soffre ti domandi perché, se c’è un ente supremo. Conosco le risposte della religione, ma non sono domande facili. E vedo molta sofferenza. C’è tantissima gente che mi scrive, chiede consigli. Capisco che c’è un’insufficiente risposta alle sue domande. Vedo anche tante cose nel campo della medicina che non vanno…

Cosa in particolare?
La medicina è diventata un grande mercato, e tutti i mercati devono crescere, ma oltre certi livelli vanno contro gli interessi dei pazienti. Il mercato infatti è interessato a medicalizzare tutta la società, e la prevenzione passa in secondo piano. Invece occorre mettere al centro la prevenzione nell’interesse delle persone, che hanno vantaggi in termini di minori malattie e non intasano il Servizio sanitario di richieste evitabili. Nel fare prevenzione c’è anche un dovere di solidarietà, come per le vaccinazioni: se mi vaccino non ho solo un vantaggio personale ma faccio anche il bene degli altri.

La sofferenza è un grande enigma. Come si affronta?

Spesso è più importante per il paziente sapere che c’è chi si prende cura di lui anche se non ha possibilità di guarirlo. C’è differenza tra curare, con terapie e farmaci, e prendersi cura: sono aspetti complementari, il primo non può cancellare il secondo. Invece vedo medici che non lasciano parlare i pazienti perché hanno poco tempo, e non ascoltandoli si perdono una parte della terapia, perché una componente del “sentirsi bene” è esporre i propri problemi, liberandosi da un peso, condividendoli con un altro di cui si ha fiducia. I medici non sono educati a questo approccio, perché in assenza di linee di informazione indipendenti la loro fonte è il mercato. Abbiamo certamente ancora molta strada da fare per migliorare la medicina…

Cosa determina la “salute”?

Gli stili di vita, per estendere la lunghezza della vita sana, ma anche l’eliminazione della disuguaglianza. La bassa scolarità e l’indigenza sono fattori che espongono a malattie. La disuguaglianza è un attentato alla salute e una minaccia per la sostenibilità del Servizio sanitario.

Cosa pensa delle pressioni di legalizzare il suicidio assistito e l’eutanasia?

Il ricorso all’eutanasia dipende da quello che fa la società. Se siamo in grado di generalizzare la presenza degli hospice la richiesta di morte diventa minima. Porto due esempi. Sono presidente di un hospice vicino a Pordenone, La Via di Natale, 12 letti, e mai nessuno che ha chiesto di morire, anzi. Il personale sanitario e i volontari aiutano tutti a vivere nella piena dignità. Mia moglie è morta per un tumore incurabile: è stata in hospice, e mai ha chiesto di morire perché abbiamo trovato grande attenzione. Nei posti in cui le cose si fanno bene il problema non esiste. Il problema è avere la volontà di affrontare questa necessità formando personale all’altezza e con le giuste motivazioni. Malgrado ci sia la legge 38, non ci sono hospice sufficienti per aiutare tutti quelli che ne hanno bisogno.

E della cannabis legale cosa pensa?

Bisogna distinguere. C’è la parte terapeutica, che non ha nulla a che fare con la legalizzazione e si basa sulle conoscenze scientifiche, ma oggi l’efficacia terapeutica di alcune componenti è lontana dall’essere vera. Il sistema di far passare estratti di cannabis attraverso le farmacie che fanno le preparazioni acquistate poi dai medici che le dispensano ai pazienti non va affatto bene. Lo Stato o l’industria si devono far carico degli studi, i cui risultati vanno poi sottoposti all’autorità regolatoria come per ogni farmaco, e solo dopo la verifica dell’efficacia si può usare il nuovo farmaco. Altra cosa sono gli aspetti ricreativi, che invece sono dannosi per la persona. Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare questo tipo di uso.

Come?
Attraverso l’educazione. La legalizzazione è un cattivo segnale che diamo ai giovani. Non ha senso che tutti possano coltivarsi le piantine per qualunque uso. I preparati a base di cannabis hanno effetti molto deboli per via del basso contenuto di tetraidrocannabinolo (intorno allo 0,5%), ma oggi ci sono piante che arrivano fino al 20%: prodotti con lo stesso nome ma molto diversi. Che poi ci dicano che legalizzare serve a sconfiggere la criminalità fa ridere: di droghe ce ne sono tante, se la criminalità non ha più la cannabis fa affari con tutte le altre, ne spuntano di nuove tutti i giorni. La via è l’educazione, non il favoreggiamento.

Cosa si attende oggi dalla Chiesa?
Di avere più attenzione per la scienza, come quella che mostra papa Francesco. La strada che stiamo facendo sui vaccini è la stessa: è criminale non vaccinare tutto il mondo, perché se il virus circola tornerà da noi in altre forme. La scienza va criticata quando si dirige lungo una strada sbagliata, ma più che la conoscenza è la sua applicazione ad andare talvolta dove non va bene. Ricordo quanta strada ha fatto la Chiesa nel giudizio sui trapianti d’organo, fino a diventate oggi grande sostenitrice perché ha seguito gli sviluppi della conoscenza. La Chiesa può stimolare la scienza a essere indipendente, a occuparsi dei temi di scarso interesse economico, come le malattie rare, che l’industria ignora perché i nuovi farmaci sono troppo costosi rispetto ai ricavi attesi. Un altro terreno in cui la Chiesa può aiutare la scienza è la spinta perché i brevetti non siano un ostacolo alla diffusione delle cure per tutti.

Lei prega?
Sì, mi viene da pregare. È nel nostro intimo di cercare l’aiuto di qualcuno. Ho avuto una grande perdita con la morte di mia moglie. Prego per lei, e prego per me. Ho i miei dubbi, non parlo di rapporti definiti con Dio, ma la mia formazione è quella. Non so se ci sarà un incontro dopo la mia morte, sarebbe bello avere prove scientifiche… Credo però che non si possa essere atei, perché vorrebbe dire sapere che Dio non c’è. Ma come si fa a saperlo? Quali sono le prove? Anche chi tende a non credere non può non avere dubbi. Bisogna vivere come se Dio esistesse, e intanto amare il prossimo. Ho avuto come riferimenti religiosi figure come fratel Carlo Carretto e don Arturo Paoli. Oggi mi ispira papa Francesco, cerco di ascoltare quello che dice. Perché è sempre dalla parte giusta.