Kairòs, evento di grazia, non lasciamocelo sfuggire! (Antonio Gentili)

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C’è il rischio reale di non accorgersi delle possibilità che il tempo ci offre.

Il mondo greco considerava vertice della saggezza la conoscenza di sé: «Conosci te stesso!». A questa massima se ne può affiancare una seconda, che le è simile e quasi complementare: «Conosci il kairòs!». O forse sarebbe meglio tradurre, riconosci il kairòs, dal momento che si tratta di individuare, nello scorrere cronologico del tempo, inteso quale misura esterna e impersonale, l’apparire kairologico del tempo, ossia la consapevolezza di un’occasione irrepetibile e provvidenziale (questo è il senso del vocabolo greco), che mi è offerta in ordine alla salvezza. «Nel krònos (il tempo) si manifesta il kairòs», sosteneva Aristotile nelle epoche andate. Analogamente nel krònos dei nostri giorni faticosi e sorprendenti, la coscienza umana e cristiana ci invita a cogliere il kairòs, un evento di grazia da non lasciarci assolutamente sfuggire, ma da sfruttare in pienezza.

Ma cosa nasconde la parola kairòs, che muove ancora timidamente i primi passi nel nostro linguaggio quotidiano, come a suo tempo fu per il termine ecologia? Si tratta di una parola chiave del messaggio racchiuso nelle pagine del Nuovo Testamento. E’ Cristo in prima persona che ci invita a «discernere i segni del kairòs» (Matteo 16,3), polemizzando per di più con i suoi contemporanei, capaci – giusto come noi – di azzeccare le previsioni meteorologiche, ma incapaci di cogliere i messaggi del cielo. Luca (12,56) rincara la dose, dando ai suoi ascoltatori dell’ipocrita (termine che ricorre una buona dozzina di volte in Matteo e solo due volte nel terzo Vangelo!), perché non sanno «esplorare questo kairòs». E questa è la ragione che spinge Cristo a piangere su Gerusalemme, dal momento che «non ha riconosciuto il kairòs in cui è stata visitata» (Luca 19,44).

Il «kairòs di Cristo» è sempre «imminente» (cfr. Matteo 26.18 e Apocalisse 1,3; 22,10) o, meglio ancora, ogni istante del tempo messianico da lui inaugurato è un kairòs. Lo riconosce Gesù stesso quando afferma che il kairòs offerto ai discepoli «è sempre pronto» (Giovanni 7,6). Come a dire che ogni istante dell’era nuova che egli ha inaugurato nel suo sangue ci offre l’opportunità di conseguire la salvezza. «Ecco il kairòs favorevole, ecco il giorno della salvezza», afferma san Paolo (2 Corinzi 6,2). Ciò spinge l’apostolo a invitare i suoi fedeli perché si rendano «consapevoli del kairòs» (Romani 13,11) e a esortarli perché «operino il bene, finché ne hanno l’opportunità, il kairòs» (Galati 6,10). Cogliere il kairòs è paragonabile al gesto di chi si reca con tempestività al mercato per acquistare una merce preziosa che potrebbe sfuggirgli irreparabilmente: «Osservate con attenzione la vostra condotta, che non sia da stolti ma da saggi, appropriandovi del kairòs, poiché i giorni sono cattivi» (Efesini 5,16; cfr. Colossesi 4,5).

L’antica mitologia personificava il kairòs in un efebo, nudo il corpo e cosparso di unguenti, le ali ai piedi e il capo ricoperto di una folta capigliatura, afferrabile solo per il ciuffo di corti capelli sporgenti sull’occipite. Non diversamente anche per i cristiani il kairòs può essere personificato, ed è Cristo stesso. E’ lui il kairòs che innesca anzitutto nella comunità cristiana un processo di giudizio salvifico (del rapporto giudizio-misericordia si sta parlando in questo anno giubilare), poiché rivela all’uomo la precarietà della propria condizione di pellegrino smarrito ed errabondo, nonché dei propri progetti illusori e autodistruttivi, e lo invita a «credere alla bella notizia da parte di Dio» (cfr. 1 Pietro 4,17). In questo contesto acquista significato la “svista” di un antichissimo amanuense che, nel trascrivere «servite il Kurios», cioè il Signore, ha scritto: «servite il kairòs» (cfr. Romani 12,11).

E’ vero: vivere sotto la signoria di Cristo, il crocifisso risorto, altro non è che ravvisare in lui il tempo irrepetibile della salvezza. Il pressante invito di Paolo a «carpire il kairòs» denuncia il rischio reale e ricorrente di non accorgersi delle possibilità che il tempo ci offre. Cristo aveva già messo in guardia contro questo rischio, là dove affermava: «Nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito.., e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti; così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo» (Matteo 24,38-39). L’”incoscienza” sembra poi direttamente proporzionale alla “prosperità”, come dice san Paolo: «Quando si dirà: Pace e sicurezza!, allora d’improvviso ci colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta» (1 Tessalonicesi 5,3). Era infatti convinzione dei rabbini che la venuta di Cristo sarebbe stata preceduta da sofferenze paragonabili a quelle del parto. Similitudine a cui ricorre lo stesso Gesù (Giovanni 16,21) e che connota di positività e di speranza un’esperienza traumatica e dolorosissima che si riproporrà su scala universale alla fine dei tempi (Romani 8,19.22), quando, nell’impazienza della figliazione divina, l’insieme delle creature, che geme e soffre per le doglie del parto, vedrà dischiudersi l’accesso ai nuovi cieli e alla nuova terra.

Sollecitati anche noi da «un’ansiosa attesa» (Romani 8,19 e Filippesi 1,20), portiamo coraggiosamente lo sguardo in faccia ai tempi in cui viviamo. «Conosci il kairòs!» sia l’imperativo che agita i nostri spiriti e che ci spinge ancora una volta a trovare rifugio nell’oasi spirituale. Dove ci poniamo un triplice interrogativo.

Che percezione ho del tempo presente come di un terminale in cui «tutto ha assunto il ritmo di un autentico sconvolgimento» (Giovanni Paolo II) e ogni realtà umana e cosmica sembra avviarsi vorticosamente a un compimento e a una consumazione? Mi sento al «traguardo di un’epoca nuova» (Giovanni XXIII), di un «nuovo avvento umano e cristiano», cui prelude quest’ultimo decennio del secolo? E come mi situo – attore o spettatore – in questa tappa «magnifica e drammatica» della storia? Perché la terra si stabilisca su un “nuovo asse», ritengo si verificherà un “evento risolutore”, traumatico e provvidenziale nello stesso tempo? Cosa mi insegnano in proposito l’avvicendarsi delle precedenti epoche storiche e il trapasso in atto dal secondo al terzo millennio? Siccome si tratta di interrogativi che urgono nella coscienza umana come un appello decisivo e ultimativo, perché non scambiarci i rispettivi punti di vista?

Antonio Gentili

(tratto da Jesus)