LA FRAGILITÀ DI GESÙ (Angelo Casati)

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Alle orecchie dei devoti, dei troppo devoti, può sembrare pericoloso o addirittura dissacrante parlare di una “fragilità” di Gesù. Quasi fosse attentato devastante alla sua divinità. Ma saremmo falsamente devoti al mistero che abita Gesù se, allontanando sdegnosamente da lui ogni ombra di fragilità, finissimo per cancellarne ogni ombra di vera umanità. E dovremo forse chiamare ombra la fragilità di Gesù? O non appartiene forse alla nostra natura l’essere fragili?

Ci sono fragilità nella nostra natura che vanno, se pur faticosamente, superate, ce ne sono altre che vanno semplicemente riconosciute. In sincerità. In sincerità verso Dio e verso se stessi.

Questo mio discutibile dire in modo rapsodico di Gesù e della sua fragilità va per accensioni che nascono dalle pagine dei vangeli. Il mio dire non ha dunque la pretesa delle sintesi teologiche, segue domande e provocazioni che si rincorrono perdutamente nelle pagine e poi nel cuore di un lettore comune del vangelo. Pensieri in attesa di altri pensieri.

Nato da donna, scrive Paolo. Da un grembo di donna. Fragile quel cucciolo d’uomo, fragile il grembo, come tutti i grembi di donna. Sgusciò in un contesto di fragilità, una lampada fioca in mano a Giuseppe, forse l’altra mano – sto immaginando – a stringere tenera quella di Maria, a darle spinta di forza nel travaglio del parto. Fragile, inerme il bimbo, in bisogno di fasce, di fasce e di latte, quello della madre. Nato da donna. Donna che lo introdusse, mettendolo alla luce, nel territorio della fragilità.

Lo introdusse così nella fragilità del corpo. Che lui accusava come tutti noi. Accusava stanchezza a tal punto da prendere sonno, e profondo, sulla barca nella traversata in piena notte del lago e nemmeno la bufera delle onde a svegliarlo. Accusava stanchezza e pure sete. Quel mezzogiorno in una delle sue traversate di regione sentì morso di sete, seduto stanco a un pozzo di Samaria chiese da bere a una donna in cerca di pozzi. Come tutti noi non risparmiato dalla fame, lo annotano gli evangeli: era mattino di inizio aprile, il giorno prima era entrato a dorso di puledro in Gerusalemme, quel mattino mentre usciva da Betania ebbe fame, ma il fico cui erano andati i suoi occhi aveva bellezza di forme ma vuoto di frutti. Ci rimase male.

A volte poi non gli reggevano proprio le forze fisiche, se ne accorsero quel giorno, poco fuori il pretorio, quando costrinsero un uomo di Cirene a portare dietro lui la sua croce.
Direi, approfondendo, come tutti noi fragile nel territorio dei sentimenti.

Non era roccia immobile, né quercia con fronde impassibili a urli di bufere. Non tetragono come quelli che sbandierano indifferenza agli assalti della vita, pagò lungo i suoi giorni debiti di fragilità, come succede a ciascuno di noi.

A volte a scuoterlo, ad amareggiarlo sino a farlo impetuosamente dolorosamente sbottare senza quasi più contenersi, era la nostra avvilente ottusità: “O generazione incredula! Fino a quando sarò con voi, fino a quando dovrò sopportarvi?”.

Certo non si preoccupava di trattenere se stesso in sequestro assoluto dei sentimenti, quel sequestro che in taluni uomini di spirito sembra a volte, o spesso, sfiorare l’impassibilità. Non preoccupato di guardarsi dall’accensione dello sdegno, né di guardarsi, se è debolezza, dall’accensione improvvisa dei sogni. E, se cedere ad accensioni rimane nella mente di qualcuno sintomo di fragilità, Gesù proprio non mise in atto nessun esercizio per sfuggirla.

La sua predicazione senza diplomazie, soprattutto verso le autorità religiose, conobbe i toni aspri e ruvidi, quasi impietosi, senza nascondimenti e senza contenimento, con l’esito di opposizioni altrettanto dure, violente, segnali per lui di una morte annunciata. Accadde anche che qualche volta i discepoli stessi lo invitassero a moderare i toni. Ma lui resistente a ogni invito che suonasse cedimento a calcoli umani. Gli interessava Dio, gli interessava la difesa a tutto campo della dignità di noi umani. Schiettezza senza moderazione a prova di morte.

Lo consumava, senza moderazioni di sorta, zelo per la casa di Dio , per il vero volto di Dio e dell’uomo. E tutti noi a ricordare ciò che avvenne nell’avvicinarsi di quella pasqua. Un gesto voluto. Giovanni annota il particolare di Gesù che annoda le cordicelle per farne una sferza: “fatta allora una sferza di cordicelle…”. Consumato dallo zelo, cacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi. E non si limitò, non si contenne, non gli bastarono le parole: “Gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi e ai venditori di colombe disse: Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”. Fragile davanti alle emozioni?

Lontano anche dall’ideale dell’uomo di spirito che ha in somma cura l’arte di sorvegliarsi, allontanandosi da ogni forma di eccesso persino nei sogni. Per fedeltà spenta al reale. Non è forse vero che un giorno i discepoli, di ritorno da una compera di cibo nel villaggio più vicino, lo trovarono a parlare con la donna di Samaria, così preso dall’acqua, che la sua parola aveva disseppellito dal cuore della donna, da abbandonarsi a visioni di sogno? Lui in quel sole caldo li invitò sorprendendoli a contemplare campi biondeggianti di grano in anticipo di mesi. Quanti maestri dello spirito gli avrebbero gridato di guardarsi da quelle farneticanti esaltazioni invocando un minimo di moderazione!

I vangeli, a differenza di quello che avremmo fatto noi perché non apparissero in lui ombre di “debolezza”, non nascondono, non censurano, anzi raccontano senza esitazioni di sorta i suoi turbamenti.

Un turbamento sino al pianto. Non stava certo nella figura dell’uomo forte, quello che non si scompone, che tiene alto il suo profilo in ogni evenienza. Turbato sino al pianto, narra il vangelo. Pianto per morte di un amico. Né si preoccupò di nascondere quella che alcuni ancora chiamano fragilità e debolezza. Apertamente. Tutti lo videro, tutti a dare testimonianza di quanto lui amasse Lazzaro.

La fragilità dell’anima turbata. C’è chi non si lascia mai turbare nell’anima, imperturbabile, c’è chi nasconde il suo turbamento. C’è chi come Gesù il turbamento lo patisce straziante ruvido sulla pelle scorticata, sente il cuore tremare e lo confessa senza falsi pudori.

Non ho titolo accademici per confortare una tesi, ma mi ha sempre colpito un confronto tra il racconto delle tentazioni subite da Gesù nei quaranta giorni passati nel deserto e il racconto delle tentazioni subite da Gesù durante la sua esistenza e in modo particolare nell’ultimo scorcio della sua vita. Il racconto del deserto sembra, mi si perdoni, cancellare ogni figura di fragilità. Mi sono chiesto se gli evangelisti volendo raccontare la vittoria sulla tentazione non abbiano calcato sulla libertà estrema luminosa del Rabbi di Nazaret che sfugge, ed è affascinante, ad ogni sequestro e imprigionamento. Mi sono chiesto se gli evangelisti nell’intento di raccontarci l’atto estremo, quello conclusivo, vittorioso delle tentazioni non siano nelle stesso tempo incappati nella necessità, forse non voluta, di sottacere il percorso psicologico e il travaglio che segnarono anche duramente corpo mente e cuore del Signore nel cammino verso un simile atto di libertà e di amore, estremi!
Stando al racconto dei vangeli non potremmo certo dire che Gesù le scelte, soprattutto quelle estreme, le abbia affrontate con animo spavaldo, bensì pagando alla fragilità umana un caro prezzo. Scelta a caro prezzo dentro un debito di confessata riconosciuta debolezza. Dentro un debito di vero, non finto turbamento.

Il pensiero mi corre a un giorno che per Gesù già odorava di passione, passione estrema. Vicina era la Pasqua. Tra quelli saliti per il culto c’erano anche dei Greci. Forse non giudei? O forse proseliti? Non sappiamo. Comunque non gente del recinto, non appartengono al recinto d’Israele. Si sentono attratti da un desiderio. Di vedere Gesù: “Signore, vogliamo vedere Gesù” dicono a Filippo. Quelli vogliono vedere Gesù. E non sono del recinto. E allora Filippo prende con sé Andrea, vanno in due a parlarne a Gesù. Ma lui risponde in modo enigmatico. Risponde: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo”. Trono della gloria per lui è la croce. La croce per lui il luogo – è paradossale dirlo – della massima attrazione: “quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. E’ come se Gesù pensasse: arrivano anche i pagani? Anche loro attratti? Ma allora è vicina l’ora della croce, l’ora della attrazione che di più non si può. Che cosa vedrà quel gruppo di Greci? Vedranno un chicco di grano cadere nella terra. Gesù ha davanti agli occhi la vicenda del chicco di grano. Ebbene l’ora della sua morte non la affronta in modo spavaldo, come fosse un passaggio naturale. No, anche lui turbato. Turbato da questi greci che con la loro presenza gli ricordano che l’ora della discesa nella terra è vicina. E Gesù si svela, si svela nel suo turbamento, nella sua fragilità. Non è come noi che ipocritamente, per falsa immagine di spiritualità, vogliamo esibire una fede senza turbamenti. Lui dice: “Ora l’anima mia è turbata”. E sarebbe anche tentato di allontanare quell’ora.

Aggiunge: “E che devo dire allora? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora. Padre, glorifica il tuo Figlio”. Gesù non chiede di essere risparmiato, ma di essere glorificato. Il legno diventerà il luogo della gloria. Accoglie la sua ora, ma dopo aver attraversato senza sconti il mare del turbamento dell’anima, il mare della sua fragilità.

Ebbene per uno come me che cerca, da povero cristiano, di spiare Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche misura contagiare, è fonte di non povera consolazione il fatto che Gesù stesso nel suo cammino verso la croce abbia conosciuto fragilità e turbamento. Lo confesso, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno del viaggio, se non ne avesse spartito con me il turbamento, se verso la morte fosse andato con passo spavaldo, da eroe, il forte cui non trema il cuore.

Leggo nei vangeli che, nell’orto, in vigilia di morte “cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia”. Confessò tristezza: “Ora – disse – l’anima mia è triste fino alla morte”. E gli ulivi lo videro sudare sangue di morte.

Messia chino sulle debolezze degli umani, abitò la nostra esistenza, una fragile tenda, un telo di vento. Abitò la nostra fragile carne.

Superò la fragilità, anche quella estrema, oserei dire, con un nome che si affaccia, costantemente, connessione intrigante, nell’ora della debolezza: “Padre”. “Padre” nell’ora dell’arrivo dei greci: “Ora l’anima mia è turbata. Che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Padre, glorifica il tuo Figlio”. “Padre” ancora nella notte degli ulivi: “Padre, se vuoi allontana da me questo calice: tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà”. “Padre” nell’ora della croce dopo l’urlo che ferì il cielo, “Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato”, urlo, estrema fragilità. Dopo l’urlo l’invocazione struggente, pure grido a gran voce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Una fragilità consegnata alla preghiera, sollevata dalla fiducia in un Padre che non abbandona nel grido i suoi figli.

Ci emoziona nella preghiera di Gesù quel perseverare, nonostante tutto, a dare a Dio il nome di Padre, con una confidenza che ci rabbrividisce: “Abbà!”. Ci rabbrividisce, e ci insegna una immagine più autentica di preghiera. Dentro un dilemma: pregare perché ci siano risparmiati i passaggi faticosi, le tempeste della vita o pregare perché non veniamo meno, perché non ci sentiamo soli e abbandonati nell’attraversamento? Come ci fa pregare il salmo: “Anche se vado per valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sal 23,4).

Nella fragilità, a sostegno, Gesù cercò il volto di Dio. Dobbiamo però, per debito di verità, aggiungere che nel momento della fragilità lui cercò anche volti di amici, senza minimamente velare questo suo bisogno profondo di vicinanze anche umane. Mendicante di amicizie e di affetti.

Il racconto del giardino narra quel suo andare in cerca degli amici e la desolazione di trovarli addormentati, quasi non ci fossero. Per tre volte disegnati nel racconto quei passi in ricerca, per tre volte raccontata la delusione: “Venne e li trovò addormentati…venne di nuovo e li trovò addormentati…venne per la terza volta e disse loro: Dormite pure e riposatevi. Basta! E’ venuta l’ora: ecco il Figlio di dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo”.

Una fragilità la sua, come la nostra che anela ad essere riconosciuta e sollevata da chi ti ama. I vangeli ci raccontano di Gesù che, nei primi giorni della settimana che vide la sua passione e la sua morte, cercava rifugio, rifugio del cuore, passando le sere e le notti a Betania, in casa di amici. Aperta la porta per l’amico, l’amico che sentiva la pressione, ormai vicina, delle croce.

E non fu proprio a Betania che all’inizio di quella settimana che si preannunciava decisiva, decisiva di morte, per Gesù, una donna amica, Maria, in quella cena si accorse, lei sola, del segreto che pesava sul cuore del suo amico e maestro, ora che il cappio stava per soffocarlo una volta per sempre? E lei a ungerlo e a profumarlo con un profumo che fece gridare tutti per l’eccesso di uno spreco! E Gesù, a fronte dei discepoli così lontani dal capire che cosa gli passasse nel cuore, a difenderla: lei era arrivata, con gli occhi di chi ama, a intravedere, a capire, ad accogliere un bisogno segreto del cuore.

Dono, per chi attraversa il buio della fragilità, la luce che pulsa dal volto di un amico, di una amica. Dono inestimabile è avere al fianco uno che ti legga nel cuore, uno che vegli sulla tua angoscia, consapevole di non potertela purtroppo cancellare, ma pronto a portarla con te. Gesù sembra raccontare la improponibilità di una fede, in forza della quale presuntuosamente si arrivi a dichiarare che basta Dio a noi stessi.

Cercò il volto del Padre, cercò il volto degli amici.