La spiritualità biblica del presbitero

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Dopo il Concilio Vaticano Il dovrebbe essere evidente che a contare, non è un Cristianesimo qualunque costruito da una determinata epoca, bensì quello delle origini al quale ogni generazione cristiana ha il dovere di guardare per farne il proprio modello e trarne ispirazione e regola di vita. Ciò vale anche per la spiritualità presbiterale; decisiva, non è quella elaborata in tempi più o meno lontani, ma quella che hanno inaugurata i primi apostoli e i loro collaboratori nel presbiterio. Per questo parliamo qui di una spiritualità «biblica» del presbitero.

L’incontro con Cristo

Ogni spiritualità cristiana, quindi anche quella dei presbiteri, non può non affondare le sue radici in quella battesimale. Ora, l’evento più importante a cui dà origine il primo sacramento è proprio un rapporto personale e particolarissimo con Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Siamo stati infatti «battezzati nel Cristo Gesù» (Rm 6,3); cioè per entrare in relazione con lui quale salvatore e nuovo Adamo e, attraverso lui, con le altre due persone divine.

Per chi è diventato cristiano Gesù non è dunque solo un personaggio del passato come tutti gli altri grandi personaggi della storia, ma è uno vivo che appartiene ad ogni epoca, poiché vive accanto a ciascuno dei «suoi», accanto quindi a lui e agli altri fratelli nella fede. Nell’uomo nuovo, rivestito al Battesimo «non c’è (più) giudeo né pagano, circonciso o non circonciso, barbaro o scita, servo o libero, ma Cristo tutto e in tutti» (Col 3,11); «tutti voi siete un unico in [= uniti a] Cristo Gesù» (Gal. 3 ,28).

Grazie al Battesimo anche ognuno di noi lo ha dunque un giorno incontrato come quei due primi discepoli, di cui parla il vangelo di Giovanni (1,35 ss). Ma di quest’incontro decisivo noi pure dobbiamo prendere sempre meglio coscienza durante tutta la nostra vita: ecco la spiritualità battesimale. Questa scoperta del Signore glorioso accanto a noi, è pertanto l’elemento fondamentale e specifico della spiritualità cristiana.

L’incontro con Gesù, anche quale uomo

Quest’incontro con Cristo grazie al Battesimo, non è solo con lui quale Figlio divino, ma anche con lui come Figlio incarnato, quale progenitore di una nuova umanità, che è della sua stessa stoffa e del suo genere misterioso. L’incarnazione non fu solo un momento della storia umana, ma è una realtà che continua lungo i tempi, anche nel nostro.

Gesù è presente anche come uomo nel mondo che ha salvato, vicino a ciascuno dei «suoi» mediante il suo spirito umano perfettissimo, a cui non può mancare la capacità degli angeli (proclamati a lui inferiori) di essere presenti con la loro attività in un determinato spazio (presenza definitiva). La consapevolezza sempre più profonda di questa presenza di Gesù (anche uomo) accanto a noi, può dare una dimensione del tutto nuova alla nostra esistenza terrena, al nostro lavoro, alla nostra stessa sofferenza e alla nostra preghiera. Poiché lui, possiamo sempre incontrarlo accanto a noi, in qualunque situazione, anche nella fatica, nelle difficoltà e nel dolore. Niente ci può più separare da lui e dal suo amore (cf Rm 8,35).

Questo è il nucleo caratteristico della spiritualità cristiana e cioè battesimale. « Vivo (ancora) io, ma non più io[quello di prima del Battesimo, non ancora coinvolto personalmente nella morte del secondo Adamo]; ora vive con me [lett. In me] Cristo» (GaI 2,20). Scrivendo ai fedeli di Filippi Paolo, dal fondo della prigione in cui era rinchiuso (probabilmente a Corinto nel 51 d.C.) proclama: «Di tutto sono diventato capace grazie e unito a colui [lett. in colui] che me ne dà (di continuo) la forza» (4,12b-13).

Accanto a noi e accanto al prossimo

 Gesù non è soltanto accanto a me e li è pure vicino ad ognuno dei miei fratelli nella fede. Per questo devo saper o riconoscere anche accanto a ciascuno di essi. Ha voluto restare così accanto a tutti i cristiani, proprio perché riuscissero ad amarsi.

Il presbitero deve vivere in modo eminente tutto questo, esplicandola propria spiritualità attraverso le nuove capacità conoscitive ed affettive del suo «essere» battesimale e cioè, la fede, la speranza e la carità. Quest’ultima è una nuova capacità d’amare, alla maniera stessa con cui ci ha amato e ci ama ancora Gesù uomo e Dio (cf Gv13,34; 15,12), dimenticando se stessi, il proprio interesse e tornaconto. Ben cinque volte (Fil 2,4; 1 Cor 10,24.33; 13,4; Rm 15,1-2) Paolo ricorda nelle sue lettere quest’altruismo del tutto disinteressato che caratterizza la carità dei cristiani con espressioni che invitano decisamente ad imitare appunto il supremo altruismo di Dio Padre (cf Mt5,45-48) e il sommo disinteresse di Cristo (cf Fil 2,6). Il Battesimo non ha solo modificato il nostro rapporto personale con Dio attraverso Gesù, ma ha pure cambiato quello con i nostri fratelli cristiani, ai quali qualcosa di diverso e di nuovo ormai ci unisce nell’unica chiesa, corpo misterioso di lui (cf Ef 4,25).

La spiritualità presbiterale sarà se mai potenziare di più questa vita animata dalla fede, dalla speranza e soprattutto dalla carità, come esige anche il fatto che il presbitero nella chiesa d’Occidente dovrà rinunciare ad ogni affetto particolare.

L’incontro con Cristo nella liturgia

 Tutto ciò prepara ogni cristiano, e in modo particolare il presbitero, ad incontrare poi Gesù nell’adunanza dei fedeli. Quando essi pregano da soli a casa loro, è la loro preghiera personale con il suo valore umano, soggettivo e limitato, a salire verso Dio. Quando invece la comunità è effettivamente adunata per invocare Cristo mediatore ed è stretta attorno a lui, presente tra i «suoi» come ha promesso (cf Mt 18,20), allora la stessa misteriosa religione dell’uomo-Dio, la sua lode e la sua adorazione perfetta diventano anche nostre con il loro valore superiore e ineguagliabile.

Ogni richiesta di Cristo sacerdote è infatti esaudita dal Padre, come egli stesso ha proclamato (cf Gv 15,16c; 16,23) durante l’ultima Cena. Non è più infatti la preghiera semplicemente umana del singolo cristiano, ma in quel momento è la preghiera della comunità escatologica, unita a Gesù mediatore e partecipe della sua stessa preghiera. Questo è il mistero della liturgia, ciò che la distingue da ogni altra preghiera puramente privata del cristiano e dello stesso presbitero. Pensando al suo mistero (quello che la distingue da ogni altro culto non cristiano anche comunitario), noi comprendiamo perché i primi apostoli se ne siano riservati l’esercizio e la presidenza (cf Atti 6,4).

Infatti la liturgia cristiana non è solo presenza di Cristo (questa c’è pure fuori dell’adunanza della comunità), ma essa comporta l’esercizio del suo sempiterno sacerdozio, l’unico vero e sommo sacerdozio nei confronti del Padre, come ricorda ripetutamente la lettera agli Ebrei (7,23-25; 8,1ss). La preghiera liturgica rende possibile tra gli uomini ancora in terra, questa continua attività mediatrice di lui.

In tutto questo il presbitero ha una parte particolare e decisiva. La sua presenza come celebrante è necessaria proprio perché Gesù possa attuare lungo i tempi anche sulla terra la sua azione di sommo sacerdote escatologico e affinché i singoli fedeli, che partecipano effettivamente alla celebrazione liturgica, possano a loro volta beneficiare dei suoi effetti; ricevere, cioè, i doni che la sua mediazione ha per loro ottenuto dal Padre.

Con i suoi gesti e le sue parole cultuali il presbitero è dunque soltanto un « segno» vivo di lui e della sua attività sacerdotale, un segno di lui quale capo della sua comunità e come presidente di ogni adunanza cristiana. Per questo la sua sede di celebrante ha sempre avuto una posizione eminente rispetto agli altri fedeli, appunto per ricordare loro chi è colui che in realtà presiede l’assemblea dei cristiani e ne è il vero sacerdote. Non un uomo povero e peccatore come gli altri qual è anche il presbitero, bensì l’uomo-Dio, il Figlio divino, diventato Figlio dell’uomo e rimasto per sempre tale, proprio per soccorrere (cf Eb 2,18) e sostenere i suoi fratelli ancora pellegrini sulla terra.

La «vita liturgica» del presbitero

 Come l’aver lasciato piuttosto da parte la dottrina della presenza di Gesù, anche come uomo, accanto a ciascuno dei «suoi» dal giorno del loro Battesimo, ha impoverito la spiritualità battesimale riducendo il primo sacramento cristiano ad un episodio quasi profano (= anagrafe ecclesiastica), così l’aver dimenticato notevolmente questa presenza attiva di Cristo durante la liturgia, ha altrettanto impoverito la spiritualità dei nostri fedeli e soprattutto quella del presbitero.

Da secoli egli è rimasto «solo» nell’esercizio del culto liturgico e nel suo presiedere la comunità radunata (ignaro di quello che in realtà Cristo va operando per mezzo dei suoi gesti e delle sue parole), reputandosi di conseguenza carico di chi sa quali poteri. In questo contesto, tutto si è orientato alla sola consacrazione eucaristica, alla quale è stata connessa ogni presenza di Gesù uomo (facendo così dell’Eucaristia il sacramento della sua presenza tout court), mentre questa portata spetta se mai all’intera liturgia, che in ogni suo momento comporta appunto questa presenza attiva di Cristo, mediatore e sacerdote anche della sua comunità ancora sulla terra.

E’ il distacco progressivo dalla catechesi biblica, che ha contribuito (già nel Medioevo) a questa presentazione del presbitero come un «essere straordinario» fuori della realtà comune, sempre più distante dal suo popolo, un essere dotato quindi di particolari prerogative e di chi sa quali poteri misteriosi. Tutto ciò ha dato alla sua persona negli stessi testi eucologici (epoca carolingia) un risalto del tutto nuovo, rimasto sconosciuto ai secoli precedenti, a detrimento del vero liturgo che è Cristo. Si è quindi dimenticato che era Gesù ad operare durante l’azione liturgica; che era lui quale Figlio di Dio onnipotente, a trasformare il pane e il vino nei segni misteriosi del suo corpo e del suo sangue per poi donarli egli stesso ai suoi fedeli (cf Gv 6,51b) come “viatico” per raggiungerlo nell’eternità; che era lui a perdonare ancora i peccati come aveva fatto in Palestina (cf Mt 9,5-6) e a guarire gli infermi mediante l’unzione rituale (“e il Signore (Gesù) lo farà alzare ” (Gc 5,14-15); cioè ad operare con la sua potenza divina tutti gli altri effetti connessi con i riti cristiani.

Ciò che fa grande il presbitero non è dunque il fatto di possedere poteri straordinari e di operare egli stesso effetti misteriosi, ma il fatto se mai di poter «significare» (appunto perché presbitero, in comunione con i successori dei primi apostoli) questa presenza operante di Cristo in mezzo ai «suoi» (Chi ascolta voi, ascolta me! Lc 10,16). Ecco dunque un altro tratto essenziale della spiritualità del presbitero: accorgersi della presenza di Gesù accanto a sé, soprattutto durante la liturgia, rendendosi conto egli per primo, dell’attività mediatrice e sacerdotale che il Salvatore attraverso i suoi gesti rituali va esplicando a favore della sua comunità.

L’educazione liturgica dei fedeli

 Con il suo contegno, il presbitero deve pertanto aiutare i propri fedeli a prenderne sempre di più coscienza. Guai se egli con il suo modo di fare sciatto, superficiale e inconsapevole contraddicesse la realtà in cui vive immerso, con i suoi fedeli, durante la preghiera liturgica, compromettendo così funestamente la loro stessa educazione liturgica, che è in fondo educazione alla fede.

Tutto il suo comportamento di celebrante deve invece richiamare la loro attenzione sul vero protagonista dell’azione liturgica, al debito posto, la propria persona che conta così poco di fronte a quella ben più trascendente di colui, di cui egli è solo un «segno».

Logicamente il presbitero deve giungere alle varie celebrazioni sempre preparato, remotamente e prossimamente; vale a dire, dopo aver già incontrato Gesù accanto a sé nella preghiera personale e dopo aver meditato i testi eucologici e le letture bibliche.

Il recente concilio ha richiamato nella «Costituzione intorno alla liturgia» (cf n. 7) questa dottrina fondamentale della presenza di Cristo in tutta la liturgia, ma è uno di quei punti nei quali si è fatto ben poco progresso sia da parte dei presbiteri che da parte dei fedeli, sia nel prenderne sul serio coscienza tirandone tutte le conseguenze, sia nella catechesi a loro destinata. Quanti preti infatti non hanno ancora compreso la differenza decisiva che esiste tra un «pio esercizio» (rosario anche in comune, Via crucis o devozioni del mese mariano) e la celebrazione comunitaria delle Lodi o dei Vespri; tra una preghiera fatta in modo qualunque e una preghiera fatta con la consapevolezza viva di avere Cristo in mezzo a noi, secondo la sua promessa; cioè, fatta riconoscendolo presente e operante attraverso il celebrante, con una fede che diventa sempre più intensa ogni volta che si partecipa ad una funzione liturgica

Il presbitero e la Parola di Dio

 Durante la liturgia Gesù non è soltanto il nostro sacerdote escatologico; egli continua ad ammaestrare i propri discepoli lungo i tempi, così come faceva con i primi, lungo le strade palestinesi. Egli è il nostro mediatore e il nostro sacerdote, ma è pure il nostro maestro, l’unico vero maestro come egli stesso ha proclamato (cf Mt 23,8-10).

E’ dunque lui, che continua a dare ai fedeli la «bella notizia» della salvezza ed è questa ormai la Parola divina, in cui sono culminate le varie «parole» già affidate agli uomini migliori dell’Antico Testamento (cf Eb 1,1-2). Gesù compie questa sua funzione di maestro anzitutto mediante le letture bibliche. Quando si leggono durante la liturgia queste pagine misteriose, è lui stesso che continua a parlare ai fedeli lungo i tempi.

È perciò con quest’atteggiamento di fede (ricevendole dalla sua stessa bocca) che i fedeli dovrebbero ascoltare ogni domenica le letture; soprattutto il vangelo, che ci ha conservato un eco così viva e diretta dell’insegnamento di colui che rimane tuttora «il maestro» per eccellenza. Purtroppo invece da secoli essi si sono abituati ad ascoltarle come si ascolta un libro qualunque, con un comportamento assente e indifferente quale potrebbe avere anche un pagano, che per caso si trovasse presente. Non possiamo allora stupirci che la Parola di Dio, ascoltata in una cornice di così poca fede, abbia ben poca presa su coloro che pur «vengono ancora a messa» e resti poi tanto lontana dalla loro vita pratica.

Il presbitero per primo deve possedere questa fede in Cristo «maestro» e nutrirsi quindi con la Parola, ascoltata durante la liturgia. È un altro tratto essenziale della sua spiritualità presbiterale. Tanto più che egli non solo deve ascoltare con fede (come tutti gli altri fedeli) la Parola di Dio, ma è incaricato anche di commentarla, per renderla più perspicua ai presenti. Già presso gli antichi ebrei non si leggeva nelle sinagoghe un brano biblico senza farne oggetto di un’omelia. Così anche oggi, durante la liturgia deicristiani, non si dovrebbe leggere una pagina biblica senza aiutare seriamente i fedeli a percepirne il messaggio loro destinato.

Importanza dell’«omelia»

 Il termine significa in greco «conversare insieme, colloquiare» e scopo dell’omelia è appunto quello, come già presso l’Ebraismo, di sottolineare quanto Dio vuole ancor oggi da coloro che ascoltano le pagine bibliche durante la liturgia, avvicinandone il messaggio alla vita pratica degli uditori. Non è dunque la parola umana del presbitero a contare, tanto meno la sua oratoria; la cosa più importante è la Parola di Dio, che la sua omelia deve solo far meglio comprendere ed accettare da parte dei fedeli.

Durante l’omelia liturgica egli è pertanto un «segno» vivo di Gesù maestro della sua comunità; ha quindi la tremenda responsabilità di trasmettere fedelmente quella Parola, senza offuscarla né adulterarla (cf 2 Cor2,17; 4,2) con discorsi vani (I Cor2,4), convinto che la Parola di Dio, quando è trasmessa fedelmente e integralmente (ma quale impegno di studio, di meditazione e di preghiera tutto ciò comporta?), conserva tutta la sua forza misteriosa (cf 1Ts 2,13; Rm1,15), che la rende ancor oggi efficace nel cuore degli ascoltatori.

Ciò che manca è proprio l’esercizio di questa fede che sa riconoscere nella liturgia della Parola l’ammaestramento dell’unico, vero maestro, il quale ancora parla attraverso le letture bibliche e il commento omiletico, del celebrante. Per forza allora, tante prediche (mai come oggi si è predicato tanto!) lasciano il tempo che trovano, ed i fedeli escono la domenica di chiesa tali e quali sono entrati, senza aver minimamente incontrato colui che è il loro sacerdote, ed «ha parole di vita» (Gv 6,68).

Eppure i cristiani di oggi, hanno molto più bisogno di quelli d’altri tempi della sua Parola sicura e superiore, esposti come sono alla contestazione di ogni valore religioso e morale, alla messa in dubbio continua di ogni verità da parte di altri messaggi molto più potenti che giungono loro attraverso gli attuali mezzi di comunicazione. Il presbitero per primo deve credere a questa efficacia oggettiva della Parola di Dio che egli annuncia, e in questa sua funzione decisiva di prestare le proprie labbra all’unico maestro. Deve quindi farsi scrupolo di riecheggiare il suo ammaestramento senza tradirlo e senza attenuarlo.

Già presso l’antico Israele la Bibbia letta e commentata nelle sinagoghe dopo l’esilio, fu per secoli la vera educatrice del popolo ebraico, spiritualmente ancora tanto imperfetto e spesso così infedele. E’ questo, insieme all’azione dei suoi profeti, il segreto che spiega il persistere del suo elevato monoteismo e della sua moralità superiore (cf Sir Prol. 1). Per questo i primi cristiani, che erano vissuti in questo clima, continuarono la prassi sinagogale, ma apportandovi un cambiamento decisivo. Mentre presso gli ebrei, chiunque tra i presenti poteva fare l’omelia traendo dalle letture bibliche il messaggio destinato agli uditori, presso le prime comunità cristiane questo ruolo fu riservato a chi presiedeva (cf At 2,42; 6,4): uno dei primi apostoli, poi il vescovo, e infine anche il presbitero, quale suo delegato. Ciò, perché si era ben convinti di avere ancora con sé durante la liturgia Gesù maestro dei propri discepoli, e che solo il celebrante poteva essere il «segno» di quest’attività anche magisteriale del Signore risorto.

E’ soltanto ascoltata in questo contesto di fede, che la Parola di Dio può dare ancor oggi ai nostri cristiani quel conforto, che già vi avevano attinto gli ebrei (cf 1 Mac 12,9) e che è destinato ai fedeli di ogni tempo, proprio affinché possano alimentare la loro fede e la loro speranza (cf Rm 15,,4a).

Il servizio alla chiesa

«Chi di voi vuol essere il primo, si faccia il servitore di tutti» (Mt 20,25-27). C’è anche nella comunità cristiana una funzione di governo, di organizzazione, di attività istituzionale, e ad essa partecipa pure il presbitero. Ma anche quest’aspetto della vita ecclesiastica ha il suo mistero. Non è un «dominare» sugli altri (cf 1 Pt 5,3) come possono fare i capi delle nazioni terrene (cf Mt 20,25), ma è un servizio ai propri fratelli, come ha fatto Gesù stesso, venuto non per mettere gli altri al suo servizio, ma per mettersi al loro servizio fino al punto di dare per loro la sua vita (cfMt 2O28).

Per questo i primi apostoli e loro collaboratori si sono considerati al servizio di Cristo e della sua chiesa, non dimenticando che era lui l’«arcipastore» delle pecore (cf1Pt 5,4). Era lui di conseguenza, che bisognava lasciar affiorare anche nella loro azione di governo o organizzativa. Ciò vale ancor oggi per l’attività corrispondente, che ogni presbitero svolge nella propria comunità locale. Ricordarlo sempre l’aiuterà a frenare i suoi impulsi troppo umani, ad evitare protagonismo e personalismi. Gli stessi fedeli, educati così a scorgere Gesù quale vero capo della sua chiesa, accetteranno allora più facilmente le sue decisioni e disposizioni, anche quando dovessero essere meno gradite (cf 1 Cor 5,3-5; 2 Cor 13,3). Già per i primi cristiani ciò non fu sempre facile (cf 2 Cor 13,5), ma diventerà anche più difficile per quelli di oggi, se mancherà loro questa fede nella presenza e nell’attività di Cristo ancora in mezzo ai «suoi».

La nota caratteristica del Cristianesimo primitivo fu proprio questa consapevolezza che Gesù non aveva abbandonato i suoi discepoli lasciandoli soli sulla terra, ma era tuttora con loro come. aveva promesso (cf Mt28,20), continuando ad operare quale loro capo, sacerdote e maestro.

Al servizio del vangelo

 Ma c’è per il presbitero un servizio anche più tipico e specifico ed è quello che egli esplica nei confronti di Dio e di Cristo, con la sua attività missionaria al servizio del vangelo. Anch’egli è infatti un « apostolo», cioè un inviato da Dio per mezzo di Gesù e insieme a Gesù in vista di una missione ben precisa: annunciare la salvezza. Se infatti i vescovi sono i successori dei primi dodici apostoli, i presbiteri sono i successori degli altri «apostoli», che sono diventati i primi collaboratori dei dodici.

Questa missione di evangelizzazione, affidata anche ai presbiteri, è in stretto rapporto con quella affidata da Dio alla chiesa dei primordi il mattino della Pentecoste, in nome e in comunione con il proprio vescovo, egli è appunto la «guida» della propria comunità cristiana in quest’attività di annuncio della salvezza. Dovrà perciò ricordare senza posa ai suoi fedeli, che essi appartengono ormai ad un popolo di profeti, incaricato da Dio di portare la buona notizia della salvezza «fino ai confini della terra» (cf At 1,8), al servizio quindi della Parola (cf At 4,29.31) e dotato, grazie alla Cresima, dello Spirito profetico corrispondente. E’ sotto l’impulso del presbitero, che la chiesa locale può adempire, assieme alla chiesa universale, la consegna di evangelizzazione affidatale il giorno della Pentecoste.

Per questo il presbitero, oltre al dono cresimale, ha ricevuto al momento della sua ordinazione un dono particolare da parte dello Spirito, un dono di forza e di saggezza (quindi ancora «Spirito profetico») come quello di Stefano e degli antichi presbiteri (cf le lettere pastorali) destinato a sostenerlo nelle difficoltà e nelle ostilità incontrate nella sua attività per evangelizzare i lontani e i vicini. Anche il suo è stato un «appello profetico», in vista di un compito più individuale e specifico, un appello nella linea di quello dei grandi profeti d’Israele, con la promessa da parte di Dio della sua assistenza e forza attraverso lo Spirito (cf 2 Tin 1,6-8).

Modello del presbitero in questa sua missione di evangelizzazione sono dunque i profeti dell’AT (le guide spirituali dell’antico Israele), i primi apostoli e soprattutto Gesù, sommo profeta dei tempi ultimi, l’«inviato» per eccellenza. Anche per lui valgono le affermazioni di Paolo: «Guai a me se non evangelizzerò » (2 Cor 9,16) e «Se ancora potessi piacere agli uomini, non sarei certo al servizio di Cristo » (Gal 1,10). Questa è dunque la direttiva chiara, a cui deve attenersi anche il presbitero: piacere al suo Signore e giudice e non agli uomini.

La vera fisionomia del presbitero

 Ma egli non deve sentirsi «solo» anche in questa sua attività al servizio del vangelo, poiché come ricorda Marco (16,20), il Signore glorioso è ancora con i suoi apostoli e collabora validamente con loro, sostenendoli e confortandoli. Se avesse più fede, anche il presbitero sarebbe oggi in grado di compiere i miracoli, ricordati in quella pagina e necessari in ogni tempo per confermare la salvezza da lui annunciata.

Quanto abbiamo visto costituisce la parte più caratteristica del ministero presbiterale. Infatti nei primi due secoli cristiani, manca ogni titolo «sacerdotale» per i capi ecclesiastici; i dodici e Paolo si definiscono «servi di Cristo» o «apostoli», mai «sacerdoti» (ieréus). Si era infatti convinti che vero sacerdote della comunità cristiana era solo lui, il Signore Gesù e non più dei preti umani come nell’epoca anticotestamentaria. Fu con il III sec. d.C. che, aumentando di numero i cristiani (e abbassandosi il loro fervore e la loro autenticità cristiana), vescovi e presbiteri furono di nuovo considerati «uomini del sacro» e cominciarono ad essere designati con i titoli corrispettivi del sacerdozio ebraico.

il processo si completò durante il IV sec., dopo che il Cristianesimo diventò (con l’imperatore Costantino) religione di stato e al clero cristiano vennero conferiti i privilegi e le qualifiche del sacerdozio pagano. E’ così che il presbitero apparve sempre di più l’uomo del culto, a scapito della sua vera fisionomia, quella di erede della missione e dello Spirito dei grandi profeti d’Israele. Per riscoprire la sua esatta identità e quindi, la sua autentica spiritualità, il presbitero deve dunque ritrovare la sua qualità di «apostolo» e di «guida» della comunità cristiana nel proclamare la Parola di Dio (cf Att 4,29.31). Deve sentirsi al servizio di Cristo soprattutto con la sua attività evangelizzatrice, che attuerà sicuro del suo aiuto e del suo sostegno. «Ti basta il mio favore» (2 Cor 12,92).

La sua parte della «Passione di Cristo»

Gesù l’aveva preannunciato ai discepoli: egli avrebbe dovuto molto soffrire (cf Mc 9,12.31). Anche il presbitero, se vorrà restare fedele alla sua missione di apostolo e di guida nell’evangelizzazione, dovrà affrontare la sua parte di sofferenza come Gesù, come i primi apostoli e come già i profeti dell’AT. Non potrà aspettarsi il plauso e il consenso del mondo, affermazioni nella carriera o nella posizione sociale. La sua stessa missione lo esporrà al rifiuto, all’ostilità, all’avversione, quindi alla sofferenza.

Ciò sarà solo nella linea di quanto ricorda di sé Paolo (cf 2 Cor Il ,23ss), che dichiarava di aver ammonito con le lacrime durante tre anni ciascuno dei cristiani di Efeso (cf At 20,31) e di aver scritto «con molte lacrime» (cf 2 Cor2,4) a quelli di Corinto. La sua sarà più spesso la sofferenza intima di non riuscire a trasmettere agli altri quanto gli brucia in cuore; quella di non poterli educare come vorrebbe alla fede, alla speranza e alla carità; quella di vederli sempre proclivi a soddisfare soltanto i loro istinti (anche in campo religioso), trascurando di nutrirsi con la Parola di Dio. Sarà specialmente il dolore di vedersi impotente, oggi soprattutto, di fronte al male e alla corruzione, che agiscono come non mai, nel mondo umano (cf 2 Ts2,7), aiutati dai nuovi e più raffinati strumenti dalla comunicazione sociale.

E’ la sua parte della «Passione di Cristo», quella destinata in primo luogo agli «apostoli» (cf Col 1,24). Ma in tutto ciò l’esempio dei primi apostoli (i dodici e i loro collaboratori) con la loro intrepidezza e costanza (cf At, cc . 3-4), dovrà sostenerlo e spronarlo, sapendo che anche questo è il suo destino (cf 1 Ts 3,2-4) come cristiano e soprattutto come «servo di Cristo», il «Servo di Dio» umiliato e vilipeso fino alla morte. Continuerà perciò il suo lavoro di «seminatore» diligente e instancabile, anche se altri raccoglieranno (cf Gv 4,37); ma che importa? Ciò che conta, è che «Cristo venga annunciato» (cf Fil 1,18). Anzi, quando egli si sentirà più a terra, quando umanamente parlando la sua azione di presbitero potrà sembrare solo un fallimento, è allora che Gesù può far sentire attraverso lui la sua misteriosa potenza; è allora, che egli può diventare forte della potenza di lui (cf 2 Cor 12,9-10).

Allora, anche nei momenti difficili, sentirà egli pure la voce di lui, che lo rincuora, come quel giorno Paolo a Corinto: «Non temere; continua a parlare e non tacere, poiché io sono con te» (At 18,10). A dirglielo sarà colui che ha pianto di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro (Gv 11,35) ed ha sudato sangue nel giardino del Getsemani; in grado, quindi, di capirlo e di compatirlo.

Concludendo, oggi vediamo chiaramente che la spiritualità più adatta al presbitero, è quella alimentata dal suo stesso ministero liturgico e dalla sua attività evangelizzatrice, esplicati in un contesto di fede (nutrita assiduamente dalla Parola di Dio) e di autentica carità. Non si tratta più allora di una spiritualità generica o solo monastica, ma di una spiritualità specifica, radicata nella sua stessa vita e azione di presbitero.

Pietgro Dacquino