La spiritualità dell’Avvento (Mt 24, 37-44)

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La spiritualità dell’avvento (Mt 24, 37-44)

Questa pagina ci presenta in trasparenza molte icone della venuta di Dio nella nostra vita, quasi sovrapposte: l’una richiama l’altra, da quella più immediata della venuta d’ogni giorno all’ultima, attraverso Cristo Risorto, che è appunto l’immagine del compimento del nostro cammino storico, personale e comunitario: una sovrapposizione in cui l’immagine successiva completa quella precedente. L’avvento ci vuole educare all’accoglienza della venuta di Dio nella nostra vita, ci vuole sensibilizzare alla consapevolezza della nostra condizione di creature, al riconoscimento del dono di Dio e alla sua accoglienza. Sono tre momenti della spiritualità dell’avvento.

La consapevolezza della nostra condizione di creature

La ragione per cui Dio viene sempre sta nel fatto che non lo possiamo accogliere in una sola situazione, in un solo momento: da ciò la nostra temporalità. Se avessimo la possibilità di accogliere il dono di Dio in una sola volta saremmo già pieni, perfetti, saremmo già figli, avremmo già raggiunto il nostro compimento. Anzi, potremmo dire, saremmo Dio. Perché se in un solo istante potessimo accogliere il dono di Dio, vorrebbe dire che avremmo la perfezione divina, la possibilità di essere all’altezza di Dio. All’inizio, invece, possiamo accogliere solo un piccolo frammento, che costituisce la base del dono successivo; poi insieme costituiscono la capacità di accogliere un dono ancora più grande e così via. Tutta la nostra vita si svolge in questa accoglienza progressiva del dono della vita.
Può sembrare illusoria l’attesa, dato che a un certo momento vediamo che comincia un declino, per cui i doni vengono meno: la memoria s’indebolisce, certe capacità intuitive scompaiono… Ci sono doni che vengono meno. Ma dobbiamo tener presenti due cose.
Primo: che tutti i doni sono provvisori, non sono mai nostri, non possiamo mai dire: «Ora possiedo». Noi non possediamo mai la vita, ci è sempre offerta, offerta in ogni istante, in tutte le sue espressioni. Essere consapevoli della nostra condizione di creature vuol dire essere certi che in tutte le situazioni noi siamo alimentati, sostenuti, investiti da una forza che ci costituisce. Per cui l’atteggiamento di accoglienza (che poi è la fede) ci è strutturalmente necessario. Noi siamo in ogni istante costituiti viventi. Questo è il primo aspetto fondamentale. Il secondo è la convinzione che alla fonte di tutto il processo c’è la forza creatrice, c’è l’amore di Dio, c’è la Sua presenza. Per cui essere consapevoli della nostra condizione di creature significa imparare a svolgere il nostro tempo alla Sua presenza, riconoscendo le venute successive e continue di Dio nella nostra piccola storia.
L’essere consapevoli di questi dati è fondamentale per cogliere il senso di tutto ciò che viviamo. Tutto è provvisorio, ma tutto è funzionale alla crescita della nostra dimensione interiore, quella statura dei figli di Dio che resta per sempre. C’è una realtà permanente dentro di noi, continua, che è la ragione di tutto. Gesù la chiamava “il tesoro nascosto”, “la perla preziosa”, “l’unica cosa necessaria”. La spiritualità dell’avvento implica l’educazione alla dimensione profonda della persona, alla presenza dentro di noi di una realtà definitiva ed eterna: è Dio in noi, Dio che viene nella nostra vita.
Come viene disturbata questa consapevolezza? come viene impedita quando non la raggiungiamo? Viene impedita dalla irruenza delle realtà apparenti, illusorie, dei beni che si presentano come fondamentali, del piacere che si offre come risposta a tutte le nostre tensioni, ecc. Tutte queste cose sollecitano la nostra attenzione, ci portano fuori, ci distraggono, ci alienano. Per cui non siamo concentrati sul valore fondamentale, sul tesoro nascosto, su ciò che vale nella nostra vita.
La consapevolezza della venuta di Dio e la consapevolezza di essere creature sono la condizione primordiale per vivere bene. E l’avvento vorrebbe educarci a vivere in questo clima interiore.

L’attesa del dono di Dio

Secondo momento essenziale è attendere il dono successivo. Perché la consapevolezza della presenza di Dio potrebbe anche farci ripiegare su noi stessi: «So che Dio è presente, so che sono figlio». Ma non è sufficiente. Non siamo ancora quello che dobbiamo essere, dobbiamo diventarlo. Per cui la spiritualità dell’avvento implica l’attesa del dono per riconoscerlo e accoglierlo.
L’attesa non ha un oggetto definito: non sappiamo qual è il dono che viene, qual è la novità che irrompe. Per questo è un’attesa di fede. Tutto ciò che noi attendiamo sapendolo è illusorio, perché è proiettivo. Quando noi attendiamo qualcosa e sappiamo che cosa attendiamo, non è dono di Dio, è qualcosa che noi proiettiamo sulla base della nostra necessità, come risposta al nostro bisogno. Attendere ciò di cui abbiamo bisogno non è di per sé un male, ma dobbiamo essere consapevoli che non è il vero oggetto della nostra attesa, è solo l’ambito dove noi esercitiamo un’altra attesa, l’attesa del dono di Dio.
Mi spiego con un esempio molto semplice: uno studente che s’impegna nello studio attende il risultato positivo del suo esame. Ma se si limita semplicemente ad attendere il risultato, di fatto sbaglia impostazione di vita, proverà una delusione. Sul momento sarà contento di essere andato bene, ma poi scoprirà che qualcosa manca. E questo vale per tutte le nostre attese: scopriamo sempre che dopo il momento della soddisfazione sorge un’amarezza, una insufficienza. A mancare non è un “di più” che deve venire, bensì ciò che è già venuto e che non abbiamo accolto, perché non l’abbiamo riconosciuto e atteso.
Cos’è questo “di più”? È quel dono di vita per cui potevamo crescere nella dimensione spirituale, cioè come figli di Dio. È un dono reale, che viene offerto in ogni situazione, non fuori. Non fuori dell’esame, del lavoro, dell’incontro con l’altro, bensì in quella situazione. Ma che non è il risultato che noi attendevamo e che può anche non venire, mentre il dono di vita viene sempre.
Continuando l’esempio precedente: se lo studente attende semplicemente il risultato positivo e lo ottiene proverà insoddisfazione per qualcosa che non è sufficiente. Se poi fa l’esame e non c’è il risultato positivo, proverà delusione e amarezza. Ma se si è educato ad accogliere il dono di Dio, cioè la forza di vita per cui in quella esperienza poteva crescere come figlio di Dio – e quindi nell’attesa del risultato attendeva Dio che veniva – l’attesa avrebbe trovato sempre risposta, sia nel caso di risultato positivo, sia nel caso di risultato negativo. Questo non vuol dire che non avrebbe sofferto dell’insuccesso, ma non sarebbe caduto nella disperazione, non avrebbe provato angoscia: in ogni caso ciò che realmente valeva l’aveva atteso e riconosciuto.
Questo vale per tutte le esperienze della nostra vita. L’errore che spesso noi facciamo è attendere la superficie: l’incontro con l’amico, l’assistenza all’ammalato, il far piacere alla persona che amiamo, il successo della nostra piccola impresa, le risposte positive alle nostre richieste… Noi attendiamo solo questo. Sono cose buone, però non sono l’oggetto specifico dell’attesa, non sono Dio che viene; perché Dio viene sia nella salute che nella malattia (anche se la malattia non corrisponde al volere di Dio), Dio viene sia nel successo che nell’insuccesso (anche se l’insuccesso non corrisponde al volere di Dio). La forza di vita che ci è offerta è sempre a nostra disposizione.
Allora prendere coscienza della nostra condizione implica l’esercizio dell’attesa del dono di vita spirituale per cui cresciamo come figli di Dio.
Per questo noi non conosciamo il dono. Tutto il resto lo sappiamo: sappiamo il desiderio del compimento, del successo. Ora, tutto quello a cui diamo un nome è alla nostra altezza, non è il “di più” che invece dà significato alla nostra vita. Per questo lo attendiamo nella fede: non possiamo dargli il nome, ma ci abbandoniamo senza riserve a Dio: «Tu sai».

L’accoglienza del dono di Dio

Il terzo aspetto che è fondamentale nella spiritualità dell’avvento, è l’accoglienza del dono. Perché possiamo attendere il dono, riconoscerlo, ma non preoccuparci di accoglierlo, perché siamo così intenti nelle cose di superficie, che il dono di fondo ci sfugge. Possiamo anche averne avvertenza, ma non lo accogliamo, non lo interiorizziamo. L’accoglienza del dono è un processo attivo, non è una recezione passiva. Il dono di Dio non è mai impacchettato: è una forza, è una possibilità a cui tu dai il volto, a cui tu dai la concretezza. Non è come i doni che noi confezioniamo secondo i nostri gusti, li impacchettiamo e li consegniamo agli amici. No, il dono di Dio è dono di vita ed è un dono che coinvolge libertà e offre decisione: non è un’azione che si aggiunge alla nostra azione, un pensiero che si aggiunge al nostro pensiero. No, è una forza che diventa la nostra azione, è una verità che diventa il nostro pensiero.
L’accoglienza perciò implica sintonia vitale e interiorità, altrimenti il dono ci sfugge, ci passa accanto. Il guaio fondamentale della nostra vita è che molti doni ci passano accanto e non si concretizzano mai in noi: non diventano mai pensiero, decisione, sensibilità, misericordia, tenerezza, perdono. Dio ci passa accanto e non viene accolto. Diceva Gesù: «Questa è la volontà del Padre: che nulla vada perduto di ciò che mi ha dato».
Se anche noi vivessimo con questo criterio: che nulla vada perduto di quanto Dio continua a donarci!