Nella noia che preannuncia la morte c’è lo zampino del diavolo di Bernanos

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Una nuova traduzione del “Diario di un curato di campagna” è l’occasione per rileggere l’opera per molti versi profetica del grande romanziere francese
«Bernanos è un uomo coraggioso, non ha paura di parlare dei sotterranei della sua anima. E a quella parola, anima, Pereira si sentì riavere, fu come se un balsamo lo avesse sollevato da una ma-lattia e così chiese un po’ stupidamente: lei crede nella resurrezione della carne?». Così il protagonista del famoso romanzo di Tabucchi interroga il giovane Monteiro Rossi che vuole iniziare una collaborazione alla pagina culturale del quotidiano “Lisboa”, di cui era l’unico redattore. Pereira stava traducendo il Journal d’un curé de campagne dello scrittore francese, che adorava assieme a Mauriac perché scandagliava gli abissi dell’animo umano e perché era stato un fermo oppositore di Franco combattendo contro l’alleanza fra il cattolicesimo e i regimi fascisti del tempo. Più avanti si legge in Sostiene Pereira: «Prese di nuovo Bernanos e si mise a tradurre il resto del capitolo. Se non poteva pubblicarlo sul “Lisboa” pazienza, pensò, magari poteva pubblicarlo in volume, almeno i portoghesi avrebbero avuto un buon libro da leggere, un libro serio, etico, che trattava di problemi fondamentali, un libro che avrebbe fatto bene alla coscienza dei lettori».

Bene fa Stefania Ricciardi, curatrice e traduttrice della nuova edizione del Diario di un parroco di campagna (Bompiani, pagine 298, euro 13,00), a ricordare nelle prime righe della sua introduzione questa citazione che rende onore a Georges Bernanos, con le sue figure di preti tormentati, spesso umili e derelitti, ma indomabili nel combattere la battaglia della fede. Da Donissan, protagonista del romanzo Sotto il sole di Satana, al piccolo parroco di Ambricourt, al centro del Diario, che muore nella casa di un amico ex-prete pronunciando poche parole anch’esse divenute notissime: «Cosa importa? Tutto è grazia». Sacerdoti che si addossano i fardelli della loro comunità e si ergono come baluardo davanti al potere del Maligno. Goffo e solitario, il giovane abbé si danna letteralmente per prendersi cura dei suoi parrocchiani, recandosi personalmente a trovarli nella loro abitazione ogni tre mesi, cercando di dare vita a un circolo sportivo per i ragazzi e stando sempre dalla parte dei più deboli. Soprattutto è animato dal desiderio di salvare le loro anime non solo dal male che li contamina ma dalla noia. «La mia parrocchia è divorata dalla noia», annota nella prima pagina del Diario. Una noia che lo rende triste e contro la quale sembra impossibile lottare, «una forma turpe di disperazione, qualcosa di simile a un cristianesimo avariato che fermenta».

Sia quando parla con il curato di Torcy, l’unico che lo sostiene nella fede, che con il medico ateo Delbende, che rimprovera alla Chiesa di stare dalla parte dei nobili e dei ricchi, sia quando affronta il conte con sua moglie e la figlia, il nostro parroco – di cui a bella posta Bernanos non indica il nome, unico caso nella sua produzione letteraria, probabilmente perché in lui vede se stesso – propone un cristianesimo non condizionato dalle strutture. Nelle sue debolezze, anche fisiche perché è colpito da un tumore allo stomaco, il parroco di questo paesino delle Fiandre che non riesce a farsi amare da nessuno incalza i suoi parrocchiani tanto da farsi rimproverare persino dal sagrestano che gli dice: «Un parroco è come un notaio. È lì in caso di bisogno. Senza stare ad assillare la gente». E c’è persino chi gli invia una lettera anonima invitandolo ad andarsene.

L’unica sua colpa in realtà è quella di non arrendersi al tedio e all’angoscia, di sollecitare chi incontra a fare pace con Dio, quel Dio cui la contessa non perdona di aver lasciato morire il piccolo figlioletto e che per questo non riesce nemmeno ad amare l’altra figlia ora adolescente. In questo memorabile incontro («un grande combattimento per la vita eterna») emerge la statura del curato, che le vuole far capire che «l’inferno, signora contessa, è non amare più».

La presenza del demonio è meno evidente qui che in altri romanzi di Bernanos come Sotto il sole di Satana e Monsieur Ouine, leggendo i quali un critico come Carlo Bo poteva permettersi un accostamento con Kafka e Dostoevskij. Meno evidente ma non assente, rappresentata in primo luogo dalla noia appunto. E da quella forma di cristianesimo benpensante che tende solo a conservare l’ordine. Una forma che Bernanos odiava: per lui il cristianesimo si deve “sporcare” e la Chiesa non dev’essere il miele della terra ma il sale. Ancora di più, la battaglia fra il bene e il male è fra due mondi che spesso sono inestricabili. Lo rileva proprio Bo: «Bernanos capovolgeva il senso della teologia». Per questo «c’è un abisso fra la rappresentazione del mondo che offre Proust e la rappresentazione del mondo infinito degli esiliati e dei dannati di Bernanos». Ma sempre il nostro pretino ci ricorda che «il peccato contro la speranza è il più mortale di tutti».

Il Diario di un parroco di campagnanon è solo un classico della letteratura, ma un libro che rivela ancor oggi la sua forza. Albert Béguin lo definì «l’immagine ridotta ma completa del mondo che una volta è stato cristiano». Per questo vale la pena rileggerlo e meditarlo: quando Bernanos lo scrisse eravamo nel 1933 ed è passato quasi un secolo, ma certe sue pagine non cessano di interrogare il credente di oggi e quello di domani, in una società come quella europea che per alcuni sociologi è ormai «postcristiana».

Roberto Righetto