PAPA FRANCESCO E L’EVANGELIZZAZIONE DEL SACERDOZIO (di Pino Lorizio)

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In margine ad alcune parole del Pontefice su battesimo e clero. Spesso si è dimenticato l’innesto del ministero presbiterale sul sacerdozio unico di Cristo e su quello battesimale del popolo di Dio e stiamo ancora pagando amaramente le conseguenze di questa cultura e di questa teologia (di Pino Lorizio)

Un passaggio del discorso che papa Francesco ha rivolto oggi al simposio sulla teologia fondamentale del sacerdozio, promosso dalla Congregazione dei Vescovi, risulta provocatorio e al tempo stesso generativo di una riflessione che vada in profondità. Ecco cosa ha detto il vescovo di Roma: «La vita di un sacerdote è anzitutto la storia di salvezza di un battezzato. Il Cardinale Ouellet ha detto questa distinzione tra sacerdozio ministeriale e battesimale. Noi dimentichiamo a volte il Battesimo, e il sacerdote diventa una funzione: il funzionalismo, e questo è pericoloso. Non dobbiamo mai dimenticare che ogni vocazione specifica, compresa quella all’Ordine, è compimento del Battesimo. È sempre una grande tentazione vivere un sacerdozio senza Battesimo – e ce ne sono, sacerdoti “senza Battesimo” –, senza cioè la memoria che la nostra prima chiamata è alla santità. Essere santi significa conformarsi a Gesù e lasciare che la nostra vita palpiti con i suoi stessi sentimenti (cfr Fil 2,15). Solo quando si cerca di amare come Gesù ha amato, anche noi rendiamo visibile Dio e quindi realizziamo la nostra vocazione alla santità. Ben a ragione San Giovanni Paolo II ci ricordava che «”l sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato” (Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, 26). E vai a dire tu a qualche vescovo, a qualche sacerdote che dev’essere evangelizzato… non capiscono. E questo succede, è il dramma di oggi».

Mentre dovremmo impegnarci nell’ardua opera di evangelizzare il clero, penso che dobbiamo anche evangelizzare il cosiddetto “sacerdozio”. E ciò a partire dal linguaggio. Come si può cogliere in filigrana nel discorso odierno, il Nuovo Testamento non usa una terminologia “sacerdotale”, se non per Cristo (Lettera agli Ebrei) e per il popolo di Dio (I lettera di Pietro). Ciò accade perché la novità evangelica si contrappone al paganesimo e all’ebraismo, entro i cui contesti le figure sacerdotali rappresentavano la casta e il potere. L’uscita di scena dell’orizzonte sacrale-pagano ha messo fuori gioco i sacerdoti, così come il passaggio dal medio-giudaismo al giudaismo rabbinico, con la catastrofe della distruzione del tempio, ha di fatto soppresso il sacerdozio all’interno dell’ebraismo. In tal modo la cultura si è desacralizzata e questo anche grazie al messaggio evangelico.

Del resto, Gesù di Nazareth non è stato un sacerdote, non apparteneva a una tribù tradizionalmente sacerdotale, ma a quella di Giuda. La sua laicità ci fa riflettere sul riconoscimento di unico e sommo sacerdote che gli attribuisce la lettera agli Ebrei: «Se egli fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote, poiché vi sono quelli che offrono i doni secondo la Legge. Questi offrono un culto che è immagine e ombra delle realtà celesti, secondo quanto fu dichiarato da Dio a Mosè, quando stava per costruire la tenda: “Guarda – disse – di fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte”. Ora invece egli ha avuto un ministero tanto più eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore, perché è fondata su migliori promesse» (Eb 8, 4-6).

Il linguaggio del Nuovo Testamento e del proto-cristianesimo non chiama mai gli apostoli o i discepoli “sacerdoti”, ma utilizza tre termini, che ancora caratterizzano il ministero ordinato: diacono, presbiteri e vescovi. Tali siamo e così dobbiamo restare e denominarci per non incorrere in pericolosi fraintendimenti.

Papa Francesco, in ultima analisi, invita i presbiteri a riflettere e a praticare innanzitutto il rapporto con Dio e quindi quello col suo popolo, mentre non dimentica l’accento sul presbiterio e il necessario riferimento al vescovo. Spesso si è dimenticato l’innesto del ministero presbiterale sul sacerdozio unico di Cristo e su quello battesimale del popolo di Dio (=laos) e stiamo ancora pagando amaramente le conseguenze di questa cultura e di questa teologia. Per questo, il messaggio di papa Francesco, che nasce soprattutto dalla sua esperienza di prete e vescovo non può lasciare indifferente la chiesa tutta, per la quale e nella quale si esprime il ministero. Peraltro. risulta, sempre a livello terminologico, interessante rilevare come il sensus fidei della gente riservi il titolo di “sacerdote” pressoché esclusivamente al presbitero. E questo perché percepisce che nel momento in cui egli presiede l’eucaristia, partecipa nella forma più alta all’unico sacerdozio del Signore Gesù. Già il beato Antonio Rosmini indicava nella “separazione del clero dal popolo” la prima piaga della santa Chiesa, segnalando come ciò accadesse a partire dal culto, che da luogo di comunione rischiava e rischia di trasformarsi in occasione di separazione. La coraggiosa e profetica denuncia del “clericalismo”, che permea il magistero di questo vescovo di Roma, continua a mettere il dito su questa piaga, mentre al tempo stesso col suo stile, anti-clericale, cerca di medicarla e di guarirla.