Per essere felici ci vuole coraggio. Viaggio alla scoperta delle sorgenti profonde della gioia in due libri e un canale Youtube

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«Per educare un figlio serve un intero villaggio» è un proverbio africano molto amato da Papa Francesco, leit-motiv del messaggio di lancio del Patto educativo del 12 settembre 2019.

Gli effetti collaterali della pandemia, di lì a poco tempo, avrebbero reso ancora più chiara una realtà già evidente, il fatto che l’educazione non è solo “roba da insegnanti” ma il compito di un’intera comunità. Per educare un ragazzo una singola famiglia non basta, serve una tribù, un contesto ampio, vivo, ricco, variegato, in cui la conoscenza si possa diffondere per irraggiamento e per osmosi, in modo spesso impercettibile e inconsapevole, ma continuo.

«Per educare un figlio serve un villaggio» è una frase copiata, postata, condivisa nei social da moltissimi navigatori del web perché sentita come profondamente vera. Talmente vera che cambiando l’ordine degli addendi (e ribaltando i termini della questione) il prodotto non cambia: educare un ragazzo, crescere un bambino “fa bene”, riattiva le energie migliori di un’intera comunità, fa riscoprire risorse dimenticate, rende creativi e aperti all’imprevisto. Ha un valore terapeutico, perché fa riaffezionare alla vita anche chi attraversa un periodo di stanchezza (in termini tecnici si chiama sindrome da Burn-Out) sentendosi “un caso bruciato” per dirla con uno dei geniali titoli dei romanzi di Graham Greene.

A nove mesi di distanza dal lancio del Patto educativo globale (rinviato a ottobre a causa della pandemia), l’immagine della tribù educante ha già generato molte “cellule attive” in tanti contesti diversi. Nel caso del lavoro educativo di don Giovanni Emidio Palaia, è diventato un libro pressochè omonimo, Il villaggio dell’educazione. Un incontro tra i figli di Abramo sull’uomo creatura di Dio (Assisi, Cittadella editrice 2020, pagine 339) e un canale youtube su cui gli studenti possono pubblicare il loro video, preceduto dal volume Che cosa ci fa lieti? L’uomo alla ricerca della felicità: l’amore libera la libertà nell’uomo, lo rende capace di gioia (Todi, Tau Editrice, pagine 120, euro 9,50) scritto l’indomani del sinodo dei giovani. Il volume edito da Cittadella Editrice (disponibile a breve in libreria) è pubblicato sia in italiano che in inglese, e raccoglie i contributi (tra gli altri) di monsignor Pierbattista Pizzaballa, del rabbino Giuseppe Momigliano, dell’imam Nader Akkad e della teologa musulmana Shahrzad Houshmand Zadeh.

Riflettere insieme sul mistero della creazione divina può portare a punti di contatto sorprendenti fra le tre religioni monoteiste; in uno dei passi più interessanti del libro il rabbino Momigliano, ad esempio, citando Rav Eliyahu Eliezer Dessler parla del chesed, il dono generoso che non può essere ricambiato. «Tutto ciò che il Signore ha messo a disposizione dell’uomo — e a cui provvede ogni istante — è chesed (…) Secondo questo pensiero è stata data all’uomo la stessa qualità presente nella creazione, quella di poter compiere atti di sincera generosità, non condizionati da aspettative di ricompensa e da interessi personali». Una gratuità e una “dismisura” che, se assecondate, possono rendere profondamente felici. Ma la libertà dell’uomo ha bisogno di essere liberata per essere davvero se stessa, come recita il lunghissimo sottotitolo del libro Che cosa ci fa lieti? Desiderare la gioia sembra la cosa più facile del mondo ma non è così.

«Si ha bisogno di non sentirsi in colpa per questo desiderio insopprimibile di essere felici — scrive l’attrice e conduttrice tv Beatrice Fazi nella prefazione al libro. Un desiderio insopprimibile «che ogni tanto deraglia, però. E ogni tanto si spegne. Anche se fai il lavoro che ti piace, il matrimonio funziona e sei madre di quattro figli stupendi». Che cosa ci rende (davvero) felici è una domanda urgente e “pericolosa”. Perchè l’itinerario da percorrere per diventarlo è un cammino difficile, non automatico, non istintivo. È il frutto di un lavoro su di sè costante, implica scelte e strappi mai indolori. E ribalta il metodo a cui siamo abituati.

L’uomo contemporaneo può accettare tutto tranne l’idea di ascoltare una voce che non provenga da se stesso. Per l’Homo sapiens sapiens del ventunesimo secolo, ostaggio di una sorta di onnipotenza percepita (solo apparente, come ci ha mostrato la pandemia) non c’è niente di più scandaloso, di più radicalmente controcorrente dell’accettare che la gioia possa essere regalata, in modo imprevedibile da qualcosa (o Qualcuno) che non coincide con i propri progetti. E invece è l’amore che “libera la libertà dell’uomo”, ed è un antidoto potente a quella soddisfazione facile, falsa, da bulimia di consumo che porta a balconear a diventare spettatori passivi della propria vita rinunciando ad esserne protagonisti.

«Quale domanda seria ci pone questo libro! — continua Beatrice Fazi, raccontando la sua storia — E quanti anni ho trascorso eludendola, concentrata, piuttosto, a chiedermi cosa rendesse così infelice la mia vita. Figlia di genitori separati, poi adolescente in lotta con il suo corpo, un aborto a vent’anni e alcune storie sbagliate, nutrivo la convinzione che quella fame di senso, che mi portavo dentro da sempre, non si sarebbe mai saziata». Una domanda pericolosa, ammette con franchezza Stefano, studente: «Leggendo il libro (…) ciò che inizialmente mi ha destato non poche perplessità è stato il titolo: Che cosa ci fa lieti ? È una domanda rivolta direttamente al lettore che io stesso ho percepito nel mio intimo con il sottinteso timore di trovarmi a fine lettura sommerso da domande e dubbi esistenziali». Tra le recensioni spicca anche un altro commento, una ragazza che ringrazia per il regalo delle domande ricevute, non solo per le risposte offerte agli interrogativi più pressanti della vita.

di Silvia Guidi