“PERCHÉ NON VI STANCHIATE PERDENDOVI D’ANIMO” -LETTERA LA PASQUA di Mons. Francesco Savino Vescovo di Cassano allo Jonio

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Cari sacerdoti e diaconi,care e cari religiosi, care e cari consacrati, cari seminaristi,amatissime e amatissimi fedeli, oggi più che mai,impediti a incontrarci da un’emergenza sanitaria che ci impegna a non uscire di casa, riconosciamo la fraternità che ci unisce a tutti coloro che sono al di là della nostra porta, oltre le mura che ci
proteggono. Nei gesti e nelle parole dirompenti di un Papa che abbiamo visto piccolo, esposto alla pioggia e al vento, solo, in piazza San Pietro, abbiamo compreso che siamo sulla stessa barca, quella su cui Gesù è presente, mentre attorno a noi è buio e tempesta. Nel dormire del Maestro, però, possiamo scoprire una fiducia totale, scoprirla e coltivarla. Coltivare la sua fiducia, parteciparne, è il dono dello Spirito che ci fa famiglia, Chiesa.

Alle soglie di una Settimana Santa in cui sarà per la prima volta
impossibile radunarci e porre insieme i segni e i gesti che da secoli
rinsaldano nella passione di Cristo la nostra unità, mi sono chiesto come e
cosa scrivervi. E andando col cuore al Nuovo Testamento, alle pagine cioè
che lasciano intravvedere una Chiesa che nasce e prende forma, ho
avvertito che uno dei registri più delicati nella conversazione, uno dei più
appassionati, è quello esortativo. Tutti gli apostoli lo hanno praticato. Gesù
stesso ha esortato. Delicato, perché presuppone l’amore ovvero
un’immedesimazione totale nell’altro; appassionato, perché chi esorta mira
a scaldare il cuore, a generare cambiamenti. Una predica richiama, un
discorso presenta, un’esortazione invece motiva: in essa la tonalità delle
parole dipende dall’urgenza che comunicano, scaturisce dalla percezione di
una speranza da partecipare. Avverto che proprio di motivazione abbiamo
bisogno. Tutti. Chi ha consacrato a Dio la vita intera, chi partecipa della
missione apostolica, chi porta il vangelo nelle realtà secolari, chi educa i
bambini, chi assiste gli anziani, chi cura i malati, chi guadagna il pane, chi
governa il Paese, chi piange i suoi morti. Tutti abbiamo bisogno,
specialmente ora che ci teniamo a distanza l’uno dall’altro, con tensione e
timore, di chi ci parli da cuore a cuore.

“Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21): ecco il desiderio che l’evangelista
Giovanni, attribuendolo a dei Greci presenti a Gerusalemme per la Pasqua,
intuisce universale, eterno, inesauribile. Negli scorsi anni, davanti alle folle
che riempiono le nostre parrocchie la Domenica delle Palme, o le nostre
strade per i riti della Settimana Santa, ogni pastore sarà stato in diversi
modi impressionato da quel desiderio diffuso, a volte implicito: “Vogliamo
vedere Gesù”.

Agire nel gregge, sentire che il nostro compito è servire,
assecondare, sostenere quel desiderio: questo è più necessario che mai. È
una tensione da avvertire insieme, laici, religiosi e sacerdoti. “Quando
sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32), dice Gesù. Vi
esorto a non dimenticare quelle scene che hanno accompagnato la nostra
vita, a ritornarvi con la memoria, perché mai come quest’anno il bisogno di
essere salvati urla nel cuore di tutti noi. Lavoriamo creativamente, anche
se a distanza, in ogni parrocchia, gruppo, associazione e movimenti, per
rinsaldare la famiglia dei figli di Dio con tutte le risorse a nostra
disposizione, avendo a cuore che nessuno perda l’occasione nascosta in
questa Pasqua. Solo insieme si può non dubitare, confermarsi che nel
passato non si è trattato di illusione, accogliere l’amore più grande,
sentendosi ben ancorati a terra. “Fedeli alla terra”, come amava dire il
martire evangelico Dietrich Bonhoeffer. È qui e ora che seguiamo Gesù sino
alla fine, che moriamo e rinasciamo con lui. È qui e ora che collaboriamo al
suo fare nuove tutte le cose.

Il Vangelo di Giovanni, alle soglie della Pasqua (Gv 12, 1-11) delinea nella
casa di Betania due profili: quello di Giuda e quello di Maria, sorella di
Lazzaro, entrambi presenti al medesimo Maestro. Rileggiamo quel
delicatissimo passaggio. Immaginiamoci dentro la scena,
rappresentiamocela: osserviamo, ascoltiamo, entriamo a contatto con i
nostri sentimenti più profondi.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava
Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena:
Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa
una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i
piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del
profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli,
che doveva poi tradirlo, disse: «Perché quest’olio profumato non si è
venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?». Questo egli disse
non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome
teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora
disse: «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia
sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete
me».

Giuda e Maria. Lo stesso Bene si è offerto a entrambi, il medesimo
sguardo di predilezione lo hanno avvertito su di sé in una lunga familiarità.
Eppure Giuda appare distaccato, calcolatore, ladro: sta per smarrirsi
definitivamente. Dall’altra parte la gratuità di Maria, l’offerta smisurata del
suo nardo, il banchetto per ringraziare di Lazzaro strappato alla morte:
tutto testimonia un amore di intensissimo profumo. Calcolatori si diventa
quando la fede sfuma nel dovuto, nel precetto soddisfatto, senza creatività,
senza generosità. Praticanti non credenti? Forse. Ebbene, quest’anno ci è
impedito di “praticare”, di celebrare, o almeno di farlo nel modo consueto.
Nulla è più scontato, né dovuto, né automatico. Nulla ci consente di
metterci in mostra. Giuda descrive una parabola, che si fa domanda a
ciascuno per sé: “Sono forse io?” (Mt 26,22).

Papa Francesco, in piazza San Pietro, ci ha scossi profondamente:
«La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle
false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i
nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come
abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta,
sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta
pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che
ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di
anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di
fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri
anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte
all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi
con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria
immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta)
appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza
come fratelli. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore,
la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro
mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità,
sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati
assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati
davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e
ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del
nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti,
pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre
stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”».

I riti della Settimana Santa, grazie a Dio, interrompono i calcoli di Giuda e
lasciano irrompere l’esagerazione di Dio. Essi sospendono il corso regolare
del tempo, invitano ad una sosta. “O voi tutti che passate per via,
fermatevi e guardate” (Lam 1,12). Chi ha interiorizzato lo spettacolo della
croce non può non esortare chi ama a sostare e a guardare. Vengono giorni,
infatti, in cui passare oltre è follia, è rinuncia a vivere, è abbandonarsi alla
perdizione. Ecco Maria, che già secondo Luca, mentre Marta era tutta
indaffarata nelle faccende di casa, aveva avuto il coraggio di fermarsi, di
sedersi, di ascoltare ciò che alle donne non era consentito ascoltare: un
maestro. Come tacerlo, come nasconderlo, se si ama? La fisicità dei gesti di
Maria di Betania, che con un’intimità estrema avvolge Gesù di sé, del suo
profumo, dei suoi capelli, del suo caldissimo corpo ci dice come la Chiesa è
Chiesa tra le mura di casa. Non c’è casa dove non c’è intimità; non c’è
casa, dove non ci si serve, non c’è casa dove la gratitudine e l’affetto non si
manifestano in forme di tenerezza e di attenzione. Pasqua quest’anno sarà
a casa. In case dove esistono anche violenza, invisibilità, separazioni,
perdoni negati, sopruso. Case – penso a molti anziani, a persone single o
separate e anche ad alcuni preti – in cui c’è solitudine: lì Gesù ci nutrirà,
vivrà il suo Getsemani, il nostro giudizio, le sue cadute, la crocifissione, la
morte. Effonderà lo Spirito. “Senza misura” (Gv 3,34), legandoci
reciprocamente nell’unica Chiesa. Andiamo oltre i legami di sangue anche
solo con una telefonata, con una videochiamata, con un messaggio:
facciamoci vicini in modo nuovo, non dovuto, irrituale, senza calcolo.

Le notizie che entrano in queste nostre case ogni giorno potranno
rimanere a lungo drammatiche. Ancora non sappiamo per quanto vedremo
immagini di ospedali e di morti, ovunque nel mondo.
Avvertiremo, però, che c’è quotidianamente chi ha negli occhi tanto
dolore non attraverso lo schermo, ma in una corsia, a fianco di chi soffre.
Pochi giorni fa, su Avvenire, è stata pubblicata la testimonianza toccante di
un sacerdote, il teologo bergamasco don Maurizio Chiodi, in ospedale
ormai da un mese. Le condizioni di salute non gli hanno impedito di essere
prete fino in fondo così che nelle sue parole possiamo interpretare la
Pasqua anche dall’interno del dramma che tutti ci inquieta. Il vangelo non
semplicemente spiegato, ma vissuto, persino in un letto e nell’estrema
fragilità.

«Non sai mai quando il virus interromperà la sua corsa, a quale sintomo
si fermerà. L’odiato e invisibile nemico è sempre in agguato. E poi senti
o intuisci degli altri che muoiono, intorno a te. La morte è lì. Dovrebbe
essere sempre così, nella vita, ma lo dimentichiamo tanto facilmente!
Vedi gli altri morire intorno a te e ti chiedi: toccherà anche a me?
Quando? E poi ti domandi: perché l’altro e non me? E perché sono stato
colpito io e non l’altro? Insieme a questi, sorgono molti altri
interrogativi, che riguardano il contagio, il prima e il dopo: ho rischiato
certo, nel continuare la mia vita normale quando già l’allarme
circolava, e il mio è stato un rischio prudente? Sono momenti che ti
costringono, più o meno lucidamente, a un nuovo rapporto con l’altro,
nel quale si alternano momenti di gratitudine immensa – basta pensare
a chi si prende cura di te, spesso rischiando per sé – e di comunione
profonda e altri di lotta e di incomprensione, di stanchezza e di fatica.

Il Covid-19 è un’esperienza mortale perché ti colpisce in forme che
hanno a che vedere con le esperienze più semplici della vita: il calore
del corpo, nella febbre, e poi i dolori diffusi, la tosse, le difficoltà
respiratorie, la nausea, l’inappetenza, la diarrea… Il virus tocca l’atto
del respirare e del mangiare, insidiandoti nel tuo rapporto con le cose e
con il mondo e colpendo l’intimo più profondo del tuo corpo. Si insinua
in te, ingaggiando una lotta mortale, colpo su colpo, corpo a corpo.
Tutte queste esperienze di patimento e di morte, per noi credenti, e
per ciascuno a modo suo, sono un modo per vivere la passione di Gesù,
stando in comunione con Lui. Il Getsemani, il dolore che lacera il corpo,
la solitudine della croce, l’impossibilità di condividere e comunicare
con gli altri, l’incomprensione, il “sentirti fuori”, come scartato ed
emarginato da una comunità che ringrazia, canta e loda, perché in quel
momento tu non puoi farlo.

Certo, la croce di Gesù è anche altro,
perché è la morte del Figlio di Dio offerta per amore di coloro che lo
rifiutano, ma è proprio nell’umanità del Figlio che ciascuno di noi
ritrova la propria morte. C’è poi il sabato santo. È il tempo dell’attesa,
per noi credenti. C’è un sabato santo anche nel Covid-19. È l’attesa di
una guarigione, che desideri con tutto te stesso e che puoi perfino
favorire, ma che, radicalmente, non dipende da te. Puoi solo
attenderla, sperarla, senza sapere a priori che ci sarà un lieto fine. Non
c’è nulla di più importante, per un paziente, che la virtù della
pazienza. Come dice la lettera agli Ebrei (5,8), in un bellissimo passo
che è riferito a Gesù, il Figlio, e dice la verità di ogni figlio dell’uomo,
la pazienza è lasciarsi istruire da ciò che si patisce. Lasciarsi istruire è
sapere attendere, apprendere di apprendere da quanto ti accade e tu
non comprendi e non accetti. Lasciarsi istruire, cioè pazientare, è non
precipitare, non demordere, non scoraggiarsi, resistere, darsi tempo e
dare tempo. Nell’attesa, tu dai tempo all’altro, di cui ti fidi, e sai di
essere nelle mani dell’Altro, in cui hai riposto ogni confidenza».

Don Maurizio ci annuncia la confidenza, la vive. Non perdiamo allora la
speranza. In uno scritto del Nuovo Testamento, di cui non conosciamo
l’autore, è riportata questa esortazione, che vorrei ora fare mia: “Pensate
attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande
ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo” (Eb
12,3). E rompendo la retorica, quest’anno davvero impossibile, vi domando:
perché mai il pensiero alla sofferenza di Gesù dovrebbe esserci di sollievo e
risparmiarci stanchezza? Ciò che gli è stato fatto – e che ricorderemo in
questi giorni – non aumenta forse lo smarrimento? Sembra difficile non
perdersi d’animo in un mondo offeso da tanto male. La nostra umanità ha
liquidato persino il Giusto, l’Innocente: perché tenere fisso lo sguardo su di
lui, senza stare peggio? Verrebbe da disperare. Ve lo dico onestamente:
sono domande che forse in altre circostanze non avremmo osato farci.
Avremmo continuato a ripetere i nostri canti, a baciare il crocifisso, a
intercedere per il mondo. Ma quasi non avvertendone lo scandalo. Perché
mai la sofferenza di Gesù dovrebbe darci sollievo?

“Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla
croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di
Dio” (Eb12,2). Vedete? Ecco la sorpresa! L’autore della Lettera agli Ebrei
incastona una parola preziosissima sul cupo sfondo della passione: gioia.
Gesù aveva la gioia dinanzi e andava alla croce. I verbi esprimono libertà e
determinazione. Non si tratta di un poveretto, di una semplice vittima che
attragga su di sé sguardi e parole di compassione: occorre, dunque, che ci
smarchiamo da una devozione che troppe volte è scivolata nel
compatimento per il buon Gesù. Se in lui, infatti, vediamo il dolore di chi
dal peccato è assediato e annientato, è solo perché consapevolmente lo
affronta, in un corpo a corpo decisivo. Il peggio che ci abita, la tenebra da
cui siamo posseduti si è riversata violentemente sulla sua persona. Da chi
arresta, condanna e uccide il Cristo, erompono ancestrali paure. Le stesse
che escono da noi anche oggi, quando nella tempesta ci scopriamo
aggressivi e ci troviamo gli uni contro gli altri, invece che capaci di remare
nella stessa direzione. Come un demonio che ci abbandona, però, in Gesù
crocifisso vediamo il male che scatenandosi ci lascia, esce: l’Agnello, così,
catalizza un’angoscia che proprio sfogandosi rivela il suo limite e finisce.

È tutto qui: la croce racconta il limite degli orrori nostri e la stabilità
della misericordia. C’è qualcuno che ci regge, che tiene nella prova, che
continua ad amarci. Comprende, attende, ripone in Dio la sua fiducia. La
gioia di Cristo è il Padre alla cui presenza vive. Ogni parabola, incontro,
gesto che ha preceduto la Passione diventa chiave di lettura del dono
supremo. Dio salva: questo è ciò che significa il nome “Gesù” e risplende
sulla croce. Che dal mondo il male sia tolto, che esista un nome dato agli
uomini nel quale è stabilito che siamo salvati, che tutto ormai ruoti attorno
a Cristo e sia prima o dopo di lui: questa è la gioia cristiana, in cui sorge
quella fraternità di peccatori perdonati che chiamiamo Chiesa. La Chiesa di
Gesù. Mi è parso di sentire vibrare l’energia di questa speranza
nell’esortazione di António Guterres, segretario generale dell’ONU, alcuni
giorni fa. Egli ha trovato la forza di ricordare ai grandi della Terra i molti
Getsemani, gli infiniti Calvari su cui viene crocifissa oggi l’umanità
innocente a motivo di conflitti che i poveri e i piccoli subiscono sempre
come vittime.

«Al virus non interessano nazionalità, gruppi etnici, credo religiosi. Li
attacca tutti, indistintamente. Intanto, conflitti armati imperversano
nel mondo. E sono i più vulnerabili – donne e bambini, persone con
disabilità, marginalizzati, sfollati – a pagarne il prezzo e a rischiare
sofferenze e perdite devastanti a causa del Covid-19. […] È questo il
motivo per cui oggi chiedo un immediato cessate il fuoco globale in
tutti gli angoli del mondo. È ora di fermare i conflitti armati e
concentrarsi, tutti, sulla vera battaglia delle nostre vite. Alle parti in
conflitto, io dico: ritiratevi dalle ostilità. Accantonate diffidenza e
animosità. Fermate le armi, l’artiglieria, i raid aerei. Ciò è
fondamentale per aiutare a creare corridoi che permettano di salvare
vite. […] Arrestare la piaga della guerra che sconvolge il nostro mondo
comincia con il mettere fine ai conflitti ovunque. Adesso. È ciò di cui la
nostra famiglia umana ha bisogno, ora più che mai».

Le parole dei costruttori di pace, la dedizione del personale sanitario, il
sacrificio di tanti sacerdoti contaminati nel ministero fra la gente, la
memoria della fede di chi ci sta precedendo in cielo mi sospinge a salutarvi
con le parole con cui prosegue la lettera agli Ebrei: “Anche noi dunque,
circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è
di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa
che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine
alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2). Come in una grande
maratona, l’autore vede Gesù davanti dare a tutti il passo cioè
quell’andatura che rende possibile arrivare al traguardo senza venir bruciati
dalla fatica. Aver gli occhi su di lui impedisce lo sconforto, dà il giusto
ritmo, abilita a mete straordinarie chi prova la tentazione di lasciare. La
passione, nucleo incandescente della fede, sprigiona dunque l’energia
necessaria ai veri atleti che vi auguro di essere. Perché vi conosco e con voi
corro ormai da tempo, avendo Gesù negli occhi.
Buona Pasqua, sorelle e
fratelli miei !

Cassano allo Ionio, 3 aprile 2020

Vostro Francesco Savino