Presbitero o sacerdote? Non è lo stesso (di Cosimo Scordato)

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Un altro intervento, di Cosimo Scordato, riflette sulla differenza terminologica e teologica tra le parole “sacerdote” e “presbitero”. Una rapida rilettura della storia del ministero, che consegna alla Chiesa un compito, inauguarato dal Concilio Vaticano II 60 anni fa e che configura la comunione ecclesiale secondo relazioni più originarie e più autentiche. (ag)

La storia della chiesa è il luogo privilegiato in cui possiamo notare lo sviluppo della tradizione, il suo cristallizzarsi ma anche il suo continuo rimodularsi. La tradizione, infatti, non è un dato statico ma prende forma a seconda delle pressioni che la storia fa sentire e si va rimodulando secondo la forma storica, che la stessa comunità ecclesiale va prendendo. Senza enfatizzarla, ci sembra utile la formulazione “essenza in forma storica” che Hans Kueng dava a detto processo nel suo trattato La Chiesa e poi ulteriormente sviluppata, intorno alla categoria paradigma, nella sua monografia Il cristianesimo. Nel processo della tradizione da un lato, qualcosa è ‘costante’, essenziale; dall’altro lato, qualcosa è ‘variante’, anche sul piano linguistico. Ci limitiamo solo al termine sacerdote, che scegliamo come esemplificativo di processi più ampi.

 Il termine “sacerdote” e i ministri

 Il termine Archiereus (“sommo sacerdote”) è riferito a Gesù Cristo nella Lettera agli Ebrei, nella quale si afferma che il Figlio di Dio non ha voluto prendere forma dagli angeli, piuttosto è stato “tratto di tra gli uomini e costituito a loro favore” (5,1) per essere come uno di loro e potere capire, dall’interno della condivisione radicale, anche il loro patire. A sua volta il qualificativo sacerdotale o regno di sacerdoti è riferito a tutto il popolo cristiano in 1Pt 2,5 e 2, 9, con citazioni esplicite e implicite di testi dell’Antico Testamento. Nelle Lettere paoline viene riconosciuta una diversità di carismi/doni all’interno della comunità e tra di essi c’è anche il ‘governare’ (1Cor 12, 27-31).

Parimenti, nel configurarsi del linguaggio neotestamentario si vanno delineando tre tipi di figure, nessuna delle quali ha caratteristiche sacerdotali: diaconi (servi), presbiteri (anziani), episcopi (che vegliano, sorvegliano).

 La sacralizzazione del ministero

 Ebbene va ricondotto a epoca successiva (da Cipriano in poi) il riferimento del termine sacerdos al gruppo dei presbiteri, avviando un processo che lo renderà esclusivo di essi, espropriandone il popolo cristiano. Di tale processo fanno parte diverse ulteriori specificazioni: l’implicanza sacer-dos/sacer e la qualificazione di “uomo del sacro”, con le ambivalenze sacro/profano, con lo sviluppo della separatezza anche dalla vita quotidiana (incluso il celibato); l’implicanza sacerdozio/sacrificio con funzione del sacerdote come ‘mediatore’ tra Dio e gli uomini col rischio di diverse ambiguità. La tematizzazione del ministero ordinato proposta da Tommaso e ripresa in qualche modo nei documenti del Concilio di Trento, sottolinea il carattere sacerdotale come potentia activa col compito di realizzare il sacrificio di Cristo e di produrre il corpo del Signore; ciò comporterà un duplice condizionamento; da un lato, renderà difficile il riconoscimento della sacramentalità dell’episcopato in quanto risulta schiacciato tra il papa, da cui il vescovo dipende per la potestà di giurisdizione, e il sacerdote, da cui egli non si distingue in ordine alla produzione del corpo eucaristico del Signore. In questo modo è stata compromessa la verità sacramentale ed ecclesiale del vescovo e, conseguentemente, l’identità della chiesa locale.

 La comunità sacerdotale dimenticata

 Il popolo sacerdotale resta soltanto sullo sfondo di questo processo, caratterizzato più per quello che non può fare (consacrare l’eucaristia), anziché per quello che è abilitato a fare come soggetto comunitario della celebrazione. A questo processo si aggiungono certe mistificazioni prodotte dall’Ecole francaise sulla figura del sacerdote, che lo hanno sempre più isolato in un processo di spiritualizzazione separante.

A questo punto ci sembra utile la regolamentazione del linguaggio anche rispetto ad alcune oscillazioni che purtroppo sono rimaste nei testi del Concilio Vaticano II.

Il Concilio Vaticano II

 In primo luogo ripartiamo dalle affermazioni postconciliari di una chiesa tutta ministeriale in forza dei sacramenti della iniziazione cristiana, riservando il qualificativo sacerdote/sacerdotale, oltre che profetico e regale, a tutto il popolo cristiano, crismato dallo Spirito e reso concorporeo col Risorto. Si dia spazio alle illimitate forme di “ministerialità diffusa” sulla linea del passato apostolico, ma altrettanto in apertura a ricercarne nuove.

In secondo luogo, in linea con i nuovi riti, vanno ripristinate le tre figure specifiche del vescovo, del collegio presbiterale e del collegio dei diaconi, rileggendone il senso come “persone di servizio” della comunità, rispettivamente: il vescovo in quanto presiede la comunione della chiesa locale, il presbiterio in quanto presiede le comunità afferenti alla Chiesa locale; e il diaconio in quanto, in nome della Chiesa locale, si affianca ai bisogni e ai bisognosi della comunità cristiana, ma anche della collettività civile.

Alcune ambiguità da superare

In terzo luogo, si deve tentare di superare alcune ambiguità, che ci trasciniamo dall’intreccio terminologico accennato sopra: sacersacerdossacrificium. La prima ambiguità è quella di considerare il dono della vita di Cristo come un caso del concetto generale di sacrificio, comune a tante religioni. In questo modo il sacerdote è l’unica persona abilitata a offrire il sacrificio facendo nel tempo, in qualche modo, le veci di Cristo. Questo non sembra compatibile col dato neotestamentario perché non è l’uomo che deve offrire sacrifici a Dio, ma è Dio che si dona con passione all’uomo; solo in maniera analogica si può ancora usare il termine sacrificio e con le dovute precauzioni, appena accennate. In secondo luogo, va ricordato che il celebrante di questa autodonazione divina è Dio stesso, il quale realizza la sua piena ed eterna alleanza con la nostra umanità, nella persona del Figlio (anamnesi) e nel suo Spirito vivificante (epiclesi); ebbene, la memoria e l’epiclesi viene fatta, da chi presiede la celebrazione, “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e quindi in nome di tutta la comunità credente (sperante e amante), che è la destinataria dell’autodonazione divina.

Alcune conclusioni

Cosa offre, allora, la Chiesa in tutto questo? La sua disponibilità alla stessa autodonazione, che ha origine in Dio e che deve diventare ispiratrice di ogni suo atto e di ogni sua scelta e che prende le diverse forme di dono e di servizio nella vita della comunità ecclesiale e sociale.

E il compito del ministero ordinato? Il vescovo è chiamato a servire la comunione di tutta la chiesa locale, interfacciandola con tutte le altre Chiese in comunione col vescovo di Roma; il presbitero è chiamato a servire la comunione della comunità affidatagli dal vescovo; il diacono ha il compito di sbilanciare la comunità cristiana in direzione del servizio ai poveri e agli ultimi e creare con loro comunità di vita.

La presidenza liturgica, comunque, comprende, con modalità concentriche, il servizio alla comunione della Parola, del culto e della diaconia. Ma tutto questo deve avvenire attivando tutte quelle dinamiche che considerano detto servizio come espressivo di tutta la Chiesa, la quale come un soggetto comunitario è corresponsabile dell’ascolto pieno, della celebrazione partecipe, del servizio gradito; in questo modo si esplicita maggiormente l’esigenza di incrementare la vita di tutta la comunità che, in quanto corpo del Signore eucaristico, viene sostenuta a sviluppare tutti i suoi doni in reciprocità totale e paritetica, per rendere più bello e trasparente il Risorto in tutti i suoi membri.