“Presso la Croce di Gesù stava Maria, sua madre” (padre Raniero Cantalamessa: 3° predica Quaresima 20)

Articoli home page

Maria sul Calvario
La parola di Dio che ci accompagna nella presente meditazione è quella che si legge nel vangelo di Giovanni:
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco il tuo figlio! ». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Gv 19, 25-27).
Di questo testo, così denso, consideriamo in questa meditazione solo la prima parte, quella narrativa, lasciando alla prossima volta il resto del brano evangelico che contiene il detto di Gesù.
Se sul Calvario, presso la croce di Gesù, c’era Maria sua Madre, vuol dire che ella era a Gerusalemme in quei giorni e, se era a Gerusalemme, allora ha visto tutto, ha assistito a tutto. Ha assi¬stito alle grida: « Barabba, non costui! »; ha assistito all’Ecce ho¬mo, ha visto la carne della sua carne flagellata, sanguinante, co¬ronata di spine, seminuda davanti alla folla, sussultare, scossa da brividi di morte, sulla croce. Ha udito il rumore dei colpi di martello e gli insulti: « Se sei il Figlio di Dio… ». Ha visto i solda¬ti dividersi le sue vesti e la tunica che lei stessa aveva forse ¬tessuto.
« Stavano – si legge – presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala ». Maria non era dunque sola; era una delle donne. Sì, ma lei era lì come « sua madre » e questo pone Maria in una situazione del tutto diversa dalle altre. Ripenso al funerale di un ragazzo di 18 anni. Seguivano il feretro varie donne. Tutte erano vestite di nero, tutte piangevano. Sembravano tutte uguali. Ma tra esse ce n’era una diversa, una alla quale tutti i presenti pensavano, che tutti, senza voltarsi, guardavano di soppiatto: la madre. Era vedova e aveva quel figlio solo. Lei guardava la bara, si vedeva che le sue labbra ripetevano senza posa il nome del figlio. Quando i fedeli, al momento del Sanctus, si misero a proclama¬re: « Santo, Santo, Santo, è il Signore Dio dell’universo », anche lei, senza rendersene forse nemmeno conto, si mise a mormora¬re: Santo, Santo, Santo… In quel momento ho pensato a Maria ai piedi della croce.
Ma a lei fu chiesto qualcosa di molto più difficile: perdonare. Quando sentì il Figlio che diceva: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), ella ca¬pì cosa il Padre celeste si aspettava da lei: che dicesse con il cuore le stesse parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ». E lei le disse. Perdonò.
Se Maria poté essere tentata, come lo fu anche Gesù nel de¬serto, questo avvenne soprattutto sotto la croce. E fu una tentazione profondissima e dolorosissima, perché aveva per motivo proprio Gesù. Lei credeva alle promesse, credeva che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio; sapeva che, se Gesù avesse pregato, il Padre gli avrebbe mandato « più di dodici legioni di angeli » (cf Mt 26, 53). Ma vede che Gesù non fa nulla. Liberando se stesso dalla croce, libererebbe anche lei dal suo tremendo dolore, ma non lo fa. Maria però non grida: « Scendi dalla croce; salva te stesso e me! », o: « Hai salvato tanti altri, perché non salvi ora anche te stesso, figlio mio? », anche se è facile intuire quanto un simile pensiero e desiderio dovesse affacciarsi spontaneamente al cuore di una madre. Maria tace.
Umanamente parlando, ci sarebbero stati tutti i motivi, per Maria, di gridare a Dio: « Mi hai ingannata! », o, come gridò un giorno il profeta Geremia: «Mi hai sedotta e io mi sono lasciata sedurre! » (cf Ger 19, 7), e scappare giù per il Calvario. Invece ella non scappò, ma rimase « in piedi », in silenzio, e così facen¬do è divenuta, in modo tutto speciale, martire della fede, testi-mone suprema della fiducia in Dio, dietro il Figlio.
Questa visione di Maria che si unisce al sacrificio del Figlio ha trovato un’espressione sobria e solenne in un testo del Con¬cilio Vaticano II:
Anche la Beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa generata .
Maria non stava dunque « presso la croce di Gesù », vicino a lui, solo in senso fisico e geografico, ma anche in senso spirituale. Era unita alla croce di Gesù; era dentro la stessa sofferenza. Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne. E chi potrebbe pensare diversamente, se appena sa cosa vuol dire essere madre?
Gesù era anche uomo; come uomo, egli non è, in questo momento, agli occhi di tutti, che un figlio giustiziato alla presenza di sua madre. Gesù non dice più, come a Cana: “Che c’è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta l’ora mia” (Gv 2, 4). Adesso che la sua « ora » è giunta, c’è, tra lui e sua madre, una grande cosa in comune: la stessa sofferenza. In quei momenti estremi, in cui anche il Padre si è misteriosamente sottratto al suo sguardo di uomo, è rimasto a Gesù solo lo sguardo della madre, in cui cercare rifugio e conforto. Disdegnerà questa presenza e questo conforto materno, colui che nel Getsemani pregò i tre discepoli dicendo: “Restate qui e vegliate con me” (Mt 26, 38)?

Stare presso la croce di Gesù
Ora, seguendo come sempre il nostro principio-guida se¬condo cui Maria è figura e specchio della Chiesa, sua primizia e modello, ci dobbiamo porre la domanda: Che cosa ha voluto dire alla Chiesa lo Spirito Santo, disponendo che nella Scrittura fosse registrata questa presenza di Maria accanto alla croce di Cristo?
Anche questa volta, è la Parola stessa di Dio che, implicita¬mente, traccia il passaggio da Maria alla Chiesa e dice cosa de¬ve fare ogni credente per imitarla: « Presso la croce di Gesù – è scritto – stava Maria sua Madre e accanto a lei il discepolo che egli amava ». Nella notizia c’è contenuta la parenesi. Quello che avvenne quel giorno, indica quello che deve avvenire ogni giorno: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, co¬me ci stette il discepolo che egli amava.
Ci sono due cose nascoste in questa frase: primo, che bisogna stare «accanto alla croce » e, secondo, che bisogna stare ac¬canto alla croce « di Gesù ». Vedremo che si tratta di due cose differenti, anche se inseparabili.
Stare presso la croce « di Gesù ». Queste parole ci dicono che la prima cosa da fare – la più importante di tutte – non è stare presso la croce in genere, ma stare presso la croce «di Gesù». Che non basta stare presso la croce, cioè nella sofferenza, starci anche in silenzio. Questo sembra già da solo una cosa eroica, eppure non è la cosa più importante. Può essere anzi niente. La cosa decisiva è stare presso la croce « di Gesù ». Ciò che conta non è la propria croce, ma quella di Cristo. Non è il soffrire, ma il credere e così appropriarsi della sofferenza di Cristo. La prima cosa è la fede. La cosa più grande di Maria sotto la croce fu la sua fede, più grande ancora che la sua sofferenza. San Paolo dice che il Vangelo è potenza di Dio « per tutti coloro che credono » (cf Rm 1, 16). Per tutti coloro che credono, non per tutti coloro che soffrono, anche se, vedremo, le due cose sono di solito unite tra di loro.
È qui la fonte di tutta la forza e la fecondità della Chiesa. La forza della Chiesa viene dal predicare la croce di Gesú, cioè da qualcosa che agli occhi del mondo è il simbolo stesso della stoltezza e della debolezza. Ciò comporta la rinuncia a ogni possibilità o volontà di affrontare il mondo incredulo e spensierato con i suoi stessi mezzi che sono la sapienza delle parole, la forza delle argomentazioni, l’ironia, il ridicolo, il sarcasmo e tutte le altre « cose forti del mondo » (cf 1 Cor 1, 27). Bisogna rinunciare a una superiorità umana, perché possa venire alla luce e agire la forza divina racchiusa nella croce di Cristo. Bisogna insistere su questo primo punto perché ce n’è ancora bisogno. La maggioranza dei credenti non è stata mai aiutata a entrare in questo mistero che è il cuore del Nuovo Testamento, il centro del kerigma e che cambia la vita.
«Stare presso la croce». Ma qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che « la parola della croce » non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia, ma che è veramente croce? Il segno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (cf Mc 8, 34). Il segno è partecipare alle sue sofferenze (Fil 3, 10; Rm 8, 17), essere crocifissi con lui (Gal 2, 20), completare, mediante le proprie sofferenze, ciò che manca alla passione di Cristo (Col 1, 24). La vita intera del cristiano deve es¬sere un sacrificio vivente, come quella di Cristo (cf Rm 12, 1). Non si tratta solo di sofferenza accettata passivamente, ma anche di sofferenza attiva, vissuta in unione con Cristo: “Castigo il mio corpo e lo riduco in servitù” (1 Cor 9, 27). “Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio e tu cerchi per te riposo e gioia?”, ammonisce l’autore dell’”Imitazione di Cristo”.
Sono esistiti nella Chiesa due modi diversi di porsi davanti alla croce di Cristo: uno, più caratteristico della teologia protestante, basato sulla fede e l’appropriazione, che fa leva sulla croce di Cristo e uno – coltivato, almeno in passato, di preferenza dalla spiritualità cattolica – che insiste sul soffrire con Cristo, sul condividere la passione di lui e, come nel caso di certi santi, nel rivivere addirittura in sé la passione di Cristo, fino a vedere riprodotte in sé le sue stimmate. L’ecumenismo ci spinge a ricostruire la sintesi di ciò che nella Chiesa ha finito, a poco a poco, per essere contrapposto.
Non si tratta, evidentemente, di mettere sullo stesso piano l’operato di Cristo e quello nostro, ma di accogliere la parola della Scrittura. Essa ci dice che ognuna delle due cose – sia la fede, sia le opere -, senza l’altra, è morta (cf Gc 2, 14 ss). È la fede stessa nella croce di Cristo che ha bisogno di passare attraverso la sofferenza per essere autentica. La prima lettera di Pietro dice che la sofferenza è il « crogiuolo » della fede, che la fede ha bisogno della sofferenza per essere purificata, come l’o¬ro nel fuoco (cf 1 Pt 1, 6-7).
La nostra croce non è in se stessa salvezza, non è né potenza né sapienza. Per se stessa è pura opera umana, o addirittura castigo. Diviene potenza e sapienza di Dio in quanto – accompagnata dalla fede e per disposizione di Dio stesso – ci unisce alla croce di Cristo. “Soffrire –scriveva san Giovanni Paolo II dal suo letto di ospedale dopo l’attentato – significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte al¬l’umanità in Cristo» . Soffrire unisce alla croce di Cristo in modo non solo intellettuale, ma esistenziale e concreto; è una specie di canale, di via di accesso, alla croce di Cristo, non paral¬lela alla fede, ma facente un tutt’uno con essa.

« Sperò contro ogni speranza »
Ma dobbiamo, ormai, allargare il nostro orizzonte. Per l’evangelista Giovanni che riferisce l’episodio, la croce di Cristo non è solo il momento della morte di Cristo, ma anche quello della sua “glorificazione” e del trionfo. La risurrezione vi è già operante nel segno dello Spirito che si effonde (cf. Gv 7, 37-39; 19, 34). Sul Calvario Maria dunque ha condiviso con il Figlio non solo la morte, ma anche le primizie della risurrezione. Una immagine di Maria ai piedi della croce, in cui ella appare solo « triste, afflitta, piangente », come canta lo Stabat Mater, cioè solo l’Addolorata, non sarebbe completa. Sul Calvario, ella non è solo la « Madre dei dolori », ma anche la Madre della speranza, « Mater spei », come la invoca la Chiesa in un suo inno.
Di Abramo, san Paolo afferma che “ebbe fede sperando contro ogni speranza” (Rm 4, 18). La stessa cosa si deve dire, con più ragione, di Maria sotto la croce. Ella credette, sperando contro ogni speranza, cioè in una situazione in cui, umanamente parlando, non c’è più alcuna ragione per sperare. In qualche modo che non possiamo spiegare (e che forse neppure lei era in grado di spiegare a se stessa), Maria, come Abramo, ha creduto che Dio era capace di far risuscitare il suo Figlio «anche dai morti » (cf Ebr 11, 19).
Un testo del Concilio Vaticano II menziona questa speranza di Maria sotto la croce come un elemento determinante della sua vocazione materna. Dice che sotto la croce, « ella ha cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità » .
Veniamo ora alla Chiesa, cioè a noi. Delle tre cose che la Chiesa commemora nel triduo pasquale – crocifissione, sepoltura e risurrezione del Signore -, «noi, – ha scritto sant’Agostino – nella vita presente realizziamo ciò che significa la crocifissione, mentre teniamo per fede e speranza ciò che significano la sepoltura e la risurrezione » . Anche la Chiesa, come Maria, vive la risurrezione « in speranza». Anche per essa, la croce è oggetto di esperienza, mentre la ri-surrezione è oggetto di speranza.
Come Maria fu presso il Figlio crocifisso, così la Chiesa è chiamata a stare presso i crocifissi di oggi: i poveri, i sofferenti, gli umiliati e gli offesi. Starci con speranza. Non basta compatire le loro pene o an¬che cercare di alleviarle. È troppo poco. Questo possono farlo tutti, anche chi non conosce la risurrezione. La Chiesa deve da¬re speranza, proclamando che la sofferenza non è assurda, ma ha un senso, perché ci sarà una risurrezione da morte. La Chiesa de¬ve «dare ragione della speranza che è in lei » (cf 1 Pt 3, 15).
Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere, come del¬l’ossigeno per respirare. Anche la Chiesa ha bisogno di speranza per proseguire il suo cammino nella storia e non sentirsi schiacciata dalle avversità. Nell’udienza generale dell’11 Marzo –l’ultima pubblica prima della sospensione per il Coronavirus – papa Francesco ci ha esortato a vivere questo tempo di prova “con fortezza, responsabilità e con speranza”. Vorrei raccogliere soprattutto il suo appello alla speranza.
La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt’ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Il poeta Charles Péguy ha un’immagine bellissima al riguardo. Dice che le tre virtù teologali –fede, speranza e carità – sono come tre sorelle: due grandi e una ancora bambina. Camminano insieme per strada tenendosi per mano, le due grandi ai lati e la bambina al centro. La bambina è naturalmente la Speranza. Tutti al vederle dicono: “Certamente sono le due grandi che trascinano la bambina al centro!”. Si sbagliano: è la bambina Speranza che trascina le due sorelle, perché se si ferma la speranza si ferma tutto .
Dobbiamo – come suggerisce lo stesso poeta – diventare « complici della bambina speranza ». Hai sperato ardentemen¬te una cosa, un intervento di Dio, e non è successo niente? Sei tornato a sperare di nuovo la volta successiva, e ancora niente? Tutto è andato avanti come prima, nonostante tante suppliche, tante lacrime, e forse anche tanti segni che questa volta saresti stato esaudito? Tu continua a sperare, spera ancora un’altra vol¬ta, spera sempre, fino alla fine. Diventa complice della speranza!
Diventare complici della speranza significa permettere a Dio di deluderti, di ingannarti quaggiù tutte le volte che vuole. Di più: significa essere in fondo contenti, in qualche parte remota del proprio cuore, che Dio non ti abbia ascoltato la prima e la se¬conda volta e che continui a non ascoltarti, perché così ti ha permesso di dargli una prova in più, di fare un atto di speranza in più e ogni volta più difficile. Ti ha fatto una grazia ben più grande di quella che chiedevi: la grazia di sperare in lui. Lui ha l’eternità per farsi perdonare del ritardo!
Ma bisogna fare attenzione a una cosa. La speranza non è so¬lo una bella e poetica disposizione interiore, difficile quanto si vuole, ma che lascia, per il resto, inoperosi e senza compiti con-creti, e perciò, alla fine, sterile. Al contrario, sperare significa proprio scoprire che c’è ancora qualcosa che si può fare, un compito da assolvere e che non si è, perciò, lasciati in balìa del vuoto e di una paralizzante inattività.
Quand’anche non ci fosse nulla più da fare da parte nostra per cambiare una certa situazione difficile, resterebbe pur sempre un grande compito da assolvere, tale da tenerci ab¬bastanza impegnati e tenere lontana la disperazione: quello di sopportare con pazienza fino alla fine. Questo fu il grande « compito » che Maria portò a compimento, sperando, sotto la croce, e in questo ella è pronta ora ad aiutare anche noi.
Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione di Geremia. Essa è il canto dell’anima nella prova più desolante e può essere applicato quasi alla lettera a Maria ai piedi della croce:
Io sono la persona che ha provato la miseria e la pena. Dio mi ha fatto camminare nelle tenebre, non nella luce; mi ha costruito un muro tutt’intorno perché non potessi più uscire. Se grido e invoco aiuto egli soffoca la mia preghiera. Ho detto: “È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.
Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l’orante dice a se stesso: «Ma le misericordie del Signore non so¬no finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c’è ancora speranza » (cf Lam 3, 1-29). Dal momento che il profeta decide di tornare a sperare, il tono cambia: la lamentazione si trasforma in fiduciosa attesa dell’intervento di Dio.
Volgiamo lo sguardo, ancora una volta, a colei che ha saputo stare presso la croce sperando contro ogni speranza. Invochiamo Maria come madre della speranza con le parole di un antico inno della Chiesa:
Salve Mater misericordiae,
Mater Dei, et mater veniae,
Mater Spei, et mater gratiae,
Mater plena sanctae laetitiae,
O MARIA!

Salve , o Madre di misericordia,
Madre di Dio e Madre di perdono
Madre di Speranza e Madre di grazia,
Madre ricolma di santa allegrezza,
O MARIA!

1.Lumen gentium, 58.
2.Imitazione di Cristo, II, 12,3.
3.S. Giovanni Paolo II, Lettera “Salvifici doloris”, 23 (AAS 76, 1984, p.231).
4.Lumen gentiun, 61.
5.S. Agostino, Lettere, 535,2,3; 14, 24.
6.Charles Péguy, Le porche du mystère de la deuxième vertu, in Œuvres poétiques complètes, Parigi 1975, p. 655 s.