Quaresima come una primavera

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Questo tempo liturgico è definito nell’immaginario collettivo come un periodo di tristezza, che viene dopo la spensieratezza del carnevale. È invece il tempo della verità. La “strada maestra” da percorrere in quaresima è connotata da alcuni atteggiamenti che la liturgia domenicale ci suggerisce per essere autentici “discepoli” di Cristo.

La quaresima, lo sanno tutti, viene dopo il carnevale. Un passaggio brusco si direbbe: sono così diversi tra loro! Carnevale è sinonimo di allegria, di spensieratezza, di divertimento, di scherzi; la quaresima richiama immediatamente una faccia triste, seria, severa. Carnevale vuol dire mettere in tavola cibi gustosi e dolci a non finire; la quaresima è tempo di digiuno e, il venerdì, di astinenza dalle carni. Carnevale è immagine di una vita a briglia sciolta, senza regole; la quaresima diventa il momento in cui riprendere coscienza delle leggi di Dio, leggi da rispettare anche quando costa.

Ma sono proprio così diversi? Forse lo sbaglio sta nell’aver fatto della quaresima una caricatura del cristianesimo. E se invece questo tempo di grazia fosse un tempo per ritrovare la vitalità perduta? Se fosse un’occasione per ritrovare l’armonia e la pace, la gioia di un rapporto autentico con Dio, con se stessi, con gli altri e – perché no? – anche con il proprio corpo? Ma allora la quaresima non deve essere presentata come un inverno, ma come la primavera della nostra esistenza!

“Guardare” i frutti. Gesù ci invita ad andare all’essenziale, ci strappa al gioco sottile delle simpatie e antipatie, dei pregiudizi e dei sospetti e ci libera dai legami che ci impediscono di valutare in modo giusto e veritiero la realtà.

La quaresima è un tempo nel quale la liturgia ci invita a non considerare elementi che sono solo superficiali e periferici. Volete capire chi siete voi, innanzitutto? Guardate a quello che fate, a quello che accade attorno a voi, a quello che produce la vostra azione! Intorno a voi c’è profumo di limpidezza, di onestà e di sincerità perché voi cercate di essere tali? Vuol dire che siete sulla buona strada! Viceversa, al di là del vostro spirito “religioso”, delle vostre molte preghiere, della vostra assidua partecipazione ai sacri riti, la vostra presenza è una “miccia” continua di contrasti, di accuse, di sgarberie e di intimidazioni? Beh, nel vostro supposto rapporto con Dio c’è qualcosa che non funziona (e non da parte di Dio!).

Ognuno è invitato a guardarsi allo specchio per riconoscere le tante maschere che vi ci appiccica sopra e per vedere la trave che è nel suo occhio, prima di lanciarsi alla scoperta della pagliuzza che è nell’occhio altrui. Si tratta di un esercizio utile e indispensabile ad ogni cristiano se non vuole ingannare se stesso e gli altri, pago solo di belle parole o di favole che si racconta.

La strada maestra. C’è una strada maestra che ci viene proposta all’inizio della quaresima: si tratta di un percorso modesto e faticoso, che tuttavia conduce alle sorgenti della vita.

È la strada dell’elemosina: la percorre chi riesce a togliere dal suo cuore tutti gli scudi di protezione. Così, un po’ alla volta, esso perde la sua durezza e diventa un cuore tenero, capace di commuoversi, di provare compassione davanti alle sofferenze altrui. Avviene allora che gli appelli più diversi trovino risposta. Nascono così gesti e parole di aiuto e di condivisione con chi non ce la fa più a tirare avanti. E anche i beni che uno possiede sono considerati solo un mezzo a cui ricorrere per risolvere tanti problemi urgenti.

È la strada del digiuno: riguarda il corpo, ma non si ferma ad esso. Vuole infatti raggiungere l’anima. Esso non si propone una cura dimagrante e non è determinato dall’ossessione per il peso o la circonferenza del proprio fisico. Il suo scopo è un altro: far provare un po’ di fame per avvertire di nuovo la fame di ciò che conta veramente, la parola di Dio. La liberazione da consumi inutili, da sprechi che costituiscono un insulto ai poveri, da un abuso del cibo, conduce progressivamente a cogliere ciò che prima restava ignorato. Divorare cibo è spesso uno “sport” a cui si abbandona chi manca di qualcosa che possa veramente saziarlo.

È la strada della preghiera: un tempo donato a Dio perché la relazione con lui non venga meno. Tempo per l’attesa: perché Dio non si comanda a bacchetta. Egli è libero e si rende presente quando e come vuole. Tempo per il silenzio perché solo questo può permettere un autentico ascolto: senza il silenzio, la voce di Dio rischia di venire coperta da altri suoni e da altre parole. Tempo per l’ascolto: è questo il primo movimento della fede, che conduce ad accogliere una Parola che ci raggiunge, benefica come la pioggia, ma anche esigente, dura, perché chiede il cambiamento, la fiducia, la disponibilità a mettersi nelle mani di Dio, a rischiare la propria esistenza per vivere fino in fondo l’avventura della fede. Tempo per la risposta: perché Dio cerca il dialogo con l’uomo, in un rapporto d’amore che sconfina nell’eternità.

È tempo di lottare. A molti cristiani le tentazioni di Gesù, nel deserto, sembrano addirittura scandalose. Come può essere tentato il Figlio di Dio? Come può venire a trovarsi in una situazione di prova? Per lui tutto dovrebbe essere limpido, chiaro, tranquillo! Eppure ben tre evangelisti riportano, ognuno con accenti diversi, questo stesso racconto, senza scandalizzarsi per nulla. Anzi, annunciando, come fa Luca, la tentazione per eccellenza a cui Gesù dovrà andare incontro…

QUARESIMA

La quaresima non è il nome di una pozione magica, che ci mette miracolosamente in una condizione nuova, ma un tempo che ci chiama ad una maggiore fiducia e per una relazione “diversa” con Dio. Senza affidarsi alla sua misericordia, ogni guarigione è impossibile.

Ascoltatelo! Quel giorno, sul monte Tabor, accadde qualcosa che i tre non si aspettavano. Mentre Gesù era in preghiera il suo volto “cambiò d’aspetto” e la sua veste divenne “candida e sfolgorante”. Accanto a lui Mosé ed Elia che parlavano di ciò che sarebbe accaduto a Gerusalemme.

Una manifestazione in piena regola. Una gioia per gli occhi che vedono la gloria di Dio. Voglia di fermarsi, per sempre: «Maestro, è bello per noi stare qui». Ci sono dei momenti stupendi nell’esistenza di fede che restano scolpiti nella memoria, come anche esistono dubbi e incertezze, che sembrano fugati in un attimo. In questi casi, siamo “tentati” di contemplare il Signore perché sentiamo il cuore battere di gioia. Dopo quest’attimo, la luce scompare e non ci resta che una voce: «Questi è il Figlio mio, l’eletto, ascoltatelo». È il momento in cui si deve scendere dal monte e riprendere la strada per camminare su un sentiero stretto che conduce alla collina del calvario.

L’esperienza cristiana non è fatta di visioni. La vita quotidiana di un discepolo di Gesù non si costruisce sul “vedere”, ma sull'”ascoltare”. La fede non viene sostenuta dalla vista, ma dall’udito. Dio non vuole essere fissato in un’immagine, perché la “sua” raffigurazione è una tentazione costante e illude di aver risolto una volta per tutte il rapporto con Dio. «Ho una croce d’oro al collo… un’immagine in casa… un santino nel portafoglio… Vede, sono anch’io un credente, un cristiano…». Il Dio di Gesù Cristo non vuole essere “imbalsamato” in un’immagine, ma chiede di essere ascoltato e accolto ogni giorno.

All’insegna della misericordia. La quaresima dell’anno C è un annuncio di misericordia. Nella pazienza del vignaiolo (3ª domenica), nell’abbraccio tenero ed esultante del padre (4ª domenica), nel gesto di Gesù che sfida coloro che sono pronti a lanciare le loro pietre e rimanda libera l’adultera (5ª domenica) possiamo intravedere la bontà di Dio e la sua disponibilità a perdonare, ad accogliere e a ridare vita.

Il perdono è – come dice la parola stessa – un dono superlativo, eccezionale e immeritato. Ognuno di noi, quando riconosce il proprio peccato e ne prova un sincero dispiacere, avverte come una grazia l’essere riammesso alla comunione con Dio e con i fratelli. Ognuno di noi, quando contempla la croce di Cristo, può ben misurare gli effetti devastanti del male, della cattiveria, del rifiuto di Dio, ma anche la potenza dell’amore che arriva a sacrificarsi fino in fondo. È la grazia “a caro prezzo”: un tesoro prezioso che non può essere trattato con sufficienza o dilapidato in modo insensato.

Non approfittiamo della sua pazienza. C’è una lezione da cogliere che riguarda la fragilità della nostra esistenza. Tra i pericoli che a volte incontriamo ve n’è uno che spesso minimizziamo: quello di perdere la nostra vita perché non abbiamo preso sul serio l’invito di Gesù a volgere il nostro sguardo verso di lui e ad accogliere il suo annuncio di salvezza.

La sicurezza stradale, il rispetto delle norme di prevenzione degli incidenti sul lavoro, una vita sana che allea buone abitudini alimentari all’esercizio continuato di uno sport, l’astenersi da abusi dell’alcol o del fumo: sono tutte “regole” che esigono attenzione se non vogliamo buttare via la nostra vita. Ma non possiamo perdere il senso delle proporzioni: c’è qualcosa che conta molto più ed è l’adesione sincera a Cristo, che si esprime nella cura prestata al proprio rapporto con Dio, nell’impegno nello sradicare il male e nel vivere una vita bella e generosa secondo il vangelo. Questo è il rischio che corriamo: sciupare la nostra esistenza, tagliarci fuori da quella salvezza che ci viene offerta e rinunciare ad una vita in pienezza, che trabocca nell’eternità.

Un amore smisurato. Diciamolo francamente: il padre della parabola raccontata da Luca ci sorprende ogni volta per il suo comportamento del tutto imprevedibile. Al ritorno di quel figlio che se n’era andato di casa e aveva dilapidato metà del patrimonio, ci aspetteremmo almeno una sgridata o una qualche punizione per fargli capire il male che ha provocato con il suo atteggiamento. E invece no. Non lo aspetta neppure sulla soglia di casa per fargli pesare quel ritorno dettato dalla fame e dall’indigenza più assoluta, ma gli corre incontro e gli si getta al collo. E poi, quasi a cancellare tutto quello che è accaduto, fa portare il vestito più bello, gli fa mettere l’anello al dito, gli fa calzare ai piedi dei sandali e fa preparare un banchetto di festa con le cose migliori che ci sono in casa.

Un comportamento del genere è del tutto inaudito. Com’è, del resto, quello che adotta con il figlio maggiore che, sdegnato, non vuole neppure entrare nella sala ove si sta svolgendo il pranzo. Anche in questo caso il padre fa qualcosa che non ci attenderemmo affatto e che cozza contro le regole dell’epoca. È lui ad alzarsi da tavola, lui a venire incontro al figlio, lui a spiegargli la ragione dei suoi gesti.

Questo comportamento è strano: quale padre su questa terra farebbe così? Eppure Gesù sembra fare apposta ad accentuare questa “stranezza” che contraddistingue il Padre suo. Gli uomini fanno fatica ad abbandonare le loro logiche. Soprattutto quando hanno finito con l’attribuirle a Dio! Il ritratto che fanno di lui lo presenta come un giudice giusto, uno che offre il suo perdono solo dopo che il peccatore ha fatto penitenza, uno che fa pagare il male commesso e non si dimentica facilmente della cattiveria delle sue creature e dei loro sbagli.

Ma Dio non è così. Dio dona una misericordia così grande da parere eccessiva. Dio si rallegra quando torniamo alla sua casa e non ci rinfaccia i nostri errori e la nostra condizione poco presentabile, perché ha un cuore smisuratamente buono. Questa è una consolazione per tutti quelli che riconoscono di aver sbagliato, che si accorgono del loro vestito lacero, della fame che fa sentire i suoi morsi, del tesoro dilapidato in poco tempo… Cosa c’è di più bello e di più tenero di quell’abbraccio che ci fa sentire il calore e la tenerezza di Dio?

“Va’ e d’ora in poi non peccare più!”. L’intento non era poi neppure tanto nascosto: a lui, che faceva da maestro, presentavano un caso concreto e gli chiedevano di emettere il suo giudizio. Una donna era stata sorpresa in flagrante adulterio. Le prove del suo peccato erano lampanti. Tutto era estremamente chiaro e, per fargli intendere dove andavano a parare, gli avevano ricordato la legge di Mosè che prevedeva la lapidazione. Se avesse pronunciato anche lui quella condanna, si sarebbero fatti beffe di tutte le sue parole di misericordia. In fin dei conti, le cose stavano come dicevano loro… Se avesse osato andare contro le prescrizioni della legge antica, avrebbero gridato al sacrilegio… Loro, comunque, le pietre le avevano già in mano, pronti a procedere.

Ma non si aspettavano quello che li attendeva. Perché la parola di Gesù è fulminante. Prendono sul serio la legge di Mosè perché viene da Dio? Vogliono una società immune dall’adulterio perché destabilizza le famiglie? Credono veramente nei valori che vengono difesi dai comandamenti? Ebbene, comincino da loro stessi, dalla loro vita. Sì, hanno ragione, questa donna va condannata: l’adulterio non è cosa di poco conto. Ma prima di assumersi la responsabilità di un’esecuzione facciano i conti con la loro coscienza: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». Giovanni racconta che le pietre sono cadute di mano, a partire dai più anziani, perché ognuno aveva paura che venisse allo scoperto qualcosa che ci teneva a lasciare nell’oscurità. Quello che avviene quando gli uomini assetati di giustizia se ne sono andati, è un dialogo tra Gesù e la donna. Lui, Gesù, in effetti potrebbe condannarla perché non ha peccato. Ma non è venuto per questo. È venuto per salvare ed ora intende spianare anche alla donna la strada di una vita nuova: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Il re umile e povero. Colui che avanza, quel giorno, tra l’entusiasmo della folla dei discepoli, non ha all’apparenza proprio nulla di regale. Cavalca un asino, e non un cavallo, come farebbe un potente di questa terra. Il messaggio che lancia è scoperto: è un re di pace, non un signore della guerra. Viene nell’umiltà e nella povertà. Proprio per questo si espone ad ogni rischio e pericolo. Gli accadrà di essere rifiutato e disprezzato, di trovarsi in balìa di coloro che esercitano il potere religioso e militare, di subire condanna, scherno e morte.

E tuttavia, paradossalmente, proprio questo Messia, dallo stile dimesso e pacifico, pronto a dare la sua vita e non a chiedere quella degli altri, desterà la gioia dei poveri, i quali sono capaci di riconoscere il compimento delle promesse e che accolgono con gioia colui che viene “nel nome del Signore”.

Siamo disposti ad accogliere questo re umile e povero? Oppure siamo prigionieri dei nostri schemi mentali che attribuiscono a Dio lo stesso stile dei potenti della terra, che cercano un trionfo che non ha nulla da spartire con la strada dell’umiliazione e della croce? Siamo discepoli che vogliono seguire il loro Signore per la strada ripida che conduce al calvario, oppure sogniamo una gloria che non prevede il passaggio attraverso la passione e la croce?

A scanso di equivoci, dobbiamo ricordare che il Risorto è colui che è stato crocifisso e che la sua morte non costituisce un temporaneo incidente di percorso, ma il passaggio obbligato per compiere il piano di salvezza.

Roberto Laurita