“RAVVIVA IL DONO DI DIO”: Lectio su 2Timoteo 1, 3-6

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Per comprendere a fondo il tema scelto per l’Anno Vocazionale è necessario prima di tutto ricostruire il contesto che ha spinto Paolo a scrivere la 2Timoteo e avere presente l’insieme della lettera. Ci lasceremo poi guidare da tre inviti che sembrano sintetizzare il contenuto dello scritto paolino: “ricorda”, “ravviva”, “custodisci”. In quest’ordine, i tre inviti ci permettono, a mio avviso, di entrare nel pensiero di Paolo e nella relazione profonda che lo lega al discepolo Timoteo.

Il contesto della Lettera

Non è questo il momento per uno studio approfondito sulla Lettera e sui quesiti di fondo che accompagnano i suoi studi: è una lettera paolina o no? Fa riferimento all’ultima esperienza del carcere o riflette una situazione ecclesiale posteriore? È una lettera pastorale o un testamento spirituale rivolto esclusivamente al discepolo fedele? Ogni domanda apre un mondo di altri quesiti… Mi preme solo dire che negli ultimi decenni la lettera è stata profondamente rivalutata come lettera paolina, distinta dalle altre lettere pastorali e attraversata dal desiderio di consegnare a Timoteo non solo alcuni criteri chiave per l’annuncio del vangelo ma anche l’invito a raggiungere quanto prima l’apostolo ormai alla fine della vita.

Quello che a noi interessa, in vista dell’obiettivo che ci siamo posti, è capire in che modo Paolo esorta il discepolo invitandolo a fare memoria, a ravvivare e a custodire il dono di Dio. L’invito di Paolo è caratterizzato da tre sfumature.

  • È un invito che nasce dall’esperienza viva del Signore. L’incipit dello scritto lo mette bene in evidenza (Paolo, apostolo di Cristo per volontà di Dio e secondo la promessa della vita che è in Cristo Gesù). Egli lega il suo essere apostolo alla volontà di Dio e alla vita (vissuta e promessa) che è in Cristo Gesù. Questo aspetto attraversa tutto lo scritto dove più volte Paolo evoca i momenti salienti del suo ministero e la vita del Cristo che scorre in lui.
  • È un invito che nasce da un ministero segnato da relazioni autentiche. Non solo tra Paolo e Timoteo, ma anche tra Paolo e i famigliari del discepolo (la madre, la nonna), tra Paolo e altri discepoli come Luca, Prisca e Aquila, Trofimo, Tichico, la famiglia di Onesiforo (per nome ne vengono menzionati una ventina). Relazione che dice conoscenza, affetto, calore… il che spiega l’affiorare di tutto un mondo emotivo fatto di lacrime, nostalgia, gioia, preghiera innalzata notte e giorno.
  • È un invito che nasce dell’esperienza dolorosa dell’abbandono (1,15; 2,12-13.17-18; 3,8-9; 4,10-16) e dalla percezione chiara che il combattimento è ormai alle battute finali e che la corsa sta terminando (4,6-8). Su venti persone menzionate per nome, cinque hanno abbandonato Paolo (Fìgelo, Ermègene, Imenèo, Filèto, Dema) e ad essi bisogna aggiungere “tutti quelli dell’Asia” (1,15) e anche quelli di Roma (4,16).

Queste tre sfumature (l’esperienza viva del Signore, le relazioni autentiche nel ministero, e la percezione dell’abbandono) fanno la differenza. Senza dubbio Paolo ha di fronte anche la situazione di Timoteo che sembra essere in difficoltà nel gestire una comunità come quella di Efeso dove non mancano le teste calde: a tale scopo aveva inviato in precedenza Prisca e Aquila, e per lo stesso scopo sembra aver inviato il rinforzo di Tìchico. Ma, al di là della situazione in sé, Paolo vuole assicurare a Timoteo quella solidità che gli permette ora e in futuro di reggere alle sfide dell’evangelizzazione. C’è un commento molto bello che vale la pena tenere a portata di mano durante quest’anno: è il volume di Carlo Maria Martini, Timoteo. La via del discepolo (rieditato da noi nel 2017), un testo che raccoglie le meditazioni sulla 2Timoteo tenute dal cardinale in occasione di due corsi di esercizi.

Ricorda!

Delineato il contesto, entriamo nelle tre esortazioni che sembrano attraversare tutto lo scritto. La prima la possiamo individuare come un invito alla memoria (2Tm 1,3-6). Paolo è il primo che fa memoria, prendendo indirettamente per mano Timoteo e immergendolo nelle esperienze sorgive da lui vissute.

La tradizione ebraica è particolarmente legata all’esperienza della memoria: “Noi ebrei – scrive Martin Buber nel 1938 – siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere”. Nella Bibbia sia Israele, sia Dio sono invitati a ricordare: l’alleanza si basa sulla memoria e la prima espressione del peccato è quella di dimenticare. Non ricordare significa smarrire il volto del Signore e quindi smarrire la relazione.

I Padri della Chiesa vivevano i momenti di ritiro spirituale o i tempi forti dell’anno sempre come un esercizio della memoria. Essi erano convinti che l’uomo è la sua memoria. Proprio per tale motivo l’uomo ha bisogno della Parola di Dio: perché in essa risplende il volto di un Dio che entra in relazione con l’uomo, nelle situazione più diverse. Nella Parola la memoria si sedimenta e diventa esperienza di singoli, di comunità, di popoli fino a codificarsi in un testo scritto. Essa è talmente viva che il testo scritto non rappresenta l’ultima tappa di tale itinerario di vita: alla fine la vita contenuta nella memoria è talmente forte e dinamica da tradursi in un volto, in una carne, quella del Figlio di Dio. In lui la memoria del Padre è limpida e chiara.

Come scrive Padre Rupnik, «bisogna tener conto della memoria, che è un cestino senza buchi, che contiene e raccoglie tutto ciò che vi entra. Non disperde niente, non tralascia nessuna cosa. Anche se al momento non siamo coscienti delle cose che vi entrano, però queste cose rimangono e prima o poi passano al varco di una specie di fotocellula con cui vengono captate e portate alla coscienza, diventando come un’esca che attira tante altre immagini, parole, ricordi, che si ricollegano e si offrono…» (L’arte della vita, Lipa 2011, p. 100). Nei confronti di Timoteo Paolo invita a fare memoria dell’azione di Dio, sempre luminosa e costruttiva, e non di quella degli uomini che mettono in difficoltà il servizio del discepolo.

Per capire più a fondo quanto andiamo dicendo, possiamo fare riferimento a due testi, uno dell’Antico e uno del Nuovo Testamento.

  • Il primo è quello di Dt 32,7. Nel rapportarsi al passato esiste una differenza cruciale tra memoria e storia. La storia riguarda i fatti, quello che è accaduto. La memoria riguarda il rapporto tra il passato e noi stessi; è il passato così come si riflette nella nostra identità. Questa differenza è accennata nelle ultime parole di Mosè. La prima metà del versetto parla di storia: Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno. I giorni del tempo antico e il passare degli anni sono storia, in senso remoto e oggettivo. La seconda metà del versetto invece suggerisce che una comprensione oggettiva della storia non è sufficiente. Mosè ci dice che dobbiamo impegnarci con il passato, porre domande e percepire con esso un legame personale, dobbiamo renderci conto che il passato è un messaggio inviato a noi dai nostri padri e antenati. Qui sta parlando non di storia, ma di memoria. La sfida di prendere il passato e trasformarlo da “storia” in “memoria” permea ogni aspetto dell’ebraismo. Basta anche solo notare l’uso del termine zakar (ricordare) nella Bibbia. Nella Genesi, quando Dio si ricorda, succede qualcosa che dà una svolta al futuro: Dio si ricordò di Noè (Gen 8,1) e lo fece uscire dall’arca sulla terra asciutta; Dio si ricordò di Abramo (Gen 19,29) e salvò suo nipote Lot dalla distruzione della città di Sodoma; Dio si ricordò di Rachele (Gen 30,22) e le diede un figlio. Ogni volta che Dio si ricorda non è per soffermarsi sul passato, ma per agire di slancio e proteggere il futuro.
  • Un secondo testo significativo è quello di Lc 22,19. Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mo corpo, che è dato per voi. Fate questo in memoria di me”. Ripreso anche in 1Cor 11,23-25, si ricollega a quanto detto sopra, con una differenza sostanziale. La memoria non è più (o solo) legata a un evento (quello della Pasqua) ma a una persona (in memoria di me). Per un cristiano, non c’è memoria che in qualche modo non ricolleghi al Maestro di ogni cosa, a Colui che come Via, Verità e Vita avvolge tutto il nostro essere in tutte le sue dimensioni.

La memoria ci mette nella posizione giusta. Non siamo chiamati a riscrivere la partitura, ma a interpretarla traducendola in un modo adatto all’uomo di oggi. I contenuti vivi ci sono già e sono quelli di sempre. Nel nostro caso il cuore della memoria è Cristo come lo ha amato, interpretato, annunciato l’apostolo Paolo.

Ravviva!

L’espressione paolina viene  ripresa lungo la lettera, trovando espressione in altre parafrasi: Non vergognarti del Vangelo; Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza (1,7); Non vergognarti di dare testimonianza (1,8); attingi forza dalla grazia (2,1); Sforzati di presentarti a Dio come una persona degna (2,15); Annuncia la Parola, insisti, ammonisci, rimprovera, esorta… (4,1-5).

Cosa va ravvivato? Il dono di Dio (2Tm 1,7-11). Non si tratta di difendere una qualità naturale, ma il dono divino che Paolo ha trasmesso a Timoteo attraverso il gesto dell’imposizione delle mani. Si tratta quindi di un dono che coinvolge lo Spirito e che mette Timoteo a servizio della comunità. Egli lo può ravvivare guardando alla vita di Paolo, continuamente richiamata nelle sue diverse tappe dall’esortazione precedente (ricorda!). Si tratta quindi di ravvivare un dono che, attualmente esposto alla prova (carcere, vergogna, discussioni, comportamenti fuori luogo…), rischia di rimanere soffocato da percezioni del tipo: “Chi me lo fa fare?”, “A che serve tutto questo?”, “Ma tutti questi sforzi non sono inutili?”. La memoria mette in evidenza che Timoteo, come Paolo, è depositario della vita di Dio. L’invito a “Ravvivare” è ora occasione perché tale vita possa continuare a scorrere con frutto.

Per rendere più efficace la riflessione, Paolo indica a Timoteo tre modelli in cui rispecchiarsi.

  • Il primo modello è quello del soldato: in questo caso l’enfasi è posta su chi motiva il rischio della vita, sul fatto di piacere a colui che ha arruolato il soldato. La sorgente e lo scopo, l’obiettivo sono quelli che permettono di reggere l’esperienza della sofferenza: Soffri anche tu insieme con me (2,3) espressione già manifestata poco prima: Con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo (1,8).
  • Il secondo modello è quello dell’atleta: in questo caso l’enfasi è posta sulla disciplina e sulla lotta da un lato e sul premio dall’altro. Il premio dell’atleta, spiega Paolo non lo riceve chi non rispetta le regole, ma chi lotta facendole proprie. Da qui tutti gli inviti a guardarsi da… sforzarsi di… star lontano da…
  • Il terzo modello è quello del contadino: anche qui l’enfasi è posta sulla durezza del lavoro e sulla raccolta dei frutti, in una stretta associazione dell’uno con gli altri. Il contadino, spiega Paolo, deve essere il primo a riconoscere i frutti del suo duro lavoro.

Queste tre immagini invitano Timoteo a un coinvolgimento pieno nel ministero: come? Mettendo in conto la sofferenza (di cui Paolo è modello) e mettendo in conto la finalità che regge tutto il ministero: i sacrifici, se motivati dal Vangelo, non possono non essere fruttuosi.

Anche in questo caso potremmo citare due testi, uno dell’Antico e uno del Nuovo Testamento, per mettere in evidenza quello che Paolo ha in mente:

  • il primo è quello di 1Re 19,1-8 che vede come protagonista il profeta Elia nel deserto. L’esperienza del profeta è la grande purificazione che lo porta alla conoscenza di Dio: finora ha fatto tutto Elia; quando finalmente sarà spoglio e spento, Dio riuscirà a passare attraverso di lui e ha aprire le porte del presente sul futuro con l’unzione di quanti dovranno portare avanti la storia.
  • il secondo è quello di Ap 2,1-7 rivolto proprio alla comunità di Efeso dove Timoteo sembra risiedere al momento in cui viene scritta la lettera. All’angelo della Chiesa che è a Èfeso scrivi: “Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro. Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza, per cui non puoi sopportare i cattivi. Hai messo alla prova quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi. Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, convèrtiti e compi le opere di prima. Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto. Tuttavia hai questo di buono: tu detesti le opere dei nicolaìti, che anch’io detesto. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio”.
  • L’espressione “l’amore di prima, l’amore di un tempo”, alla lettera è “l’amore sorgivo”. Il soggetto di tale amore è Dio, non l’uomo. Dimenticare l’amore di Dio significa dimentica che è Lui a tenere le sette stelle nella sua mano (gli angeli che custodiscono le Chiese) e a camminare in mezzo ai sette candelabri d’oro (le Chiese stesse) come bene illustra Ap 1,20.

Ravvivare, pertanto, implica il prendere coscienza dell’azione di Dio in noi e attorno a noi e questo non è possibile senza un esercizio di memoria.

Custodisci!

Non basta però “ricordare” e “ravvivare”, occorre poi “custodire” (2Tm 1,12-14). Per spiegare questo verbo possiamo attingere a un gesto che gli ebrei fanno al termine della liturgia familiare di Shabbat quando, prime di spegnere le luci del sabato, aprono e chiudono le mani mentre recitano la benedizione conclusiva. Cosa significa questo gesto? Indica l’importanza di custodire il dono ricevuto. C’è addirittura una lettera dell’alfabeto ebraico che sottolinea tale importanza: è la lettera kaf, una lettera che ha proprio la forma di una mano che si chiude, l’11 lettera dell’alfabeto ebraico, nota anche come la lettera delle corone. Secondo la tradizione rabbinica, chi custodisce il dono di Dio riceve le quattro corone più importanti della vita: la corona della Torà, la corona del Regno, la corona del Sacerdozio e la corono del buon nome, cioè di quel comportamento che rende la nostra presenza luminosa e significativa. Ma tutto parte dal custodire.

Ma chi è il soggetto del verbo che invita alla custodia? Paolo lo spiega molto bene: So in chi ho posto la mia fede e sono convinto che Egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato (2Tm 1,12). E ancora: Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato (2Tm 1,14). L’uomo, da solo, non custodisce un bel niente. Sembrerà un gioco di parole, ma per custodire, occorre lasciarci custodire dal Signore. Consegnarci a lui.

Anche in questo caso può essere utile richiamare due testi della Scrittura, uno dell’Antico e uno del Nuovo Testamento.

  • Il primo è quello del Sal 127: Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori; se il Signore non custodisce la città invano veglia il custode. Quando una casa è costruita, il lavoro non è finito. La casa va tenuta e custodita. Salomone, a cui la tradizione attribuisce questo salmo, non assolve al suo compito costruendo il tempio, deve in qualche modo custodirlo… e il miglior modo per custodire il tempio è quello di custodire se stesso e gli altri, punto su cui il re verrà meno. Tutti siamo chiamati ad essere “custodi e sentinelle” di qualcuno o di qualcosa. La prima responsabilità che l’uomo declina è quella nei confronti del fratello: Adamo nei confronti di Eva, Eva nei confronti di Adamo, Caino nei confronti di Abele (“Sono forse il custode di mio fratello?”)… e quando l’uomo si comporta in questo modo il flusso della vita ne risente. Essere “sentinella” non significa essere “controllore”: la sentinella ha come obiettivo la vita e la libertà dell’altro, in modo che questi possa muoversi liberamente, il controllore tiene invece vincolate a sé le persone e, in genere, ha dei secondi fini, non sempre positivi.
  • Il secondo testo è quello di Gv 15,1-4. Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. In Ez 15,2-5 il profeta riceve una descrizione precisa sul valore della vite: la vite non serve a nulla, se non produce il suo frutto. Il suo legno non serve, i suoi rami non servono, le sue foglie non servono. Essa è pensata come un canale in cui scorre la linfa e che permette di generare grappoli. Tra l’altro, perché la vite sia longeva va potato il ramo giovane, non quello vecchio. L’invito “Rimanete” non va inteso come un imperativo categorico, ma come un ottativo, una supplica che nasce dall’amore. L’amore ha nel suo dna la necessità di espandersi. Il discepolo non è accanto, o dietro, o sopra il Cristo, ma IN lui: in caso contrario sarebbe un disastro.

Cosa va custodito? Il dono di Dio (v.8), il Suo progetto… la Sua grazia… la vocazione santa (v.9), i sani insegnamenti, la fede e l’amore che sono in Cristo Gesù (v.13); il bene prezioso che ti è stato affidato (v.14). Siamo in un contesto molto particolare dove il rischio di Timoteo è quello di preoccuparsi di sé e della riuscita del suo ministero. Paolo gli ricorda che egli è posto a servizio di un dono che non gli appartiene: per tale ragione è importante ricordare, ravvivare e custodire. Non deve pensare a sé ma a quel Vangelo che lui porta.

Quindi… per ravvivare il dono di Dio

  • Occorre la memoria prima e la custodia poi
  • Occorre mettere in conto la logica della croce
  • Occorre tenere presente che il Soggetto è uno solo: Cristo in noi

Questo dà verità ed efficacia alla nostra missione permettendo allo Spirito di portare frutto, un frutto che rimane.

don Giacomo Perego, ssp