SÔMA: corpo (considerazioni bibliche di Gianfranco Ravasi)

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«Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai suoi discepoli, disse: Prendete e mangiate: questo è il mio sôma» (Matteo 26,26). Nella solennità del Corpus Domini che è presente in questa settimana proponiamo proprio quella parola greca che indica il “corpo” e che risuona 142 volte nel Nuovo Testamento. È evidente che nelle parole pronunciate da Gesù in quell’ultima sera della sua vita terrena, sôma è la sua stessa persona che si dona in un abbraccio di comunione col suo fedele attraverso il segno del pane e del vino.

Ora, a differenza della cultura greca classica – che pone una netta divisione e distinzione tra l’anima spirituale e il corpo materiale, simili a due poli che si respingono pur essendo forzosamente costretti a coesistere – la Bibbia considera l’essere umano come un’unità ove carne, vita, spirito, coscienza sono tra loro compatti. Per i semiti, infatti, noi siamo un corpo perché è in esso e con esso che viviamo e comunichiamo, mentre noi occidentali abbiamo un corpo che controlliamo, detestiamo oppure idolatriamo. In questa luce è comprensibile come sia rilevante la corporeità nelle pagine della Bibbia.

Come si diceva, essa in pratica coincide con la persona e non si ferma alla sola carnalità, segno di debolezza, fragilità e miseria, che pure è un aspetto del corpo.

Il Cantico dei cantici non ha nessun imbarazzo nel celebrare la bellezza e l’eros dei corpi dei due innamorati (cc. 4; 5; 7). Così non ci deve stupire se già nell’Antico Testamento e in forma unica e altissima nel Nuovo il destino ultimo della creatura redenta sia la risurrezione dei corpi (Ezechiele 37 e la Pasqua di Cristo e dei cristiani) e non tanto l’immortalità della sola anima. Similmente è significativo che l’attività pubblica di Cristo sia stata dominata, oltre che dalla predicazione, dalla guarigione dei malati.

Il ministero pubblico di Gesù, attraverso i miracoli, si è concentrato per una metà proprio sul corpo umano per riportarlo al suo splendore. Inoltre, come si è detto, attraverso l’Eucaristia, egli offrirà il suo corpo come cibo, creando così una comunione non genericamente spirituale ma personale tra sé e il fedele, essendo – come si diceva – il corpo espressione della persona. Paolo concepirà, poi, nella Prima Lettera ai Corinzi, la Chiesa come corpo del Cristo risorto e ai Corinzi domanderà retoricamente: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?» (6,19; 12,12-30). Certo, nel nostro corpo c’è la stimmata della morte e la ferita del peccato: l’apostolo usa, infatti, le espressioni «corpo di morte» e «corpo di peccato». Ma con l’incarnazione del Figlio di Dio, il nostro corpo mortale e peccatore è sepolto e viene fatto rinascere il «corpo spirituale», cioè animato dallo stesso Spirito di Dio: «Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Filippesi 3,21).

Infatti la meta a cui tendiamo, quella della risurrezione, è segnata già in noi attraverso l’anelito verso una salvezza piena. È quel «gemito interiore», espressione dell’attesa dell’adozione a figli e della «redenzione del nostro corpo» (Romani 8,23).

Anche se è difficile definire come sarà il destino del nostro corpo glorioso nella creazione rinnovata (si leggano le argomentazioni paoline nel capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi), sappiamo che esso ha un destino di gloria. Per questo già fin d’ora dobbiamo consacrare a Dio i nostri corpi perché essi, espressione della nostra persona e della nostra esistenza, sono «il sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, il nostro culto spirituale» (Romani 12,1).