Una fede per vivere: la fede in Dio

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Il termine ‘fede’ è tra quelli abusati, come succede per altri vocaboli come ‘amore, laico, storia’, la cui semantica oscilla tra significati molto diversi e persino contrastanti (si pensi per esempio alla storia d’Italia e alla storia di cappuccetto rosso!). Così si può parlare di fede nel progresso o nelle proprie idee o in se stessi, e di buona fede, per non dire del verbo ‘credere’, che nella parlata corrente può addirittura esprimere una incertezza se non proprio un dubbio.

Qui però parliamo di ‘fede’ in senso religioso, sapendo comunque che già il termine ‘religione’ è equivoco, poiché è un latinismo che non ha nessun corrispettivo esatto nelle lingue bibliche, né in greco né in ebraico. Propriamente quindi parliamo di fede come espressione di un rapporto dell’uomo nei confronti di Dio (del Dio d’Israele) e della sua rivelazione avvenuta soprattutto in Gesù Cristo.

Mi ha colpito il titolo dell’ultimo libro del filosofo Jean-Luc Marion (cattolico, professore di metafisica alla Sorbona, Accademico di Francia), Credere per vedere (Ed. Lindau, Torino 2010). L’inversione dei termini, rispetto al più corrente sintagma ‘vedere per credere’, è un fatto interessante e intrigante, che invita il lettore a rendersi conto che al di là dei fenomeni, del visibile, al di là della parete che ci sta di fronte, c’è tutto un mondo ‘altro’ di cui si deve almeno avvertire la presenza, oltre che la diversità.

In parte l’intento del filosofo è polemico nei confronti delle presunzioni di autosufficienza della scienza odierna, di cui scrive testualmente: «Per una strana inversione, l’atteggiamento autoritario si trova oggi immancabilmente dal lato della “scienza”, oggetto della propria incrollabile fede per i propri devoti… poiché la fede ha le proprie ragioni e la ragione scientifica ha le proprie credenze».

La sua è una riflessione filosofica, non biblica. Ma è su quest’altra prospettiva invece che qui voglio intrattenervi, se non altro perché la fede cristiana non si basa su di una rivelazione naturale, per cui basterebbe contemplare le bellezze della natura o anche le sue tragedie per rendersi conto che qualcuno muove le fila dell’insieme.

Tutta la filosofia antica, sia greca che latina e persino giudaico-ellenistica (cf. poi il Deus sive natura di Spinoza), si muoveva su questa strada; sicché, quando Paolo scrive che «le perfezioni di Dio, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rom 1,20), non dice nulla di nuovo.

Il Dio d’Israele, invece, è distinto dalla natura in quanto la crea e la regge, e quindi la fede in lui fa perno essenzialmente su di un’altra dimensione dell’esperienza umana, che è la storia. La sua non è una rivelazione naturale ma storica, nel senso che egli si fa conoscere, non con le belle aurore e i bei tramonti o con il dramma degli tsunami, ma si muove nient’altro che al passo delle vicende umane.

La percezione e la proclamazione di questo fatto è ciò che caratterizza i profeti. Nella Bibbia la prima volta in assoluto che si parla di fede/credere è a proposito di Abramo, di cui si legge che egli «credette a Dio e ciò gli fu computato a giustizia» (Gen 15,6). Si scopre qui almeno una terna di tratti essenziali e fondamentali del concetto in questione, che cioè valgono per la fede tout court.

(1) Il primo è che la fede (del patriarca) è semplicemente la risposta gratuita a una promessa altrettanto gratuita, con cui Dio in questo caso assicura ad Abramo una discendenza nonostante l’età avanzata di lui e di Sara. A questa promessa si aggiunge quella di una terra, diversa da quella di origine da cui egli è partito senza neanche sapere dove andava (cf. Gen 12,1-3).

Dio fa queste promesse soltanto sulla base della sua grazia e quindi della sua libertà, che è quindi immotivata, non condizionata da nessun merito di Abramo. Per questo si può anche dire che Abramo è oggetto di una insindacabile elezione divina. (2) Il secondo tratto riguarda la ripercussione della fede di Abramo sulla sua propria identità: egli diventa «giusto» (ebr. tsaddîq; cf. Sal 1,6: «Il Signore veglia sulla via dei giusti»), cioè giusto davanti a Dio, in rapporto a lui, in quanto lui lo considera tale.

E questo nell’ottica israelitica equivale a dire che egli sta in una condizione ineccepibile di fronte a Dio, il quale non ha nulla da rimproverargli, e quindi sconfina nella qualifica di ‘santo’ (ebr. chasîd; cf. Sal 64,11: «Il giusto [pio/santo] gioirà nel Signore e riporrà in lui la sua speranza»). (3) In terzo luogo si deve considerare che la fede implica essenzialmente un rapporto interpersonale: essa non è un ripiegamento su di sé, e non riguarda cose o fatti, ma fa uscire l’uomo da sé stesso e lo relaziona ad un Altro (cf. E. Lévinas).

È in questo Altro che Abramo o qualunque uomo trova la base, sia della propria vita sia della propria visione del mondo, e quindi scopre e ottiene il completamento di sé. Ciò è linguisticamente confermato dal verbo ebraico che vuol dire «credere», cioè ’āman (a cui corrispondono il sostantivo «fede», cioè ’emunah, e la forma participiale ’amēn che vale come un responsorio), il quale propriamente esprime l’idea di «essere stabile, solido, fermo, sicuro».

Conseguenza logica inevitabile di questo dato è la fiducia, dove il ‘fidarsi’ è anteriore e persino esonerato dal ‘capire’. Si vede bene, cioè, che la fede è un atto tale che sconfina nell’amore, in quanto appunto ciò che conta in prima battuta non è la ragione ma è e resta la dedizione esistenziale.

Occorre aggiungere che il Dio della fede israelitica si autodefinisce così a Mosè: «Io sono colui che sono» (Es 3,14: da cui il nome quadrilittero yhwh). Ma bisogna stare attenti a non pensare questo ‘essere’ in termini astrattamente ontologici come se coincidesse con l’Essere della metafisica aristotelica (e come è stato spesso inteso nella storia dell’interpretazione, forse senza accorgersi che Aristotele parla dell’essere al neutro, tò ón, letteralmente «ciò che è», mentre la Bibbia greca dei LXX ha il maschile ho ōn, letteralmente «l’Essente»).

Infatti il verbo ebraico ‘essere’ (hāyāh) che sta all’origine etimologica del nome, in questo caso esprime l’idea di una presenza, cioè di un ‘esserci’ vivo e operante, come del resto Dio dice esplicitamente a Mosè: «Io sarò con te» (Es 3,12). È la fede del Salmista quando esclama: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4; ebraico: ’attā’ cimmādî; greco: sy met’emoû eî).

 

Questa tipica concezione di Dio dà origine al noto appellativo «Emmanuele« (ebraico ‘immanû-’ēl, letteralmente «con noi Dio»), che Isaia attribuisce all’Unto/Messia (cf. Is 7,14) e che nel Vangelo secondo Matteo viene applicato a Gesù di Nazaret (cf. Mt 1,23). Lo stesso evangelista in qualche modo tematizza questo epiteto, cristologizzandolo, cioè riferendolo ripetutamente a Gesù stesso (cf. Mt 18,20: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»; 28,20: «Io sono con voi tutti i giorni fino ala fine del tempo»). Cioè: nel Messia Gesù è presente Dio stesso in mezzo al suo popolo.

 

 

Romano Penna