Ecco, io faccio una cosa nuova: non ve ne accorgete? Aprirò una strada nel deserto … (Is 43,19) (Mons. Daniele Libanori)

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Cari Confratelli e amici del Settore Centro,

so di correre il rischio di essere invadente; mi permetto tuttavia di condividere con voi alcune riflessioni sviluppate in questi giorni sotto lo stimolo di quello che tutti stiamo vivendo. Sono pensieri in libertà che vi offro come comunicazione spirituale, nel desiderio di esprimere la mia prossimità a ognuno di voi, che immagino sollecitati quanto e più di me dalla difficile novità del momento.

Il testo di Isaia che ho posto in cima a questa lettera mi sembra la chiave giusta per avviare una … conversazione – virtuale, per ora – tra noi e poi con i nostri fedeli. Penso che sia vitale, benché non facile, parlare tra di noi e alla gente con Parole di Dio perché la nostra voce non si perda in un coro scomposto. Sono persuaso che quello che accade e ad alcuni appare come l’avanzare della rovina, sia invece l’inizio di un nuovo esodo: niente sarà come prima!

In questi giorni sono uscito a più riprese per fare visita ai Sacerdoti che prestano il loro servizio nelle Parrocchie; non ho raggiunto ancora tutti, ma mi riprometto di completare il giro nei prossimi giorni. Il trovare sempre tutti presenti e tanti in preghiera nelle loro chiese deserte mi ha allargato il cuore. Quello che sta accadendo ci porta a ridare più spazio a un aspetto del nostro ministero che è stato sempre presente, ma che oggi forse viviamo con una consapevolezza rinnovata: pregare e intercedere per il popolo che ci è stato affidato. Specie per le condizioni in cui ci troviamo, questo appare come il ministero più prezioso, il primo e fondamentale, dal quale trae forza ogni altro. Le circostanze ci spingono a tornare al posto che ci spetta, preferendo a tutto il resto la preghiera e l’annuncio della Buona Notizia (cf At 6,4). La gente ha piacere di trovarci nel luogo che più naturalmente associa al nostro ministero, disponibili e pronti. Vale soprattutto per coloro che sentono il bisogno di gettare in Dio ogni loro preoccupazione (cf 1Pt 5,7). Ben inteso, non penso certo che dobbiamo abbandonare le altre forme di servizio che il Signore ci suggerisce attraverso le occasioni quotidiane; ma trovare il Prete in chiesa a pregare e intercedere certamente restituisce a tutti la consapevolezza del suo ministero più specifico, al quale tutti sono sempre invitati a unirsi, ma che egli non può delegare.

Ci sono domande …

In questi giorni tra minori impegni routinari e nuove sfide che assorbono in modo diverso, la riflessione non può non trovare nuovi e necessari spazi… Da parte mia mi sto interrogando da tempo sulle domande suscitate da quello che stiamo vivendo e che ha coinvolto il Paese e la Chiesa, spazzando d’un colpo programmi articolati e mettendoci dinanzi a quesiti che non eravamo più abituati ad affrontare. Noi siamo soliti porre a Dio delle domande con la (non tanto) segreta pretesa che egli risponda puntualmente e in modo chiaro. Oggi è lui che, attraverso la cronaca, ci interroga in modo esigente e anzi drammatico. Sono domande, quelle di Dio, che ci raggiungono in modo diretto e violento attraverso la percezione del pericolo incombente e la paura che sottilmente si insinua e ci agita. È la paura di ammalarci e non trovare soccorso, di essere sequestrati in un reparto di rianimazione … è la paura di morire.

Abbiamo bandito dalla nostra cultura il dolore e la morte

C’è molta gente con qualche congiunto in ospedale o in quarantena in casa … già tanti hanno dovuto affrontare il lutto per una persona cara. Tutti noi, cresciuti in una cultura che ha bandito il dolore e la morte, oggi ci troviamo confrontati all’improvviso con la fragilità e l’impotenza dinanzi al dramma che ognuno dovrà interpretare da protagonista. L’impossibilità di trovare un rifugio sicuro da un nemico invisibile, l’ansia, la paura, sono i modi in cui prende forma il dolore che scuote l’anima e la mente, per mutarsi in rabbia o in disperata immobile rassegnazione, se non riesce a fluire nell’alveo della carità. Il Signore senza tanti riguardi ci ha riportati davanti alla morte, l’evento altissimo e insostenibile che solamente la prospettiva della Pasqua consente di affrontare. La paura della morte è all’origine del male che avvelena la vita; è la forza malvagia che porta l’uomo ad accettare la limitazione della libertà e perfino la sua rinuncia. La fede in una vita che continua oltre la soglia fatale è il fondamento della speranza, del coraggio, del perdono; la vita che sarà data e sarà piena è la meta da raggiungere, il tesoro prezioso per il quale si trova la capacità di sopportare tutto: la fede nella risurrezione è la forza creatrice che dà vita a una società nuova e più giusta. È per questa fede che Paolo può ripetere le parole di sfida usate già dai Profeti: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,54-55).

Di fatto, è la presenza incombente della morte che sollecita la ricerca di una salvezza. Dunque il Signore sta mettendo a fuoco un argomento che avevamo trascurato. Perché oggi parlare di risurrezione e di vita eterna può creare imbarazzo. Eppure bisogna tornare a parlarne senza timori, anche se vi sarà, come ad Atene, chi riguardo a questo se ne andrà scuotendo il capo (cf At 17,4).

La folle sapienza

Non mi pare che questo sia il tempo delle pur utili esortazioni sull’eco del “vogliamoci bene”. La vera carità, che è dovuta a tutti e specialmente a chi maggiormente avverte la gravità della situazione, non ha niente a che fare con stucchevoli sorrisi, carezze affettate, pacche sulle spalle e minestre calde. Il mondo si aspetta dalla Chiesa ben altro che il pronto soccorso dell’elemosina: si aspetta delle ragioni che aiutino ad accettare e vivere con maturità quello che sta succedendo, ha urgente necessità di motivi seri per sperare, ha bisogno di qualcuno capace di aprirgli orizzonti diversi e veri, perché il telone di fondo sul quale per anni sono stati proiettati i deliri di grandezza di questa nostra età è stato improvvisamente strappato e ha svelato un buio angosciante. È tempo che la Chiesa smetta di alimentare quei sentimentalismi dolciastri che rendono insopportabile tanta nostra predicazione per dire finalmente al mondo cose serie. La Chiesa deve ripetere instancabilmente a chi oggi, frastornato da quello che accade, cerca «la» buona ragione per vivere e per morire che la può trovare nella morte e la risurrezione di Gesù. E deve aggiungere che se quest’anno non potremo celebrare la Pasqua nella liturgia, non di meno è il Signore stesso che la sta celebrando nella grande liturgia della storia che ci chiede di vivere con lui in questi giorni difficili.

Nell’Antico Testamento la storia veniva interpretata sulla base della dottrina della retribuzione. Gli eventi naturali, le catastrofi e le guerre, come ogni altro avvenimento avverso, venivano attribuiti alla volontà punitrice di Dio e il popolo, così come i singoli, doveva ricercare nella vita propria e della propria famiglia la ragione della sventura. Questa chiave interpretativa consentiva di dare un ordine alle cose, di riconoscere precise responsabilità, accettando umilmente il castigo purificatore e finalmente invertire il cammino tornando al Signore. In questa prospettiva le prove dell’Esodo, le sconfitte, la distruzione di Gerusalemme e la perdita della terra potevano essere comprese come manifestazione della giustizia e della misericordia di Dio. Questo modo di argomentare – peraltro così istintivo – contrasta con l’immagine di un Dio che noi sappiamo concepire misericordioso solamente nella sua infinita pazienza e raramente nelle prove che con le quali veniamo purificati.

Distrutto il tempio e nell’impossibilità di immolare sacrifici, il Popolo di Dio riscopre la Parola e ricomincia a leggerla, a studiarla … ad ascoltarla e a udire in essa il sussurro di un Dio amante: «Ascolta, Israele …». Lo Sposo, dopo i giorni dell’ira, mostra di nuovo il suo volto alla sposa riconquistata, la porta nel deserto per parlare al suo cuore (cf Os 2) e la consola.

Quando, secondo i libri dei Maccabei, Antioco Epifane mette a morte coloro che rifiutavano di immolare agli idoli, Israele si trova dinanzi a un problema drammatico e si domanda: se Dio non protegge la sua vita, il giusto che cosa può fare? (cf Sal 10,3). Hanno forse ragione gli empi che lo irridono dicendo: dov’è il tuo Dio? (cf Sal 41,4). È allora che la Sapienza di Israele scopre e sviluppa la dottrina della sopravvivenza dell’anima, ossia di una vita che continua oltre il tempo. Dio infatti non può permettere che perisca chi è rimasto fedele alla sua alleanza. La fedeltà del Signore spesso sfugge all’occhio dell’uomo, ma “appare” allo sguardo della fede. Nel tempo di Dio al giusto viene fatta giustizia e all’empio viene svelato l’orrore della sua colpa. La vita che il Padre ha dato alle sue creature è per sempre. Allora la morte può rattristare, ma non ha il potere far disperare chi confida in lui.

La Bibbia si interroga sul dolore innocente: il libro di Giobbe è una riflessione sul mistero del male che colpisce il giusto. In quel dramma, la risposta tradizionale sostenuta dagli amici che vorrebbero consolarlo portandolo a riconoscere una colpa inesistente, non regge. Vi è un momento in cui a Giobbe che insiste nel protestare la sua innocenza, Dio, silente e lontano, appare come nemico: infatti non lo ha difeso dalla sventura, né lo ha sostenuto davanti alle accuse degli amici. Solo alla fine il Signore comparirà sulla scena e prenderà la parola. Non risponderà alle domande di Giobbe, ma lo porrà dinanzi al Mistero della Sapienza creatrice. Giunto al fondo della sventura, condannato anche da coloro che erano andati per consolarlo e finiscono invece per giudicarlo tracotante, vedendolo risoluto nel protestare la sua innocenza, Giobbe è finalmente solo davanti a Dio. La scena è come sospesa in un silenzio insondabile: un piccolo essere di polvere e cenere sta dinanzi alla maestà terribile e affascinante del Signore. La considerazione finale di Giobbe è sorprendente: «Ti conoscevo per sentito dire. Ora i miei occhi ti vedono» (Gb 42,5). Dio non gli ha rivelato il mistero del male, ma Giobbe attraverso tutto quello che ha sopportato è giunto al fondo della sua miseria, alla verità profonda della sua condizione di creatura, il punto – l’unico – dal quale un uomo può fissare lo sguardo sul Mistero ineffabile del Padre e ritrovarsi perdendosi in lui. Nel dramma che ha sconvolto ogni cosa e ha travolto gli affetti più cari, Dio si è manifestato a Giobbe come colui che, nonostante ciò che appare, tiene saldamente nelle sue mani la vita del suo servo. Sarà quello che contempleremo nel triduo pasquale. Oggi più che mai dobbiamo sapere proporre la Sapientia crucis a chi è scandalizzato dal dolore e dalla morte. Offrire al mondo questa Sapienza è misericordia che solleva dalla polvere e disseta l’arsura dell’anima: Dio abita il deserto.

Il Signore ci chiede di imparare a pensare in modo nuovo

Ci troviamo dinanzi a una situazione per noi nuova e inattesa che costringe a maturare e strutturare un diverso modo di pensare, ad assumere atteggiamenti nuovi, a cercare nuove vie per servire il popolo di Dio. Il Signore parla nella storia e ci chiede di accogliere con fiducia la sua volontà, la quale si manifesta anzitutto nell’evidenza dei fatti. Ma passa anche attraverso la legge positiva emanata dalla legittima Autorità. Gesù ha obbedito al progetto del Padre sottomettendosi concretamente alla legittima Autorità del suo popolo e a quella abusiva dell’Impero. Oggi più che mai professiamo che Dio non rinuncia al suo disegno di restaurare in Cristo tutte le cose e lo fa attraverso una rigenerazione che passa sempre per il mistero della Pasqua. Per questo Paolo scrivendo ai Corinzi va dritto al segno: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2Cor 1,2). È tempo che facciamo nostre quelle parole: sommessamente, perché sono pesanti, ma senza fare sconti.

Vestire la debolezza di Cristo

Siamo stati portati dallo Spirito a vestire la debolezza di Cristo, perché possa apparire con chiarezza che quello che vi è di buono viene da lui. Deve fare riflettere il fatto che le circostanze abbiano “ridotto” – si fa per dire – noi preti a un temporaneo silenzio: noi tutti popolo di Dio – pastori e fedeli – oggi siamo invitati a porgere orecchio al Signore, che vuole parlarci al cuore facendoci passare attraverso un’esperienza che attende di essere illuminata dalla sua Parola. È questo che la gente ha diritto di attendersi da noi. È qui che potremo e dovremo recuperare appieno il nostro compito di umili ripetitori dell’unico Maestro: aiutando i piccoli ad “accendere” la luce delle Scritture per cogliere quello che il Signore sta dicendo alle Chiese e, per quanto ci riguarda, alla Chiesa pellegrina a Babilonia (il nome con il quale l’Apocalisse indica la città di Roma, cf Ap 17,5).

L’esperienza che condividiamo con il popolo che ci è stato affidato riporta alle radici della vita e del Vangelo: così come non ci siamo dati la vita da noi stessi, allo stesso modo non possiamo darci la salvezza. Dalla fine della seconda guerra mondiale questa è forse la prima volta che la Nazione intera avverte di essere sottoposta a una minaccia che potrebbe essere fatale; inoltre il nostro Paese già guarda con preoccupazione le conseguenze sul piano economico. Certamente dovranno cambiare tante cose, a partire dal modo di pensare la vita e le relazioni. Lo stupore per la vita e la salute preservata, pur non avendo alcun merito rispetto a chi sarà stato vittima del virus, dovrebbe spingere a una vera conversione. S. Ignazio, al termine dell’itinerario della Prima settimana, invita l’esercitante finalmente consapevole della benevolenza di Dio, a porsi dinanzi al Crocifisso e a domandarsi: che cosa posso fare per te, che hai fatto tanto per me? (cf ES 53). Bisogna aiutare ognuno a vivere intensamente questa esperienza di pericolo e di salvezza: essere salvati è un dono.

Per stimolare una riflessione: Il fallimento dell’impresa

«Gli uomini si dissero l’un l’altro: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (Gen 11,4).

Secondo il racconto biblico, gli uomini sono rappresentati in modo molto somiglianti agli ebrei quando erano schiavi dell’Egitto. Qui fabbricano mattoni per costruire la torre, non vi sono stati obbligati, come i figli di Abramo, ma lo decidono da soli. Il progetto per il quale lavorano riguarda la costruzione di una torre «per farsi un nome», cioè per darsi la stabilità propria di un sistema bene articolato ed efficiente. Quegli uomini parlano la stessa lingua e sono concordi in un progetto: si intuisce che non si tratta di un popolo, quanto di una massa: è venuta meno la diversità a favore nell’uniformità. L’unità per sentirsi e sicuri è ricercata dell’omologazione, non nella comunione. Con il crollo della torre gli uomini sono riportati al limite strutturale della condizione umana, ma anche alle originalità soggettive. Perdendo l’unità ottenuta a prezzo della sottomissione a un’unica cultura (lingua, progetto), possono recuperare la loro differenze e ricchezze e lo spazio della libertà. Gli uomini potranno ritrovare la sicurezza non nella sottomissione, ma nell’alleanza tra di loro.

Per la civiltà occidentale il progresso scientifico ha avuto e continuerà ad avere un ruolo di prim’ordine. In esso ha posto la massima fiducia, facendo delle certezze raggiunte con la ricerca quasi altrettanti dogmi ai quali affidare la propria sorte. Chi respira questa cultura non pensa che non sarà mai in nostro potere aggiungere un giorno solo alla nostra vita (cf Mt 6,27).

Perciò in momenti come quello che stiamo vivendo si evidenziano le crepe della torre che orgogliosamente si leva fino a toccare il cielo. I sistemi politici ed economici che regolano la vita delle Nazioni e che parevano garanti sicuri del benessere conquistato sono già scossi duramente e devono ammettere la loro fatica (o incapacità?) di resistere. Vediamo che anche la cultura dei diritti – reali o presunti – cede senza discutere in cambio di sicurezze che oggi appaiono più urgenti. Un virus invisibile, nato chissà dove, ha superato tutte le difese e dilaga sconvolgendo ogni cosa; avanza in silenzio colpendo l’anima della comunità: semina sospetto e i fratelli si guardano con dolore, temendo che la minaccia potenzialmente letale venga dal proprio sangue; gli amici sono divisi dalla paura che nelle relazioni più care si nasconda un morso velenoso. Il virus ha colpito i rapporti tra le persone.

Sta avvenendo – ce ne accorgeremo quando l’emergenza sarà finita – una massiccia opera di demolizione delle certezze fin qui accumulate; stiamo assistendo alla preparazione di un nuovo inizio in cui molto sarà rimesso in discussione. Appare la vanità del “nome” che l’uomo voleva farsi costruendo la torre. Il nome infatti è dono di Dio (cf Ap 2,17; Is 65,15), e sarà quello con il quale chiamerà per la vita eterna gli amici del Figlio. Così la città: lui edificherà la città dalle salde fondamenta per il popolo fedele (cf Ebr 11,10; Ap 21); non vi sarà né torre, né tempio perché l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio (cf Ap 21,22).

Per poterci intendere bisognerà allora trovare un linguaggio comune, anzi un nuovo linguaggio che consenta di comunicare nella verità e dire senza infingimenti quello che si vive veramente e tornare a capirsi come persone che condividono la stessa storia. La Chiesa questo linguaggio lo conosce bene, perché le è stato insegnato dallo Spirito: anzi, è lo Spirito stesso infuso nei cuori, la carità «che è paziente e benigna, non è invidiosa e non si vanta, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità …» (cf 1Cor 13,4-6). Questa è la lingua che ognuno è invitato a balbettare da subito, in attesa che risuoni nel canto di un popolo.

Nella prova si svelano i pensieri dei cuori

Il vivere – è l’esperienza di tante famiglie – in luoghi stretti, concepiti per dormire più che per viverci, mette a nudo i sentimenti dei cuori mostrando, tra l’altro, se la famiglia è solamente una società di mutuo soccorso o se è invece un luogo unico in cui ciascuno può sentirsi accolto e amato per quello che è. Se ci si vuole bene veramente si può vivere anche allo stretto, benché con (tanta) fatica. Ma se l’amore non c’è, lo spazio condiviso può essere una prigione insopportabile.

Allora le circostanze che ci sono imposte sono veramente un appello esigente e non procrastinabile a una conversione radicale: ognuno, se vuole vivere sereno, deve decidere di mettere da parte sé stesso e di farsi prossimo, fratello, compagno nella medesima sorte e, finalmente, amico, perché sono le fatiche vissute insieme che fanno nascere e alimentano le amicizie: ne sanno qualcosa gli sposi. Si scopre che i buoni sentimenti non vengono sempre spontanei e non durano a lungo con la medesima intensità, ma hanno bisogno di essere alimentati di continuo/, altrimenti muoiono. La casa in questi giorni propone a ognuno un’esperienza di vita che forse potrà essere difficile; per tutti sarà una novità stare tanto tempo insieme: sarà di sicuro una formidabile scuola di umanità. Si vedrà con quali risultati.

La prova purifica la fede

Il ripetersi che tutto andrà bene – come si fa con i bambini spaventati – è divenuto un rito per esorcizzare il timore che invece possa andare tutto male!… un timore che, alla fine denuncia una sfiducia radicale che colpisce anche Dio. Ma quel Dio che, a nostro parere, dovrebbe fare esattamente quello che ci aspetterebbe da lui, ossia sconfiggere il male in un baleno, non esiste: è una figura costruita dai nostri bisogni e somiglia tanto al papà che rassicura il bambino spaventato strillando contro il buio. La realtà ci sta mettendo davanti al Dio vero, che ascolta il grido di Israele e fa udire la sua voce a Mosè; spinge il popolo a mettersi in cammino e apre il mare al suo passaggio. Ma in fondo questo Dio non piace, perché costringe chi vuole conoscerlo davvero ad andare nel deserto, dove non c’è il cibo dell’Egitto e l’acqua è scarsa. Dove affrontando la prova diventerà adulto.

«Come mai siede solitaria la città che era gremita di popolo?» (Lam 1,1)

«Come mai siede solitaria la città che era gremita di popolo?» (Lam 1,1). Queste parole delle Lamentazioni mi venivano in mente dinanzi alle immagini del nostro Vescovo Francesco su via del Corso, nel pomeriggio di domenica 15 marzo. In questi giorni il Centro di Roma appare nello splendore delle luci della primavera, ma desolato e spettrale.

Molti lamentano che tra le restrizioni imposte dalla situazione presente vi sia anche la chiusura delle Chiese. Da una parte c’è chi argomenta la decisione con le esigenze della salute pubblica. Dall’altra chi rivendica il libero esercizio del culto. E non manca chi dice che, anche se in chiesa non va nessuno perché a tutti è chiesto di limitare drasticamente i movimenti, la chiesa aperta è un segno di speranza. Tutte ragioni degne di rispetto. Occorre però riflettere senza spinte emotive e riconoscere che la situazione che le Autorità sono chiamate a governare è di una complessità mai vista, della quale noi possiamo cogliere solamente alcune evidenze. Così come bisogna riconoscere che se lo Stato non impone la chiusura dei luoghi di culto e delle attività pastorali, si aspetta però dai Pastori quel senso di responsabilità che ognuno deve avere verso i propri fedeli. (Qui per Pastori intendo principalmente e specificamente i Vescovi, che devono rispondere per primi davanti a Dio del popolo loro affidato e ai quali noi sacerdoti dobbiamo prestare fiducia sincera).

Bisogna riconoscere che non spetta alla Chiesa, ma allo Stato legiferare in ordine alla salute pubblica. Dinanzi a un problema della cui gravità non tutti sono ancora pienamente persuasi, è questo e questo soltanto il piano sul quale si devono assumere decisioni circa l’accesso ai luoghi di culto, senza richiamare principi che hanno tanto di ideologico. In un tempo di emergenza come quello presente la fede e la devozione devono trovare vie nuove. La chiesa aperta potrà anche essere un segno di conforto, ma, se di “segno” si tratta, basta che sia aperta la Cattedrale, che è la Chiesa madre della Comunità diocesana. Infine, come non ricordare ciò che suggerisce il Vangelo della terza domenica di Quaresima (anno A): «è venuto il tempo, ed è questo, nel quale né su questo monte né in Gerusalemme si darà gloria a Dio, ma in spirito e verità» (Gv 4,21).

Le chiese sono importanti, ma alla fine sono soltanto degli strumenti che speriamo di poter presto rivedere animate dalle comunità in festa. La Chiesa vera, quella fatta di uomini, ringraziando Dio, può vivere anche senza chiese, come è accaduto per i primi secoli e come ancora accade in molte parti del mondo.

Qui è necessario porci onestamente e con molto rispetto una questione di non poca importanza per noi pastori: se cioè la protesta, anche vibrata, contro la chiusura delle Chiese sia animata dalla fede o non piuttosto da una religiosità da purificare.

Il digiuno eucaristico

Attenzione a non lasciarsi catturare dal falso zelo. Questo tempo ci impone un digiuno eucaristico che per noi costituisce una novità, mentre è purtroppo una triste necessità in tante regioni del mondo in cui mancano i sacerdoti o non vi sono le condizioni per celebrare la Messa. Stiamo assistendo a una “domanda di Eucaristia” che può esserci di conforto (la CEI ha opportunamente emanato a questo proposito utili indicazioni). Quasi sempre la richiesta esprime un desiderio che è frutto di una vita spirituale intensa. Ma l’atteggiamento di alcuni, senz’altro in buona fede, ci fa comprendere che vi sono degli aspetti importanti da mettere a fuoco. Nella richiesta troppo insistente dell’Eucaristia non di rado c’è una fede sincera … ma non matura. Si dimentica che la salvezza viene dalla fede e non dalle opere, benché sante, sicché ci si affida alle buone pratiche senza confidare in Dio, al punto da stimare i suoi doni più di Dio stesso. Come bambini si afferra avidamente il dono senza ascoltare le parole amorose di chi lo porge. Si è concentrati più sul proprio grido che sul volto di Colui che si china per ascoltarlo. Questo ci dice che c’è un grosso lavoro da fare per aiutare i fedeli a cogliere il senso e la profondità del Mistero eucaristico e si possono sperare grandi frutti da una catechesi ben fatta. Intanto però occorre ricordare a tutti che il Signore è realmente presente con il suo Spirito tra coloro che sono riuniti nel suo Nome; è presente nella Parola e continua realmente a “nutrire” chi la legge e la medita; il Signore vivo si fa prossimo nel povero e nei bisognosi. Il Signore è nel desiderio stesso dei sacramenti. Ma soprattutto ha la sua dimora in colui che osserva i suoi comandamenti e condivide i suoi sentimenti, senza i quali neppure la comunione frequente può portare frutti di vita eterna.

Per noi preti: Siamo stati configurati a Cristo sacerdote

Quanto a noi preti, le parole «Fate questo in memoria di me» ci impegnano a titolo tutto particolare. Grazie all’imposizione delle mani che ci ha configurato a Cristo sacerdote, è nella nostra stessa persona che si manifesta Cristo pastore, che conosce le pecore a una a una e se ne prende cura. In questo senso siamo costituti epifania e vero sacramento della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Perciò mentre celebriamo il Memoriale impegniamo anche noi stessi e ogni nostra risorsa. La nostra presenza diventa portatrice della sua grazia, la nostra preghiera si unisce alla preghiera di Cristo sacerdote affinché il Padre, ricordandosi dell’amore del suo Figlio, sia misericordioso verso il suo popolo. Probabilmente oggi il nostro modo di stare in mezzo alla gente dovrebbe manifestare l’amore sereno, forte e paziente del Signore; un amore che alimenta la fiducia. Qui mi viene in mente una preghiera che ci fu insegnata durante gli Esercizi: «Prendi, Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, il mio intelletto e tutta la mia volontà; quello che ho e possiedo: tutto è tuo! Di tutto disponi a tuo pieno piacimento. Dammi il tuo amore e la tua grazia e questo mi basta».

Una chiave per capire: “Condannati” alla stessa pena

C’è un testo del Vangelo di Luca che può aiutarci a comprendere il senso della condizione umana e dei limiti che essa impone e della morte stessa. Nel suo racconto l’Evangelista narra di Gesù in croce con a fianco i due malfattori crocifissi con lui e di come uno di essi, disperato, rinfacci a Gesù la sua inerzia dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». Gesù tace, ma è l’altro compagno di sventura che interviene, con un’espressione che ognuno può fare sua: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male”. E disse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”» (Lc 23, 39-42). Davanti al mistero del dolore e della morte servono a poco le ragioni suggerite dall’intelligenza. E non consola granché pensare che ognuno ha un poco di responsabilità nella propria sorte. Conforta invece rendersi conto che quello che si sta vivendo, qualunque cosa sia, è condiviso da Gesù il quale «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Ogni volta che la storia ci fa sentire più acuto il mistero del nostro limite dovremmo essere aiutati a capire che, quale che ne sia la ragione, siamo portati più vicini al cuore del Mistero di Dio. Egli, mandando il Figlio ad assumere la condizione umana e vivendola senza sconti, ha manifestato la sua prossimità amorosa per la creatura. In quest’ottica anche il dolore e la morte sono grazia, perché alla luce della Parola di Dio non solamente comprendiamo di non essere stati lasciati soli, ma anzi siamo stati chiamati a entrare con la nostra carne nel mistero che sfigurando trasfigura.

Beato chi ha ricevuto dallo Spirito la capacità di accogliere e di vivere in pace questa comunione di vita e di sorte con il Figlio di Dio, costui nel mezzo del tumulto del mondo sentirà nel suo cuore la risposta alla sua preghiera: «Oggi sarai con me…» (Lc 23,43). Chi accetta di vivere l’avventura umana nella fede del Figlio di Dio sarà sempre con lui: chi muore con lui, con lui vive. Questa è la vita nuova. Questo è ciò che abbiamo da dire agli uomini, cioè alla gente che siamo stati inviati a servire. Quest’anno dovremo inventarci qualcosa di diverso dal solito per fare risuonare l’annuncio della Pasqua. Che forse troverà finalmente orecchi attenti.

Qui non posso non ricordare l’Anima Christi, una preghiera tanto cara a S. Ignazio: «Anima di Cristo, santificami. / Corpo di Cristo, salvami. /Sangue di Cristo, inebriami. /Acqua del costato di Cristo, lavami. /Passione di Cristo, confortami. /O buon Gesù, ascoltami. /Dentro le tue piaghe, nascondimi. /Non permettere che io mi separi da Te. /Dal nemico maligno, difendimi. /Nell’ora della mia morte, chiamami. /Fa’ che io venga a Te per lodarTi /con tutti i santi nei secoli dei secoli. /

Amen.».

Ho trattenuto lungo chi è riuscito ad arrivare fin qui… ma che volete?, gli stimoli alla riflessione sono tanti. Abbiate pazienza con me.

Il Signore ci sostenga. Nostra Madre interceda per il nostro Vescovo Francesco, per il Presbiterio di Roma e per noi, perché quando apriamo la bocca ci sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, del quale siamo ambasciatori, e possiamo annunziarlo con franchezza come è nostro dovere (cf Ef 6,19-20).

 

+ Daniele Libanori sj