Di quale unità si deve essere testimoni? E come offrire al mondo una comunione credibile che non sia, genericamente, fraternità? Sono stati questi i quesiti al centro della seconda meditazione d’Avvento di padre Roberto Pasolini, predicatore della Casa Pontificia. Il frate minore cappuccino l’ha proposta a Leone XIV e ai suoi collaboratori della Curia romana questa mattina, venerdì 12 dicembre, in Aula Paolo VI.
«Attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio». è l’argomento delle riflessioni e dopo la prima meditazione dedicata a «La Parusia del Signore», oggi padre Pasolini si è soffermato su tre immagini: la torre di Babele, la Pentecoste e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme.
La prima rappresentazione — quella di una torre altissima — è l’emblema di una famiglia umana che, dopo il diluvio, cerca di esorcizzare «la paura della dispersione». Ma tale progetto nasconde «una logica mortale», poiché l’unità è cercata «non attraverso la composizione delle differenze, bensì mediante l’uniformità».
«È il sogno di un mondo dove nessuno è diverso, nessuno rischia, tutto è prevedibile» ha osservato Pasolini, tanto che per costruire la torre non si usano pietre irregolari, ma mattoni tutti identici tra loro. Il risultato è, sì, l’unanimità, ma apparente e illusoria, perché «ottenuta al prezzo dell’eliminazione delle voci individuali». Di qui, il ragionamento del predicatore è andato ai totalitarismi del Novecento che hanno imposto «il pensiero unico», mettendo a tacere e perseguitando il dissenso. Ma «ogni volta che l’unità si costruisce sopprimendo le differenze — ha evidenziato — il risultato non è la comunione, ma la morte».
Anche oggi, «nell’era dei social media e dell’intelligenza artificiale», i rischi dell’omologazione non mancano, anzi: si presentano con forme nuove, in cui gli algoritmi creano «bolle informative» univoche e piattaforme che puntano al consenso rapido, penalizzando «il dissenso riflessivo». Si tratta di una tentazione che «non risparmia nemmeno la Chiesa», ha spiegato, ricordando le tante volte in cui, nel corso della storia, l’unità della fede è stata confusa con l’uniformità, a discapito del «ritmo lento della comunione che non teme il confronto e non cancella le sfumature». Un mondo costruito sull’utopia di copie identiche tra loro, ha proseguito il cappuccino, «è l’antitesi della creazione», perché «Dio crea separando, distinguendo, differenziando» la luce dalle tenebre, le acque dalla terra, il giorno dalla notte. In tal senso, «la differenza è la grammatica stessa dell’esistenza» e rifiutarla significa invertire «lo slancio creatore» in una falsa sicurezza che in realtà è «rifiuto della libertà».
La confusione di lingue con cui Dio replica alla torre di Babele, allora, non è una punizione, bensì «una cura», ha evidenziato ancora il predicatore della Casa Pontificia: il Signore «restituisce dignità alle singolarità», donando nuovamente all’umanità «il bene più prezioso», ovvero «la possibilità di non essere tutti uguali», perché «non esiste comunione senza differenza».
La seconda immagine, quella della Pentecoste, è speculare alla prima, in quanto rappresenta la comunione pur in assenza di uniformità. Gli apostoli parlano la loro lingua e gli ascoltatori comprendono la propria, perché «la diversità rimane, ma non divide» e le differenze non vengono eliminate per creare l’unità, ma trasformate «nel tessuto di una comunione più ampia».
Quindi, padre Pasolini ha illustrato la terza immagine, il tempio di Gerusalemme più volte distrutto e ricostruito. Ogni riedificazione, ha spiegato, «non può mai essere un cammino lineare», perché a comporla saranno «entusiasmi e lacrime, slanci nuovi e rimpianti profondi». Tutto questo è «un compendio prezioso» per comprendere «la perenne necessità» di rinnovamento della Chiesa, ben incarnata da san Francesco d’Assisi. La Chiesa, infatti, è chiamata a lasciarsi ricostruire continuamente per far trasparire «la bellezza del Vangelo».
Lungi dall’essere «un’esigenza straordinaria» — ha sottolineato —, il rinnovamento ecclesiale è «l’atteggiamento ordinario» della Chiesa fedele al mandato apostolico e, soprattutto, non è uniformità, né «un’opera pacifica». La Chiesa che si rinnova è quella in grado di «accogliere la varietà» e capace di «un combattimento spirituale autentico», privo delle «scorciatoie del puro conservatorismo e dell’innovazione acritica». Perché la comunione non è mai «un sentimento omogeneo», bensì un luogo di «ascolto reciproco». Solo così, infatti, essa «torna ad essere davvero casa di tutti».
Un’ultima riflessione il predicatore l’ha dedicata al Concilio Vaticano II: a sessant’anni dall’assise definita «primavera della Spirito», oggi emerge sia «un declino delle pratiche, dei numeri e delle strutture storiche della vita cristiana»; sia un nuovo fermento dello Spirito evidenziato dalla «centralità della Parola di Dio», da un laicato «più libero e missionario»; da «un cammino sinodale» divenuto «forma necessaria» e da un cristianesimo che «fiorisce in molte regioni del mondo». Il declino — ha spiegato — diventa decadenza se la Chiesa smarrisce «la consapevolezza della propria natura sacramentale e si percepisce come un’organizzazione sociale», riducendo la fede a etica, la liturgia a prestazione e la vita cristiana a moralismo. Invece, al di là di posizioni ideologiche come il tradizionalismo e il progressismo, il declino può diventare «un tempo di grazia» nel momento in cui la Chiesa ritorna «al cuore del Vangelo», allontanandosi da «strategie» umane, da «soluzioni immediate e facili» e da «contrapposizioni che dividono e rendono sterile ogni dialogo».
In fondo, ha rimarcato padre Pasolini, la Chiesa non è qualcosa da edificare secondo i criteri umani, ma è «un dono da ricevere, custodire e servire» con gesti umili, giorno dopo giorno, ciascuno con un proprio frammento di fedeltà e carità. Il predicatore della Casa Pontificia ha infine concluso la sua riflessione con la preghiera al Signore affinché «il popoli dei credenti progredisca sempre nell’edificazione della Gerusalemme del cielo».