Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive (Dignitatis Humanae n. 1).
Un bel seminario, Workshop, organizzato dai sociologi della religione dell’Università di Padova, ha permesso un dialogo serrato tra storici, giuristi, teologi e sociologi. L’anniversario della Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae [=DH] (1965-2025) ha mostrato in modo limpido il duplice effetto di quel testo.
Da un lato, la questione del rapporto “tra religioni” e stati; dall’altro, la forza del principio di libertà di coscienza all’interno della Chiesa cattolica. Forse l’esame più intenso, in questi 60 anni, è stato dedicato all’impatto istituzionale del principio di libertà. Credo sia utile considerare, però, anche l’effetto interno, ossia le conseguenze che la libertà di coscienza introduce nel modo di pensare la dottrina e nel modo di esercitare il servizio teologico.
Potremmo dire che l’affermazione di una libertà costitutiva del rapporto di uomini e donne con il mondo e con Dio implica un cambiamento profondo, non solo nel modo di considerare la dottrina cristiana, ma anche nel modo di intendere la mediazione pastorale e teologica.
Potremmo dire, perciò, che Dignitatis Humanae è il documento conciliare che permette il passaggio della Chiesa cattolica dalla società dell’onore alla società della dignità. Quali sono le conseguenze per la dottrina e per l’esercizio della teologia e per la gestione delle istituzioni? Proviamo a chiarirlo in tre piccoli passi.
La trasformazione dell’oggetto: la libertà costitutiva della risposta alla rivelazione
La trasformazione del soggetto: il fedele e il teologo in relazione alla storia della salvezza
Gli sviluppi “sfasati” in ambito ecclesiale nel post-concilio
Questi tre punti sono tre conseguenze che raccogliamo dalla celebrazione del 60° anniversario del Vaticano II, se non vogliame renderlo una commemorazione vuota. Provo a fissare brevemente i tre aspetti dell’impatto forte di questa dichiarazione.
La libertà di coscienza come contenuto della dottrina
L’aspetto meno studiato di DH è la ricaduta sul modo di intendere la teologia, almeno nella misura in cui essa intercetta le azioni, i pensieri e le intenzioni degli uomini e delle donne. Il modo di intendere la recezione del simbolo di fede, sul piano dell’antropologia, della morale, del diritto, delle forme sociali e culturali dell’esistenza risente in profondità di questo mutamento di prospettiva.
In quale misura la libertà di coscienza qualifica l’umano in modo originario? Ovviamente la difficoltà, su questo punto, dipende dal primo impatto che il discorso sulla “libertà di coscienza” – come diritto del soggetto – ha avuto sul corpo ecclesiale cattolico. Per almeno un secolo e mezzo, a partire dalla Rivoluzione francese, il rifiuto della libertà di coscienza, come male per eccellenza del mondo moderno, ha caratterizzato larga parte del magistero ottocentesco e tutta la fase dell’antimodernismo, fino agli anni 50 del ’900.
La svolta del Vaticano II, che arriva alla fine anche a DH, ha dovuto fare i conti con la resistenza di una lettura negativa della libertà. Ma se la libertà di coscienza viene introdotta nel “sistema teologico”, molte proposizioni classiche esigono di essere tradotte in un linguaggio nuovo. A questo compito ci siamo dedicati da 60 anni, ma con alterne vicende.
Il/la teologo/a e la relazione con la libertà della propria e dell’altrui coscienza
Non solo la dottrina, ma i soggetti credenti passano attraverso la libertà di coscienza come un elemento costitutivo della loro fede. Questo cambia anche il modo con cui quei soggetti credenti che si chiamano teologi e teologhe possono offrire sintesi di sapienza e di luce alla vita di uomini e donne.
Una mediazione del sapere teologico che passi per la libertà di coscienza del soggetto non è più, come dicevano gli antimodernisti, negazione della fede, ma apprendimento sociale, culturale, ecclesiale della fede, con nuove condizioni di argomentazione, di discernimento e di immaginario.
Nuove metafore, nuove figure, nuove forme esistenziali diventano rilevanti ed entrano a far parte della grammatica e della sintassi teologica. Un esempio su tutti: parlare dell’eucaristia soltanto come “sostanza” o anzitutto come “azione rituale” cambia il linguaggio, cambia l’esperienza del mistero, cambia la struttura ecclesiale e le forme della devozione.
La sfasatura istituzionale nella dottrina e nel diritto
Entrambi questi aspetti (oggettivo e soggettivo) dell’impatto interno di DH sulla vita ecclesiale hanno creato imbarazzo nella recezione che della Dichiarazione si è avuta nel postconcilio. Se dal punto di vista esterno (delle relazioni tra culto e istituzioni civili) l’effetto è stato senza dubbio ingente, introducendo anche un nuovo linguaggio e nuove prassi, dal punto di vista interno, per l’affinarsi della teoria e della prassi intraecclesiale, DH costituisce ancora oggi un elemento di scontro e di contraddizione.
Iniziamo sul piano oggettivo. Proprio qui vi è, per la teologia cattolica, una questione fondamentale e di difficile soluzione: la accettazione della “libertà di coscienza” come può essere compatibile con un magistero irreformabile, quando questo magistero incrocia la libertà degli uomini e delle donne? Nessun dubbio che il simbolo di fede possa restare un punto di riferimento insuperabile.
Ma la sottrazione alla “libertà” di spazi sempre più ampi della tradizione è il contenuto di una reazione al Vaticano II che si può definire “dispositivo di blocco”, per non trarre le necessarie conseguenze dottrinali di quella Dichiarazione. In un certo senso essa appare come una “retractatio” di Dignitatis Humanae, o meglio degli effetti intraecclesiali di DH. Una sorta di restringimento delle conseguenze di DH sul piano meramente politico (il che non è affatto da sottovalutare), ma senza alcun impatto con cui la Chiesa pensa sé stessa nell’ambito dell’interferenza tra “storia della libertà” e profilo dottrinale.
La “dignità infinita” di ogni uomo e ogni donna, acquisita dal documento del 2024 Dignitas infinita, resta una sorta di “ibrido”: da un lato, assume la nuova prospettiva di DH, ma lo fa “senza considerazione delle circostanze”, ossia in modo a-storico e così sospende la possibilità di ri-pensare la tradizione “interna” alla Chiesa. Ecco alcuni esempi di interferenza tra rivelazione e storia della libertà che avrebbero bisogno di nuove mediazioni teologiche e istituzionali:
la relazione tra convivenza, legame civile e sacramento del matrimonio appare bloccata sulla logica moderna del decreto Tametsi;
la dignità dell’autorità della donna sembra restare ferma al pregiudizio della riserva maschile e dipendere dall’incapacità di considerare la libertà/autorità del Signore in rapporto alla libertà/autorità delle donne;
l’esercizio della sessualità e gli orientamenti sessuali sembrano fermi sull’“uso del sesso dell’altro” e sulla lettura riduttiva della omosessualità come “autocompiacimento”;
le forme di esercizio dell’autorità ecclesiale appaiono fissate sul permenere, sotto traccia, della lettura giurisdizionale del vescovo e sacramentale del prete.
l’ uscita dalla “societas inaequalis” si presenta come faticosa per l’irrilevanza della storia della libertà dei non chierici, in vista dell’acquisizione di un equilibrio istituzionale di ciò che viene definita (talora retoricamente) Chiesa “popolo di Dio”.
Questi sono solo alcuni esempi di un “blocco” nel modo di recepire la libertà di coscienza come nuovo elemento di elaborazione della tradizione teologica, dottrinale e disciplinare.
Non diverso è il problema sul piano soggettivo, ossia su come il riferimento all’acquisito valore della “libertà di coscienza” incide sul modo di fare teologia, da parte dei teologi. Qui addirittura, come è stato segnalato opportuno dal grande giurista Beockenfoerde, già 25 anni fa (per una ripresa di quel testo rimando a questo post), vi è lo scandalo di una contraddizione aperta proprio a livello normativo.
Se si osserva la normativa del codice del 1983, rispetto al codice del 1917, si nota con sconcerto che il can. 752 impone una limitazione della libertà di ricerca del teologo, che è cresciuta, anziché diminuita. E’ stato Boekenfoerde ad aprire una discussione estremamente schietta e piena di parresia sulla compatibilità di questo canone con la funzione di “libertà critica” che il teologo esercita all’interno del magistero ecclesiale.
Se, infatti, si estende l’obbedienza dovuta a tutto intero il magistero (irreformabile e reformabile), allora ci si chiede come sarebbe stato possibile, con queste regole del 1983, uscire dalle posizioni del magistero “autentico”, ma “riformabile” dei papi ottocenteschi rispetto al tema della “libertà di coscienza”. Il codice del 1983, in un certo modo, renderebbe oggi impossibile ciò che si è fatto tra 1962 e 1965!
Quindi, nonostante DH, la domanda istituzionale di “silenzio”, di autocensura, è aumentata anziché limitarsi, estendendo questo obbligo non solo rispetto al magistero infallibile, ma a tutto il magistero ordinario. E’ evidente che, senza spazi di confronto effettivo e aperto, resta difficile l’elaborazione di una dottrina aggiornata alla nuova condizione sancita da DH.
Se, ad esempio, si nega dottrinalmente alla donna la libertà di esercitare l’autorità ecclesiale, e si usa il linguaggio del “sacramento” o delle “nozze” o dell’“ordine della salvezza” come se sospendesse la libertà dei soggetti e imponesse loro un’identità predeterminata, si annuncia il vangelo in un mondo diverso da quello capace di riconoscere i “segni dei tempi” e di onorare la “libertà di coscienza”. Si parla di donne che non ci sono più (e che forse non ci sono mai state) e non si parla alle donne che si hanno di fronte.
Se si unisce l’aspetto oggettivo (irrigidimento dottrinale rispetto al fenomeno della libertà) con l’aspetto soggettivo (minore spazio alla libertà di coscienza di teologi e teologhe), è evidente che DH non è ancora entrata nella fisiologia ecclesiale e può essere letta addirittura come una pericolosa patologia. La difficoltà del confronto e la pretesa di non doversi rapportare con la cultura contemporanea rende ancora grande e significativo il cammino di recezione della “società della dignità” rispetto alla “società dell’onore”. In questo cammino una teologia avvertita e consapevole dei “segni dei tempi” e della “dignità umana” diventa un elemento vitale per la recezione della parola conciliare. Proprio l’incipit di quel documento costituisce non solo un programma politico e diplomatico, ma anzitutto un programma teologico e istituzionale ancora aperto nel futuro della Chiesa cattolica:
«Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive» (DH 1).