«Non c’è conflitto tra scienza e fede: si illuminano a vicenda», parola di Mariele Courtois, Assistant Professor di Teologia morale al Benedictine College di Atchison, in Kansas, dove dirige anche il Centro per la tecnologia e la dignità umana. «I miei studi scientifici hanno davvero rafforzato la mia fede: studiare biologia mi ha permesso di apprezzare più profondamente la logica della mente divina insita nel mondo creato e mi ha motivato a sostenere la tutela del creato attraverso studi di etica».
Mariele Courtois è membro del Gruppo di ricerca sull’intelligenza artificiale del Dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano. Nella sua tesi di dottorato ha attinto al pensiero di Edith Stein – santa Teresa Benedetta della Croce che, spiega, «è un esempio di studiosa intellettualmente onesta, che rifiuta un approccio riduzionista alla persona che non tenga adeguatamente conto dell’aspetto spirituale della natura umana. Lei afferma la dignità della persona e noi siamo chiamati a collaborare con grazia per discernere il piano di Dio e prenderci cura della sua creazione, cercare la santità e aiutarci a vicenda a realizzare la vocazione personale che riceviamo da Dio. Edith Stein è considerata da molti la santa patrona della dignità umana: per lei tutte le persone hanno un ruolo importante da svolgere nel corpo di Cristo, perché ciascuno di noi è amorevolmente e individualmente destinato da Dio ad esistere e a cercare il Suo amore. L’empatia è necessaria per comprendere veramente il nostro prossimo e scoprire la nostra vocazione». Di qui, la teologia della disabilità, contrapposta a una cultura ossessionata dalla perfezione. Perché «nell’esperienza della disabilità c’è molto di più di una semplice esistenza definita da una mancanza. Una vita che include la disabilità comporta anche grazie ricevute e la scoperta di doni personali e nuove intuizioni sul mondo e sull’amore duraturo di Dio. La teologia della disabilità offre una prospettiva importante per sottolineare la necessità di prestare attenzione all’altro, per comprendere veramente la sua esperienza e la dignità insondabile e incommensurabile di ogni vita umana. Afferma il valore prezioso della vita, indipendentemente dal percorso che intraprendiamo e afferma che questo percorso è sempre quello in cui Dio vuole rendere nota la Sua presenza».
Ed ecco perché Mariele Courtois parla di «sacramentalità dell’ospedale»: «Cristo chiese direttamente ai suoi apostoli, sia di diffondere il Vangelo, sia di guarire i malati. Il lavoro in ambito ospedaliero segue direttamente questa chiamata ed è una partecipazione all’opera amorevole e trasformatrice di Cristo in alcuni dei momenti più difficili della vita, così come in quelli più gioiosi».
Ma questa dimensione umana dell’assistenza può trovare un equilibrio con la sempre crescente tecnocrazia sanitaria? «Esistono molti modi in cui la tecnologia può migliorare la vita umana e ridurre la sofferenza. E non è semplicemente la tecnologia in sé, che rischia di ridurre il paziente a un corpo materiale da modificare a piacimento. Piuttosto, il rischio deriva da un certo modo di vedere il mondo attraverso un paradigma tecnocratico, come ha spiegato Papa Francesco nella Laudato Si’: semplicemente come materiale di cui appropriarsi a proprio vantaggio. Se rifiutiamo l’idea che la persona umana abbia una profonda dignità intrinseca, allora siamo vulnerabili al rischio di limitare la nostra risposta di cura semplicemente a ciò che è tecnologicamente possibile, piuttosto che integrarlo con la cura empatica del cuore, qualcosa che solo un altro essere umano può fornire. La ricerca del controllo tecnologico che va oltre la risposta alla sofferenza e cerca invece di manipolare il corpo esclusivamente come materia priva di un significato intrinseco, non riconosce la vita umana come un dono». E rischia di modificarne la natura. Ma« la natura umana ci è stata data affinché possiamo riconoscere e seguire la chiamata di Dio a una relazione d’amore con la Trinità, attraverso l’aiuto della Sua grazia. Sebbene possiamo tentare di modificare il corpo umano attraverso innovazioni biotecnologiche, ciò non cambia l’eterna e permanente chiamata dell’uomo da parte di Dio ad essere in relazione con Lu».
Ed è per questo che l’intelligenza artificiale non potrà mai sostituirsi alla saggezza. «Essere saggi significa testimoniare la verità nelle azioni quotidiane: mettere in pratica nella propria vita ciò che si comprende della realtà del mondo e il rispetto che le è dovuto. Solo un essere umano è in grado di individuare i valori intrinseci alla creazione di Dio e di offrire il proprio assenso interiore e l’impegno della propria libertà alla luce di tali valori oggettivi. Né l’intelletto né la saggezza sono effettivamente possibili per gli algoritmi, che operano secondo le richieste del programmatore».
Piuttosto, siamo noi che possiamo portare un po’ di umanità nell’intelligenza artificiale. «È importante indirizzarla a rispondere alla sofferenza e alla disperazione. Dobbiamo mettere la tecnologia al servizio di qualcosa che va oltre se stessa”. Perché, «come descritto nella Laudato Si’, la tecnologia non è uno strumento neutro: ha un’intenzionalità intrinseca e fa parte di una struttura di ampio respiro che coinvolge l’impegno umano e il modo di relazionarsi con il mondo. Il paradigma tecnocratico presuppone che i problemi dell’essere umano possano essere risolti esclusivamente dalla tecnologia e dimentica la necessità dell’uomo di affidarsi alla grazia. Dovremmo utilizzare la tecnologia per fornirci informazioni veritiere, per offrire chiarezza e per aiutarci a vicenda ad avere gli strumenti e le risorse per realizzare la nostra vocazione, in definitiva per essere l’amore di Cristo che Dio desidera che siamo nel mondo. Sostenere la vocazione permette la vera libertà».
Da teologa morale, Mariele Curtois riflette sul modo per conciliare questa libertà con la crescente delega del processo decisionale alle macchine. «Ci sono alcune azioni che si possono considerare troppo preziose, significative o pericolose per essere affidate interamente a una macchina, come nutrire un bambino, parlare con un parente anziano o determinare una strategia di difesa nazionale».
E riflette sulle sfide poste dal transumanesimo, che sogna di superare i limiti biologici: la malattia, la fragilità, persino la morte. «Non credo che sia intrinsecamente sbagliato cercare la guarigione, se possibile, ma questa guarigione dovrebbe avvenire in modo rispettoso della dignità umana e attento alle esperienze e all’autonomia del paziente. Il transumanesimo risponde a una domanda completamente diversa da quella se guarire o meno un paziente. Per definizione, non cerca di guarire la sofferenza o di rispondere a un bisogno; cerca invece di dare agli esseri umani nuove capacità che vanno oltre il normale funzionamento umano. Però l’obiettivo non è semplicemente vivere, ma vivere bene, attraverso la cura e la ricerca della gioia nella comunione con gli altri. Cercare la felicità autentica richiede uno sguardo che va oltre il sé, in ultima analisi nell’abbraccio eterno di Dio».
E per questo serve ritrovare spazio per la grazia, in un mondo dominato dall’etica dell’efficienza, «un’etica che spesso enfatizza l’autosufficienza piuttosto che una comprensione realistica del fatto che tutti gli esseri umani sono naturalmente dipendenti: abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma in ultima analisi abbiamo bisogno del dono dell’aiuto di Dio. Dobbiamo renderci conto che non siamo completamente noi stessi senza accogliere la presenza di Dio nella nostra vita».
È preoccupata, Mariele Courtois, «che il nostro crescente controllo tecnologico sulle generazioni future possa sminuire il valore prezioso del rapporto genitore-figlio, sia biologico che adottivo. Trovo speranza nell’assistere a momenti di amore incondizionato e sacrificale, in modi piccoli o grandi, che rivelano un impegno verso qualcosa o qualcuno al di là di se stessi. Quello che dovremmo chiederci sempre è: di cosa ha bisogno oggi il tuo prossimo? È una domanda importante, perché aiuta a mettere in evidenza la linea di demarcazione tra le tecnologie che cercano di soddisfare adeguatamente i bisogni umani e del resto del creato e lo sviluppo tecnologico modellato da desideri egoistici o da una visione del progresso senza scopo. I miei studenti al Benedictine College mi danno immensa speranza, poiché molti di loro sono consapevoli dei problemi legati all’uso della tecnologia che distrae dai valori umani più importanti. E si sforzano di coltivare abitudini di autentica attenzione al mondo, gli uni agli altri e alla presenza di Dio nella loro vita».
di Federica Re David