Si fa fatica a capirlo, immersi come siamo in una mentalità social che deve a tutti i costi suscitare visibilità e risposta, ma la sequela di Cristo è affare di pochi. Può infastidire, turbare, ma è così. E la Chiesa ne è sempre stata consapevole. Anche nei tempi di “cattolicesimo di popolo”, infatti, non sono mancate voci disilluse che hanno stigmatizzato le adesioni delle masse, smascherandone ipocrisie e compromessi, alla ricerca di quel “piccolo gregge” a cui il Padre continua a promettere il Regno di Dio (Lc. 12,32). Del resto una delle domande più brucianti del Vangelo che mostrano tutta la libertà di Cristo di fronte al mito del successo resta quel “Volete andarvene anche voi?” (Gv 6,67) rivolta ai Dodici quando il livello della sua proposta si faceva più arduo.
Siamo e saremo inevitabilmente pochi in un mondo che insegue altri obiettivi e ascolta altre voci che non sono quella del Maestro. Eppure come lievito, come sale ci è chiesto di cambiare il mondo. Ci hanno provato i giovani che a Tor Vergata in questi giorni si sono radunati per vivere l’incontro con Cristo e i fratelli in quell’evento straordinario di misericordia e di fede che è stato il Giubileo dei giovani. Perché ci sono andati? Spinti da cosa? Non importa né saperlo né indagarlo. Quel che conta è che erano lì, incuranti di essere pochi o molti e spinti solo dal desiderio di “esserci” ad un evento che, consapevoli o no, almeno un poco lascerà il segno nella loro vita. «Non togliete ai giovani la gioia di vivere, la gioia della verità, la gioia di Dio.» Così metteva in guardia Giovanni Paolo II, indicando un pericolo sempre attuale di fronte a questi momenti “di popolo”, ossia quello di ridurre tutto ad entusiasmo passeggero, di bollare un movimento così grande di persone come un fuoco di paglia o di ridurne la portata, spegnendo la naturale ammirazione che esso suscita in chi guarda dall’esterno, ponendosi anche qualche salutare e scomoda domanda.
Quando a far questo poi è un sacerdote (magari anche famoso per le sue discutibili performance social) la cosa fa ancora più male. Al fallimento del “Giubileo dei missionari digitali”, che ha visto una ridotta partecipazione di buona parte di “equilibristi della pastorale” che oscillano tra esibizionismo e genuino zelo di testimonianza, ha fatto da provocante contraltare questa invasione chiassosa di ragazzi e ragazze che dalla settimana dopo non affolleranno le chiese, non faranno a gara numericamente con i loro predecessori dell’inizio secondo millennio, ma che hanno accolto un invito, accettato una sfida e per questo sono diventati un segno, che parla e provoca.
Tutto qui il compito del Giubileo dei giovani. Non una vetrina per dire quanto è brava la Chiesa e quanti like riesce a suscitare (questo è gioia e frustrazione di chi ha costruito la vita e il ministero sulla caccia di consensi, cercando nell’esagerazione al limite del grottesco la via per proporre se stesso) ma un incontro di misericordia che trasforma la vita e fa porre domande. “Non attirare le folle, ma raggiungere il cuore del solo che passa” come scriveva san Charles de Foucald ( un “frustrato” sconfitto dai numeri secondo l logica attuale) questo quella massa ha ottenuto, anche solo per un’ora, per un istante, portando a chiedersi “perché lo fanno?”. La missione, quella vera, comincia da qui