La finestra che è stata aperta sul mondo interiore dei giovani ci ha fatto incontrare con il loro desiderio di interiorità. Il loro modo di pensare la spiritualità è riservato, intimo, molto privato. Sembra che il carattere personale della loro esperienza interiore possa andare d’accordo solo con un approccio solitario. La spiritualità è quell’esperienza di raccoglimento che permette di rivolgere lo sguardo su se stessi: per ritrovarsi, per capirsi, per definire la propria identità. È un mondo interiore senza comunità. Sul modo di vivere la spiritualità si riflette una sensibilità religiosa che ha rifiutato la Chiesa come esperienza in cui la dimensione comunitaria prendeva le forme rigide dell’istituzione.
Al di là del fatto che questo sia vero oppure no, i giovani hanno avvertito i legami comunitari come un modo per mortificare la propria soggettività, tanto che qualcuno pone proprio sulla presenza o meno di una comunità la differenza tra spiritualità e religione. Dice un giovane ventottenne: «Lo spirituale è tra te e te stesso, il religioso è una cosa più di comunità. Una persona può essere spirituale senza essere religiosa». Davanti al carattere solitario della spiritualità giovanile molti adulti restano perplessi, convinti che non si possa essere spirituali senza avere alle spalle una comunità; ma i giovani, più che escludere la comunità, hanno con essa una relazione complessa, in cui confluiscono oltre, che la loro idea di spiritualità, la loro precedente esperienza ecclesiale e il modo con cui oggi vivono le relazioni.
L’introspezione, la meditazione, la ricerca di sé per i giovani è un’esperienza che si può vivere solo con se stessi; esprimono il bisogno di ritrovarsi, di dare una forma alla propria soggettività, di capire chi sono nella profondità di se stessi. È come riconoscere che c’è una ricerca interiore che può essere fatta solo di fronte a se stessi, di cui occorre essere protagonisti, ma anche interamente responsabili solo davanti alla propria coscienza; quindi è un percorso che occorre fare in solitudine, che non è delegabile ad una comunità né condivisibile con essa; anzi, si può avere la percezione che una comunità possa influire negativamente, condizionare, manipolare questo lavorio interiore che deve essere assolutamente personale.
D’altra parte, vi è una solitudine dolorosa, che costituisce un sottofondo costante nella percezione che i giovani hanno del loro mondo interiore, tanto che qualcuno, parlando di questo aspetto, sostiene che questo dovrebbe essere il più importante tema di indagine per capire i giovani. In ogni ricerca il tema della solitudine viene collocato al primo posto come motivo di sofferenza. Dice una ventiduenne: «È una condizione che per me genera tanta sofferenza. Sia la solitudine di persone che non ci sono o che dovrebbero esserci, che dovrebbero essere più vicine, che vorrei sentire più vicine… sia il non essere sostenuti, non essere riconosciuti, non essere amati». Non per niente il motivo più grave di sofferenza è ritenuto il tradimento. E altri motivi di dispiacere sono le esperienze di conflitto, di rottura, di incomprensione… Le relazioni sono il senso della vita; la loro mancanza o la loro interruzione sono il dolore più grande.
Come comporre questi due aspetti – ricerca di solitudine e domanda di relazioni – che a prima vista sembrano in contraddizione? Mi pare che i giovani pensino che dalla solitudine non si esce con l’appartenenza ad una comunità, che spesso identificano con un’esperienza che non consente alla personalità di esprimersi e di realizzarsi nella propria originalità. Dalla solitudine si esce attraverso relazioni faccia a faccia, frutto di una scelta di affinità, realizzata dentro un’amicizia calda e importante, che permetta la condivisione della parte più profonda di sé.
Relazioni elettive e intense permettono lo stesso livello di intimità che si vive nella ricerca di sé; anzi, la condivisione di pensieri ed emozioni, senza riserve, nella fiducia, può costituire un aiuto per dare maggiore intensità e profondità al proprio viaggio interiore. Le relazioni, costruite dopo l’uscita dalla comunità cristiana, sono ciò che alcuni giovani vivono come un sostituto dell’esperienza religiosa che hanno abbandonato. Alla domanda posta ad alcuni ragazzi che hanno lasciato la Chiesa: «Con che cosa hai sostituito la tua esperienza religiosa?» spesso la risposta è: con le relazioni. Il periodo del Covid ha costituito per i giovani una grande prova perché li ha privati del rapporto con gli altri e ha permesso di rendersi conto in maniera chiara del valore che esso hanno nella loro vita ordinaria. L’esperienza dell’ascolto dei giovani permette di comprendere quanto i legami con gli altri siano importanti; se devono dire quali sono le esperienze che associano ad un’immagine di felicità, i giovani parlano di amicizia, di solidarietà, di condivisione.
Un altro aspetto complesso da comprendere è quello che riguarda la spiritualità dei giovani in rapporto alla società, alla politica, ai valori civili. Non è difficile immaginare che la sensibilità politica dei giovani sia debole; influisce sulla loro posizione il collegamento tra politica e dimensione istituzionale, che vede nei giovani una diffidenza globale, qualunque sia l’istituzione di cui si tratti. La presa di distanza dalla politica, che non appartiene solo ai giovani, è anche il frutto del modo con cui oggi essa viene interpretata dai protagonisti che sono ai vertici delle istituzioni e per i quali i giovani non hanno stima.
Tuttavia essi non pensano che chi vive un proprio impegno spirituale non possa occuparsi di politica; semplicemente non la ritengono una modalità consona al loro modo di darsi da fare per la società. All’azione politica preferiscono un impegno concreto, quello che si vede in occasione di grandi calamità che suscitano la mobilitazione di tanti ragazzi e ragazze. La solidarietà è fatta di gesti di cui è possibile vedere il risultato. Ci sono grandi valori civili che ispirano il rapporto dei giovani verso la società: la fratellanza, la pace, l’altruismo, l’integrazione, l’uguaglianza, l’unità nella diversità…: basti pensare ad alcuni movimenti che si sono attivati attorno a grandi questioni e che hanno avuto i giovani per protagonisti.
La sensibilità per l’ambiente, la preoccupazione per i cambiamenti climatici, la mobilitazione in soccorso dei migranti, la cura per il pianeta hanno nei giovani degli attori più sensibili che gli adulti. È una sensibilità che giunge anche a scelte concrete di responsabilità, di rischio e di compromissione personale. La maggioranza dei giovani però, in recenti indagini, non associa la spiritualità ad un’esperienza di impegno nella società. L’aiuto agli altri, il darsi da fare nella società non sono estranei all’esperienza giovanile, ma non coinvolgono la spiritualità. L’impegno e il servizio, per cui i giovani sono disponibili, attengono ad una sfera pratica, concreta, e dunque poco connessa alla propria ricerca spirituale.
Questo non significa disimpegno, ma semplicemente che spiritualità e impegno nella società si collocano su due piani diversi. In fondo è quello che accade anche nel rapporto tra spiritualità e religione: la spiritualità non esclude la religione ma non la implica necessariamente: solo, si colloca su un piano diverso. Si apre qui un capitolo importante su cui gli educatori e gli adulti sono chiamati a interrogarsi: da una parte lasciarsi provocare dalla tensione interiore delle nuove generazioni e dalla loro sensibilità per grandi valori civili; dall’altra, affrontare con cura e in modo nuovo la questione dell’educazione della dimensione comunitaria della spiritualità, facendo vedere e sperimentare che vivere relazioni con un vasto orizzonte può contribuire a dare robustezza, sostegno e apertura alla propria ricerca interiore.