L’invito di Leone XIV ai vescovi italiani. Parrocchie “case della pace” (di Andrea Tornielli e Andrea Monda)

Articoli home page

A colloquio con il cardinale Matteo Maria Zuppi

Reduce da un incontro con l’ambasciatore russo presso la Santa Sede, il cardinale Matteo Maria Zuppi si è fermato alla Radio Vaticana per un’intervista sul tema della pace con i media vaticani. La conversazione parte dalle parole che Papa Leone XIV ha pronunciato il 17 giugno scorso ricevendo la Conferenza episcopale italiana, con cui ha voluto dare un’indicazione precisa, drammaticamente molto attuale, rispetto ai tempi nei quali stiamo vivendo, chiedendo a tutte le diocesi di sviluppare la pastorale sulla pace. Leone XIV ha parlato valorizzando l’iniziativa delle scuole di pace, un’esperienza che già appartiene ad alcune diocesi, precisando che questa è in qualche modo un’urgenza per tutti.

Come avete colto queste parole del Pontefice e che cosa concretamente si pensa di fare per metterle in pratica?

È importante, e di questo vi ringrazio, trovare momenti di confronto, poter dialogare su questi temi che sono oggi direi decisivi e drammatici; perché non ci si può limitare a una discussione accademica sulla pace che alla fine sarebbe un dialogo di quelli che stanno bene e che discutono su come stare meglio; no, questa è una discussione tragica che si confronta con le tantissime guerre, con una violenza terribile, con la logica del riarmo cioè dell’alimentare le guerre, la logica del pensare che le armi siano l’unica via per evitare la guerra o per portare alla pace. Quindi direi che quello del Papa è un invito che si scontra con una situazione che soltanto degli irresponsabili possono pensare sostenibile, e qualche volta mi sembra che ce ne siano di irresponsabili, che ci siano quelli che, per esempio, pensano sempre che tanto andrà tutto bene, che non si confrontano con la realtà. E quindi sarebbe da irresponsabili non porsi il problema della pace mentre il Papa, da persona responsabile, ci ha chiesto di rendere ogni comunità una “casa di pace”. Ha usato questa espressione molto concreta e molto efficace: casa di pace. Qual è allora l’impegno? Anzitutto è quello della preghiera. Come Consiglio permanente della Cei, su questo punto abbiamo indicato l’occasione della Pentecoste e a partire da lì l’esigenza di trovare anche altre occasioni per coinvolgere tutte le nostre comunità. La Pentecoste infatti è un momento per ritrovarsi insieme: tutte le nazioni unite dallo Spirito, l’esatto contrario di Babele, e abbiamo voluto che questo momento diventasse una grande invocazione per la pace. Quindi preghiera, e poi accoglienza e solidarietà. Nell’accoglienza infatti c’è l’antidoto alla violenza, alla guerra, e dall’altra parte la solidarietà è indispensabile per aiutare coloro che sono travolti dalla tempesta della guerra. Faccio un esempio che ha coinvolto tante Caritas con enorme gioia in chi è accolto e in chi accoglie: i bambini che sono venuti dall’Ucraina per un periodo di pace, un momento di pace dalla guerra. In particolare penso a quelli che sono stati ricevuti e accolti dai bambini dell’Estate Ragazzi della Santa Sede in Vaticano, la bella iniziativa che da anni esiste per i figli dei dipendenti grazie al lavoro di padre Franco Fontana; non a caso Zelensky ha ringraziato il Papa per questa accoglienza.

La parrocchia come casa di pace che può essere anche “scuola di pace”: la via fondamentale, che non si può eludere, per costruire la pace, è dunque l’educazione?

Sicuramente questo è un bellissimo messaggio della Giornata della pace: l’educazione come “nome della pace”. Anche perché – bisogna stare attenti – oggi c’è purtroppo un’educazione alla guerra, che è quella della violenza, dell’odio, dell’ignoranza, del pregiudizio. Penso ai “leoni da tastiera”: a mio parere questa è una forma di alfabetizzazione, di educazione alla guerra. La guerra infatti non è mai qualcosa che arriva all’improvviso, non è un fulmine; se è un fulmine, qualcosa che nasce in un ambiente, ciò avviene perché quell’ambiente si è già surriscaldato, si è già elettrizzato, non ha avuto appunto l’educazione alla pace che è esattamente fare il contrario, che è far conoscere, creare legami, rispetto, attenzione, reti di incontro. Credo che sia molto importante, per una casa di pace, fare quotidianamente un piccolo allenamento per contrastare il processo che conduce a creare “leoni da tastiera” e avviare invece processi opposti nelle scuole, nel doposcuola, nelle parrocchie. Penso ai bellissimi esempi di tanti doposcuola o di tante scuole di italiano. Molte parrocchie, molte realtà organizzano queste scuole perché la lingua è anche il primo modo per far sentire a casa, per dare la chiave di casa. Oppure penso a quei bambini e ragazzi che paradossalmente sono ancora considerati stranieri quando invece sono i compagni dei nostri figli e quindi dovrebbe essere nostro compito naturale aiutarli, proteggerli, farli recuperare lì dove hanno degli svantaggi, dovuti ovviamente alla situazione ambientale delle loro famiglie. Questi segnali che vedo in tante parti credo siano degli inizi di quella “alfabetizzazione” necessaria per creare delle scuole di pace. Sono realtà che vivono e favoriscono l’incontro, la conoscenza di quello che succede perché in realtà c’è tanta ignoranza e, di conseguenza, c’è tanta polarizzazione. Dobbiamo perciò spingere il pedale dell’educazione, della conoscenza e quindi della buona informazione.

La guerra non è un fulmine, non inizia mai con il premere un grilletto ma molto prima: inizia nel cuore dell’uomo e ha a che fare proprio con l’odio che cresce, che viene fomentato. In questo senso le scuole di pace aprono alle possibilità di dialogo, di incontro, di fraternità, di accoglienza reciproca, di non aver paura dell’altro, insomma a tutti i possibili percorsi di pace. Papa Leone XIV, parlando di pace, è entrato in un ambito che riporta alla dottrina sociale della Chiesa. A volte si sente la critica di chi sostiene che invece di questi temi bisognerebbe occuparsi dell’annuncio del Vangelo, bisognerebbe parlare di Dio, come se trattare e impegnarsi su questi fronti sia un togliere qualcosa alla purezza della fede e dell’annuncio. Pensiamo all’impegno dei pontefici, alle encicliche di Papa Francesco «Laudato si’» e «Fratelli tutti», al tema dell’ambiente che Papa Leone XIV ci ha ricordato in maniera molto forte proprio in questi giorni, e che invece sono visti come se fossero aspetti “optional” di cui la Chiesa può occuparsi ma anche non occuparsi. Non si riduce così la fede a qualcosa di disincarnato? Non si elude così la radice squisitamente evangelica di tutto questo impegno?

La radice è chiara e sta nel fatto che il Vangelo entra nella storia e non ci fa uscire dalla storia. La Chiesa cosa deve fare? Cosa fa? Parla di Cristo. Che cosa ha fatto Papa Francesco? Non ha fatto altro che parlare di Cristo, l’ha detto fin dall’inizio, Evangelii gaudium, dove la prima parola indica proprio il kerigma, l’annunciare Cristo. E parlare di Cristo vuol dire entrare nella storia perché c’è un legame strettissimo tra evangelizzazione e promozione umana, tra la mensa eucaristica e la mensa dei poveri, tra apparecchiare la mensa eucaristica e apparecchiare le mense dell’attenzione all’altro. Questa unione tra amore e verità, tra evangelizzazione e promozione umana, non può mai mancare. Qualche volta viene un po’ prima la promozione umana e poi capisci il Vangelo, qualche volta viene prima il Vangelo e allora ti rendi conto, apri gli occhi e dici a te stesso: ma io devo amare il fratello più piccolo, capire che Gesù è in lui; è lui che devo visitare, accogliere, rivestire e devo cercare di togliergli la causa per cui è così, senza vestito. Tra queste due azioni c’è un’unità profonda. Qualche volta la sincronia non è perfetta e c’è bisogno di mettere assieme i due tempi, ma i due tempi sono come quelli del cuore, i due battiti del cuore, sistole ed extrasistole: vanno insieme, amore e verità, evangelizzazione e promozione umana. Sono i due tempi del cuore della Chiesa.

 Torniamo alle parole di Papa Leone XIV di fare delle parrocchie delle case di pace. Questo invito può essere l’occasione per riflettere sulla natura della parrocchia, sul suo destino e sulla necessità di cambiamento che deve investire anch’essa?

Sì, senz’altro, e credo che le parrocchie stiano cambiando soprattutto nel Centro-Nord del nostro paese. Tendenzialmente ormai la parrocchia al singolare comincia a essere quasi rara; in genere sono sempre parrocchie al plurale e ciò aiuta anche a crescere nella comunione. Non esiste più “la mia singola parrocchia”. Il punto è che però la parrocchia sia davvero una casa e invece qualche volta corriamo il rischio, lo dobbiamo riconoscere, che le parrocchie siano dei luoghi anonimi. La grande sfida è quella di tessere fraternità, di costruire comunità, far crescere la conoscenza, la capacità di relazione. Quante volte abbiamo insistito sul tema della relazione che, però, non coincide nei gruppi di auto-aiuto, non è il frequentarsi un po’, non è un condominio, ma appunto è una casa. Uso volutamente un’espressione cara a Papa Francesco: una casa dove tutti si possono sentire a casa. Credo che questa sia la grande sfida di sempre e oggi direi ancora di più in un mondo che ci isola e ci contrappone. In Italia un nucleo familiare su tre è composto da una persona: un dato che è in crescita, mentre la denatalità riduce più delle volte la casa a monolocale. La Chiesa allora dovrebbe essere un luogo dove la mensa è sempre larga e ognuno può trovare, anche chi è solo, il posto in cui scopre che in realtà ha tanti fratelli e tante sorelle.

Sono passati due mesi dall’elezione di Papa Leone XIV, un’elezione che è stata per certi versi sorprendente. Anche dal punto di vista laico bisognerebbe essere onesti e ammettere che c’è qualcosa che sfugge all’umano ed è inspiegabile. Sorge infatti la domanda su come sia stato possibile che 133 persone di diversa provenienza e lingua, la maggior parte delle quali non si è mai incontrata, in meno di 24 ore eleggano il Vescovo di Roma con una maggioranza così estesa. Partendo da questo fatto storico, parliamo anche di questi primi due mesi di pontificato.

Anch’io condivido questa riflessione. Per dirlo con una battuta, l’algoritmo nostro è sempre il migliore, è ineguagliabile, lo Spirito è l’algoritmo che li riassume tutti. A parte la battuta direi che indubbiamente questa elezione è stata fonte di una grande gioia, quella di poter dare una risposta all’attesa in un tempo molto, molto breve. Questi due mesi mi sembrano segnati da tanta mitezza, tanta determinazione e desiderio di riprendere il cammino, così come avviene sempre nei cambiamenti. La tradizione nella Chiesa è qualcosa di straordinario perché riesce come sempre – così come deve essere – a trasmettere quello che si ha, nella continuità ma allo stesso tempo, ovviamente, anche nelle differenze proprie di ogni Papa, direi di ogni persona. Ciò che vale per ciascuno di noi vale anche per ogni Papa. Per questo mi sembra che siano dei mesi davvero importanti, che si inseriscono tra l’altro all’interno degli appuntamenti dell’Anno santo, questo tempo fatto di intensi momenti di condivisione, di incontro in cui stare insieme anche fisicamente, riprendendo il cammino insieme. In tale contesto accompagniamo Papa Leone XIV con la nostra amicizia, con la nostra preghiera anzitutto, e con l’obbedienza. Perché quando io dico che al Papa si obbedisce tutti, dico una cosa vera e importante; poi ci saranno quelli che hanno un’obbedienza, come dire, un po’ particolare, che dice “sì ok però solo per quello che dico io”. Ma così non va, al Papa si obbedisce sempre. Obbedire e stare con lui, facendogli sentire la vicinanza in questo contesto del Giubileo, per cogliere l’opportunità per tutti di capire la bellezza del nostro cammino, di questo Giubileo che prepara la speranza, che ci porta la speranza. In un mondo come questo di oggi credo che l’Anno santo sia davvero una grande opportunità, il Giubileo della speranza da vivere con Papa Leone XIV.