Non è quel che credi · L’identità cristiana

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«Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo» (Francesco, Evangelii gaudium, 3).

In quest’epoca in cui tutto è fluido e tutto è globale, in questo grande calderone culturale da cui nessuno pare sapere quale pietanza uscirà, anche i cristiani sembrano aver bisogno di un’identità forte. Reazione normale, magari discutibile in talune sue forme, ma del tutto naturale. Quel che è curioso è che pure l’identità cristiana sembra essere troppo fluida per bastare a se stessa. Si sente come il bisogno di chiarirla, di definirla aggiungendole una qualificazione. Ecco allora emergere i cristiani progressisti contrapposti ai tradizionalisti, i cristiani impegnati e quelli non praticanti, quelli di tale o talaltro movimento…
Un appello urgente
L’appello di Papa Francesco a recuperare l’essenziale della vita cristiana, cioè la relazione vitale con il Vangelo che è Cristo, è dunque quanto mai urgente. Urgente, certo, ma non per questo innovativo, privo di un solido ancoraggio in quella vitale tradizione che dall’epoca apostolica giunge fino a noi. Come testimone evochiamo un personaggio che certo non ha nulla da spartire con il vescovo di Roma sudamericano del XXI secolo: Filosseno, vescovo siriaco di Mabbug (l’attuale Manbij, in Siria) tra v e vi secolo. In un’epoca in cui la Chiesa è dilaniata dalle dispute sulla natura umano-divina di Cristo, in un’area di confine tra due imperi, quello romano e quello persiano, e tra due culture, quella greca e quella siriaca, egli risponde per lettera a un certo Patrizio (La traduzione italiana della lettera è stata appena pubblicata dalle edizioni Qiqajon: Filosseno di Mabbug, Vivere è Cristo. Lettera a Patrizio, Magnano 2019).
Una domanda che ha a che fare con l’oggi
L’oggetto del contendere è questo: «È giusto che i comandamenti di Nostro Signore siano effettivamente osservati? Non c’è un modo per esserne dispensati, per non osservarli?» (p. 96). Che cosa c’entra questo con la nostra riflessione sull’identità cristiana oggi? Il lettore capace di ascoltare in profondità capirà presto che dietro la domanda apparentemente ingenua di Patrizio si cela una tentazione senza tempo per i cristiani. Patrizio è un monaco e in quanto tale sente che il proprium del suo essere cristiano sia la contemplazione. Anch’egli avverte il bisogno di qualificare in qualche modo il suo cristianesimo: egli è un cristiano contemplativo. La sua appartenenza a Cristo viene espressa dalla sua capacità di contemplarlo giorno e notte nella solitudine della preghiera. In questo senso, è chiaro che certi comandamenti, come accogliere i forestieri o visitare gli ammalati, gli appaiano come ostacoli alla vita evangelica. È forse un pensiero molto diverso da quello di chi per difendere le radici cristiane dell’Europa rifiuta di aprire le porte a immigrati che professano un’altra fede? Non vi si riconosce lo stesso meccanismo mentale di chi pone dei valori non negoziabili al di sopra delle persone e dell’imprevedibile varietà del loro vissuto? Non vi si scorge la tentazione di scindere meccanicamente tra vita attiva e contemplativa, facendo sì che per gli uni la vita cristiana si esaurisca nell’impegno sociale e per gli altri in devozioni e pratiche pie?
In ascolto delle Scritture e della coscienza
La risposta del vescovo di Mabbug consiste in un invito a non lasciare che un’idea, per quanto ammirevole, schiacci l’infinita varietà del reale. Le sue parole al monaco Patrizio si possono riassumere in un triplice «non è quel che credi»: i comandamenti non sono quel che credi, non lo è la contemplazione, e in ultima analisi, nemmeno la vita cristiana è quel che credi.
Osservare i comandamenti non consiste né nell’abbandonarsi al legalismo né nel lasciarsi assorbire dall’attivismo, cercando nel fare la propria ragion d’essere. Si tratta invece di imitare Cristo, di seguirne l’esempio, di esercitarsi ad assumere la sua capacità di discernere l’azione giusta da compiere in ogni cangiante situazione, senza dare nulla per scontato; si tratta di mettersi umilmente alla scuola delle Scritture e dello Spirito, che fa udire la sua voce nel profondo della coscienza di ciascuno: «giudica tu stesso la tua azione prendendo la testimonianza che viene dalle Sante Scritture e dall’esame di coscienza» (p. 125). In questo modo, l’osservanza dei comandamenti non solo non è un ostacolo alla contemplazione, ma ne è la via. Mettersi minuto per minuto sulle tracce di Cristo fa sì che sia lui a vivere in noi e a renderci capaci di «quell’amore che è il veggente della contemplazione» (p. 141).
Un suggerimento attuale: l’accoglienza
L’esempio più pregnante offerto da Filosseno all’eremita Patrizio è senza dubbio quello dell’accoglienza: «Se qualcuno accoglie un forestiero, gli lava i piedi, prepara per lui la tavola, se ce n’è bisogno lava i suoi vestiti, e fa per lui [quante più opere] simili a queste richiede la regola dell’amore mentre il discernimento accompagna l’azione, la quiete della sua anima non è confusa da tali [attività]. Infatti, è soprattutto quel discernimento che si riceve dalle azioni a essere purificatore per l’anima» (p. 110).
Discernimento è qui la presenza a se stessi e la consapevolezza del valore profondo di ciò che si sta facendo, è la capacità di «guardare al forestiero come a Cristo» (p. 110), è la virtù di accogliere i visitatori senza «giudicare in base a chi sono, se siano o meno degni, non ti è comandato infatti di essere giudice ma ospite» (p. 140), è la trasparenza di chi sa scorgere in qualsiasi uomo, indipendentemente dai suoi trascorsi, l’«indistruttibile immagine di Dio» (p. 117).
Per non restare cristiani neonati
L’amore sviluppa in noi dei sensi nuovi, i sensi di Cristo stesso; l’amore dona lo sguardo di Cristo, capace di discernere che «c’è una contemplazione spirituale in tutto ciò che è nel mondo, nelle piccole come nelle grandi cose perché tutto ciò che è creato da Dio è creato con sapienza spirituale» (p. 116).
Allora è chiaro che la vita cristiana non può essere definita da nient’altro se non da questa potente espressione di Paolo «per me il vivere è Cristo» (Lettera ai Filippesi, 1,21). Paradossalmente, a determinare l’identità cristiana, per il vescovo di Mabbug, non è neppure il semplice fatto di essere o meno battezzati. Il sacramento è condizione necessaria, ma non sufficiente: esso genera in noi l’uomo nuovo, ma questo rischia di essere un eterno neonato che non riesce a liberarsi della placenta (p, 155). Per fare il cristiano servono addirittura tre nascite: quella naturale, quella battesimale e infine quella della libera scelta di mettere a morte il proprio uomo vecchio per imparare a tentoni a camminare dietro l’uomo nuovo, Gesù Cristo.
Cerchiamo la rivelazione dentro di noi
L’unico necessario per il cristiano è dunque di rimettere continuamente in discussione i propri ideali, per quanto progressisti siano, le proprie tradizioni, per quanto eterne appaiano, i propri valori, per quanto si vogliano non negoziabili, in una parola di morire a se stesso perché Cristo possa vivere in lui e far fiorire in lui l’amore. È questo quotidiano sforzo di svuotamento lo straordinario della vita cristiana. A Patrizio e a tutti coloro che ieri e oggi cercano in visioni e mistiche apparizioni il sigillo di un’autentica esistenza cristiana, Filosseno risponde che Dio «ci ha mostrato la sua grazia una volta per tutte e ha posto in noi segretamente il dono del suo Spirito. Ci ha comandato di cercare la sua rivelazione dentro di noi» (p. 168), di stupirci di fronte all’unico, inimitabile miracolo di un Dio che dimora nell’uomo.
di GianMarco Tondello
Monaco di Bose