Perché tanti preti stanno male? di: Domenico Marrone

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Nell’attuale scenario ecclesiale, il malessere di molti presbiteri non nasce solo da fattori esterni, ma affonda le radici nella fragilità del legame spirituale, umano e pastorale con il proprio Vescovo. Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi offre linee chiare e profetiche, spesso disattese nella prassi. Riscoprirle potrebbe essere la chiave per rigenerare la comunione e ravvivare la missione[1].

Non si può più eludere la domanda che molti si pongono, in silenzio o a voce alta, nei presbiteri: perché tanti preti stanno male? Certo, le motivazioni sono molteplici e complesse: la crisi di senso, l’invecchiamento del clero, l’isolamento relazionale, la solitudine affettiva, la fatica di essere guida in un mondo che cambia rapidamente. Ma al fondo, spesso, vi è una sofferenza più sottile e più profonda: la percezione di non appartenere realmente a una comunione viva.

Il prete e il suo vescovo
Il prete è, per sua natura, un uomo inserito in una relazione: con Dio, con il popolo, con il Vescovo, con il presbiterio. La sua identità non è autosufficiente né autoreferenziale: nasce e cresce dentro una trama di legami. Quando uno di questi legami si allenta – o peggio si spezza – ne risente tutta la persona, e non solo la sua “efficienza pastorale”.

In particolare, il legame con il Vescovo – come figura di riferimento sacramentale e affettivo – ha una valenza strutturale. Come sottolinea il Direttorio, “l’unione di volontà e di intenti con il Vescovo approfondisce l’unione con Cristo”. Non si tratta di una subordinazione funzionale, ma di una comunione mistica, ecclesiale e missionaria. Il presbitero non agisce da sé: è inserito in un corpo, partecipa a un’unità più grande, si sente generato e custodito in una relazione di amore e corresponsabilità.

Quando questa comunione viene percepita come fragile, distante o puramente gerarchica, il prete si ritrova spiritualmente orfano. Non ha più un riferimento affettivo e paterno che lo sostenga. Non ha più un fratello maggiore con cui confrontarsi, un amico con cui confidarsi. E così il rischio è duplice: o ripiega su sé stesso, chiudendosi in una pastorale solitaria e difensiva, oppure sviluppa un’attitudine passiva, adattandosi per sopravvivere, senza più slancio né visione.

Tanti sacerdoti oggi lamentano proprio questo: di non essere riconosciuti nel loro cammino personale, nelle loro fatiche, nelle loro intuizioni pastorali. Di sentirsi semplici “funzionari del culto” o “ingranaggi di un’organizzazione”, più che persone amate e accompagnate. La loro crisi, quindi, non è solo affaticamento da eccesso di lavoro, ma ferita alla dignità vocazionale, al bisogno di essere visti, ascoltati, stimati.

Prete-vescovo: una relazione non formale
Ne derivano dinamiche relazionali spesso segnate da tensioni, sospetti, senso di inadeguatezza o di abbandono. E non sono rari i casi in cui la mancanza di una relazione significativa col Vescovo – non nutrita da incontri veri e dialogo fraterno – genera un senso latente di fallimento o di non appartenenza, fino a minare l’identità stessa del ministero. È qui che si annida, in molti casi, la radice spirituale della depressione presbiterale.

Di fronte a questa realtà, l’invito del Direttorio assume una forza profetica: non bastano riunioni, decreti, circolari, o richiami alla fedeltà e alla comunione. Occorre una riforma dello stile relazionale dentro la diocesi, a partire dalla consapevolezza che la comunione è generativa, e che ogni prete ha bisogno, come chiunque, di sapere che la sua vita è significativa per qualcuno, amata da qualcuno, custodita da qualcuno.

Solo così si rigenera la fiducia. Solo così l’obbedienza diventa libertà, la missione entusiasmo, la solitudine occasione di comunione. Il disagio non sparirà con una migliore pianificazione. Ma può essere trasfigurato quando il legame con il padre e fratello nella fede – il Vescovo – torna a essere una sorgente di vita, non una formalità istituzionale.

Il Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi ci offre una sintesi potente e concreta del volto episcopale: il Vescovo deve essere padre, fratello e amico dei suoi sacerdoti. Queste tre parole, profondamente evangeliche, non sono ornamenti poetici, ma coordinate fondamentali per costruire relazioni pastorali sane e generative. Dove questo triplice volto manca o viene deformato, si apre nel cuore del presbitero uno squilibrio affettivo e vocazionale difficile da colmare.

La paternità del vescovo
Il Vescovo è chiamato ad essere generatore di vita, “un passatore di vita”[2], non solo amministratore di strutture. Come un padre, accompagna senza controllare, corregge senza umiliare, dona fiducia e non solo indicazioni. Quando manca questo volto, il presbitero può sentirsi “figlio abbandonato” o “dipendente subordinato”. L’assenza della paternità crea un clima di freddo distacco, dove il prete si percepisce come “monade operativa”, non come parte viva di un corpo in cui è amato e riconosciuto.

In questa prospettiva, la paternità episcopale non è un concetto simbolico o ornamentale, ma un cardine teologico, relazionale e spirituale su cui poggia la vita del presbiterio e la fecondità della missione.

Come ogni vera paternità, anche quella del Vescovo non nasce da sé, ma da un’origine ricevuta e trasmessa. Il Vescovo è padre perché trasmette una vita che viene da un Altro: è chiamato ad essere il custode e il testimone dell’origine apostolica, colui che collega la comunità e il presbiterio alla Tradizione viva della Chiesa, garantendo l’unità con Cristo Capo. È nel suo legame con l’Eucaristia, con la Parola e con la Chiesa universale che egli può svolgere il compito di “passatore di vita”, generando e rigenerando la comunione tra i suoi preti non come amministratore o funzionario, ma come padre generativo.

In tal senso, il Vescovo non è il padrone del presbiterio, ma colui che ne custodisce l’identità profonda, che si fa segno visibile di un’origine comune e di una vocazione condivisa. Nella sua persona si riflette la presenza di Cristo buon Pastore, che ama, unisce e dona sé stesso. Quando questo legame è vissuto con autenticità e spirito evangelico, anche gli stessi vincoli giuridici della Chiesa appaiono come espressione naturale di una comunione spirituale profonda (cf. Apostolorum Successores, 190).

Ma la paternità non si limita alla trasmissione dell’origine: è sostegno nella crescita. Un padre autentico non chiede che i figli siano suoi cloni, ma li accompagna a diventare ciò che sono, aiutandoli a sviluppare le loro potenzialità, a maturare nella libertà, a portare frutto nella loro specifica vocazione. Così anche il Vescovo, padre dei presbiteri, non annulla le differenze ma le valorizza; non impone la sua volontà, ma guida e incoraggia; non uniforma, ma fa spazio alla grazia di Dio all’opera in ciascuno.

Il Direttorio dei Vescovi lo esprime con chiarezza: il Vescovo “si comporti con i suoi sacerdoti non tanto come un mero governante con i propri sudditi, ma piuttosto come un padre e un amico” (191). La paternità episcopale è tale quando sa coltivare un clima di affetto, di fiducia, di ascolto reciproco, in cui l’obbedienza non viene vissuta come imposizione, ma come atto libero e convinto di comunione e corresponsabilità.

Un padre non ordina dall’alto: spiega, condivide, motiva, coinvolge, e nel farlo educa alla libertà, non alla dipendenza. La sua autorevolezza nasce dalla relazione, non dalla distanza.

Il Vescovo è padre anche perché traghetta i suoi presbiteri verso il futuro. Non li mantiene nell’infanzia clericale, ma li accompagna a diventare adulti nella fede e nel ministero. L’obiettivo non è il controllo, ma la corresponsabilità nella missione, la crescita di una fraternità evangelica che sappia leggere i segni dei tempi e rispondere con creatività e fedeltà.

Un padre autentico non teme l’autonomia dei figli, perché non confonde la comunione con l’omologazione. Così anche il Vescovo deve aiutare i suoi preti a “dare il meglio di sé”, mettendo a frutto i doni ricevuti, con la maturità e la libertà dei figli di Dio. In questo modo, la comunione non si appiattisce sulla disciplina, ma si radica in un progetto condiviso, in una visione comune, in un amore reciproco che rende la missione ecclesiale credibile e fruttuosa.

In un tempo in cui la figura paterna è spesso contestata o assente, il Vescovo è chiamato a riscoprire la propria paternità come un’avventura spirituale. Non si è padri per decreto, ma per relazione. E la paternità verso i presbiteri si costruisce giorno dopo giorno, nell’ascolto, nella prossimità, nel perdono, nella stima reciproca.

È padre il Vescovo che sa piangere con chi piange, che sa gioire dei successi dei suoi, che corregge senza umiliare, che sostiene senza invadere. È padre quel Vescovo che non si pone al centro, ma che fa spazio all’altro, che non prende per sé, ma dona. È padre colui che non teme di essere “passatore di vita”, cioè mediatore di un’origine, di un cammino, di un futuro che non gli appartiene, ma che custodisce per conto di un Altro.

Nella vita dei presbiteri, il Vescovo può diventare davvero una figura fondamentale per la fedeltà, la gioia e la perseveranza nel ministero. Ma ciò sarà possibile solo se egli sceglierà di vivere la sua paternità non come un titolo onorifico, ma come un’esigenza profonda del Vangelo, come un dono da accogliere e un compito da esercitare con umiltà, sapienza e passione.

Solo così potrà essere – come il Padre celeste – colui che genera alla vita, sostiene nel cammino e guida con amore verso la pienezza.

La fraternità amicale nel presbiterio
La comunione presbiterale implica camminare insieme, nella condivisione delle fatiche, delle gioie, delle scelte. Quando il Vescovo si pone troppo in alto, come figura distante o irraggiungibile, si rompe l’equilibrio fraterno, e si crea uno scarto che non è solo funzionale, ma umano. Il presbitero si sente solo nel portare il peso del ministero. Invece, la fraternità episcopale dovrebbe esprimersi in vicinanza, condivisione sincera, anche nella vulnerabilità.

Gesù ha detto ai suoi: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 15,15). L’amicizia è uno stile pastorale. Significa fiducia reciproca, confidenza, libertà nel confronto, attenzione personalizzata. Senza questa dimensione, tutto si appiattisce nella formalità. L’autorità, priva di affetto, perde di credibilità e di calore. Molti preti non desiderano un Vescovo perfetto, ma un uomo che si lasci incontrare, che si mostri umano, vicino, autentico.

Quando queste tre dimensioni si intrecciano armonicamente, il Vescovo diventa per i suoi sacerdoti davvero segno di Cristo Capo e Servo. Quando invece si privilegia il ruolo del governante – amministratore di crisi, selezionatore di incarichi, difensore dell’istituzione – allora si genera distanza, paura, e talvolta ostilità. E la Chiesa ne soffre tutta, perché senza la comunione affettiva e concreta tra Vescovo e preti, anche il Vangelo perde credibilità.

Uno dei nodi più delicati e fraintesi nella relazione episcopale è il tema dell’obbedienza. Spesso invocata, raramente compresa nel suo significato più autentico. Il Direttorio ricorda che “l’esercizio dell’obbedienza viene reso più soave […] se il Vescovo manifesta agli interessati i motivi delle sue disposizioni”. Ma la prassi concreta, in molte diocesi, racconta tutt’altra storia.

In molte situazioni, l’obbedienza appare come un atto esecutivo richiesto unilateralmente, senza il supporto di un vero dialogo, senza spiegazioni, senza processi di discernimento comunitario. La logica è spesso quella dell’ordine e della delega, del “si fa perché te lo dico io”, e non quella evangelica dell’ascolto reciproco, della fiducia condivisa, del confronto adulto. In questo modo, l’obbedienza si trasforma da dinamismo spirituale a peso morale, da scelta liberante a vincolo imposto.

Quando il prete non comprende il senso delle decisioni che lo riguardano, o quando percepisce che esse sono motivate da logiche di potere o da equilibri politici, allora l’obbedienza ferisce, invece di edificare. Nascono delusione, amarezza, risentimento. L’obbedienza, per essere evangelica, dev’essere figlia della comunione, non della subordinazione. Quando manca la comunione, anche l’obbedienza più fedele diventa fonte di sofferenza e logoramento.

Per risanare questo nodo, serve una cultura del dialogo e della corresponsabilità, dove i presbiteri siano riconosciuti come interlocutori maturi, non come semplici esecutori. Serve che il Vescovo sia capace di spiegare, coinvolgere, motivare, e anche – quando necessario – di ascoltare il dissenso con rispetto. Solo così l’obbedienza torna ad essere un atto libero di amore verso la Chiesa, non una rinuncia forzata alla propria dignità.

Il Direttorio ammonisce: “abbia uguali premure ed attenzioni verso ciascun presbitero”. Eppure, molti sacerdoti avvertono disparità di trattamento, favoritismi, criteri opachi nelle nomine e nelle valutazioni. Alcuni si sentono penalizzati per il loro pensiero libero o per la loro sincerità; altri, invece, sembrano godere di una considerazione privilegiata per la loro docilità o silenziosità.

La comunione ecclesiale non può sopportare questo tipo di squilibri. La fraternità presbiterale si spezza quando la giustizia è percepita come assente o disattesa. E il primo segno di giustizia è la trasparenza: nel discernimento, nelle scelte pastorali, nei criteri con cui si affidano incarichi e si valutano le persone.

Inoltre, la Chiesa non può più permettersi di soffocare i carismi. Ogni presbitero è un dono per la Chiesa. Ognuno ha una propria storia, sensibilità, esperienza. Il Vescovo, come padre e pastore, è chiamato a far fiorire questi carismi, non a uniformarli. L’uniformità non è unità. E il controllo, spesso, nasce dalla paura di perdere potere, non dalla cura per il bene comune.

Quando il Vescovo incoraggia l’iniziativa, la creatività pastorale, la ricerca di nuove vie, allora i presbiteri si sentono parte viva di una Chiesa in movimento. Ma quando ogni proposta è vissuta come un pericolo, e ogni deviazione come un atto di ribellione, allora nasce il conformismo, la mediocrità, la stanchezza. La comunione non è mai omologazione. È sinfonia di voci diverse, unite da uno stesso Spirito.

Il nodo delle relazioni
Non è solo questione di prassi organizzative o di gestione delle risorse. Il vero nodo, oggi, è la qualità delle relazioni. Dove c’è comunione autentica, tutto il resto si costruisce: le difficoltà si affrontano, le fatiche si condividono, le soluzioni si cercano insieme. Dove invece la relazione è debole, ferita o inesistente, anche le strutture più efficienti si svuotano.

Il Vescovo, in quanto pastore del suo presbiterio, è chiamato a riplasmare la cultura relazionale della sua Chiesa. Ciò implica:

Essere presente: non solo nei momenti ufficiali, ma nella vita quotidiana, nei passaggi delicati, nelle crisi personali.
Ascoltare davvero: non per raccogliere informazioni, ma per entrare nel cuore del presbitero.
Accompagnare con discrezione e verità: senza invadere, ma nemmeno abbandonare.
Favorire la corresponsabilità: fidarsi del prete, coinvolgerlo, accettare la sua libertà e le sue fatiche.
Formare alla sinodalità reale: dove ogni voce è ascoltata e ogni decisione è frutto di discernimento condiviso.
La comunione è la prima missione del Vescovo. È la sorgente della pace del presbitero. È il volto visibile della Chiesa.

In un tempo segnato da crisi multiple – vocazionali, spirituali, affettive – non bastano interventi emergenziali o riforme organizzative. Serve una conversione dello sguardo, una riforma delle relazioni. Serve che i Vescovi tornino a essere davvero padri, fratelli e amici. E che i presbiteri si sentano riconosciuti come figli, compagni e collaboratori, non come dipendenti o sudditi.

È la carità, più della legge, a fondare la comunione ecclesiale. È l’amore che rende autorevole l’autorità. E solo la carità è capace di generare obbedienza felice, fraternità vera, ministero fecondo. Se il Vescovo è segno di Cristo, lo sia non solo nella cattedrale, ma nella relazione viva con ciascuno dei suoi preti. Così il Vangelo potrà continuare a essere credibile, anche nella debolezza delle nostre strutture.

[1] In questo contributo faccio particolare riferimento al n. 76 del Direttorio che qui riporto in forma integrale: “Il Vescovo, padre, fratello e amico dei sacerdoti diocesani. I rapporti tra il Vescovo e il presbiterio debbono essere ispirati e alimentati dalla carità e da una visione di fede, in modo che gli stessi vincoli giuridici, derivanti dalla costituzione divina della Chiesa, appaiano come la naturale conseguenza della comunione spirituale di ciascuno con Dio (cf. Gv 13, 35). In questo modo sarà anche più fruttuoso il lavoro apostolico dei sacerdoti, giacché l’unione di volontà e di intenti con il Vescovo approfondisce l’unione con Cristo, che continua il suo ministero di capo invisibile della Chiesa per mezzo della Gerarchia visibile.
Nell’esercizio del suo ministero, il Vescovo si comporti con i suoi sacerdoti non tanto come un mero governante con i propri sudditi, ma piuttosto come un padre e un amico. Si impegni totalmente nel favorire un clima di affetto e di fiducia in modo che i suoi presbiteri rispondano con un’obbedienza convinta, gradita e sicura. L’esercizio dell’obbedienza viene reso più soave, e non già indebolito, se il Vescovo, per quanto è possibile e salve sempre la giustizia e la carità, manifesta agli interessati i motivi delle sue disposizioni. Abbia uguali premure ed attenzioni verso ciascun presbitero, perché tutti i sacerdoti, benché dotati di attitudini e capacità diverse, sono ugualmente ministri al servizio del Signore e membri del medesimo presbiterio.
Il Vescovo favorisca lo spirito di iniziativa dei suoi sacerdoti, evitando che l’obbedienza venga intesa in maniera passiva e irresponsabile. Si adoperi affinché ciascuno dia il meglio di sé e si doni con generosità, mettendo in gioco le proprie capacità al servizio di Dio e della Chiesa, con la maturità di figli di Dio” (CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi Apostolorum successores, n. 76).

[2] Cfr. Xavier Lacroix, Passatori di vita. Saggio sulla paternità, EDB, 2005.