A colloquio con il teologo domenicano Timothy Radcliffe. «Dobbiamo riscoprire Dio attraverso il mistero della corporeità»

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Un sabato mattina, in una pausa del Sinodo, incontriamo padre Timothy Radcliffe per una conversazione ad ampio spettro sulla Chiesa nel mondo e il mondo nella Chiesa. Il padre domenicano si presenta molto disponibile e contento di aggiungere qualcosa alle precedenti interviste su questi temi, rilasciate in particolare da padre Elmar Salmann, dai cardinali Zuppi e Hollerich e da don Piero Coda. «Spero di essere all’altezza delle vostre aspettative» premette. E spiega: «Anche perché mi trovate molto stanco, il Sinodo è un avvenimento molto intenso, ho appena finito di correggere i testi delle meditazioni che vi sono stato chiamato a svolgere, insieme a madre Ignazia Angelini, che i vostri colleghi della LEV (Libreria Editrice Vaticana, ndr) hanno deciso di dare alle stampe».

Timothy  Radcliffe, 78 anni, è stato maestro generale dell’ordine domenicano fino al 2001. È riconosciuto come uno dei teologi contemporanei più apprezzati per le sue analisi sul mondo contemporaneo, sulla vita cristiana e sulla Chiesa. Analisi che, seppur dotate di profonda e sofisticata originalità, vengono sempre svolte con un linguaggio piano e divulgativo, che rifugge da certa autoreferenzialità che sempre minaccia il mondo della teologia. La conversazione parte quindi proprio da qui, sottolineando come la ricerca teologica debba prendere le mosse ed essere sempre accompagnata da un’attenta osservazione dell’uomo. Una teologia esperienziale, come è spesso evocata da Papa Francesco.

Dove sta andando il mondo, padre Radcliffe?

Per rispondervi mi viene in mente una vecchia canzone che cantavamo da bambini che si intitola «Il vecchio cavaliere lungo la strada». Non conosco le sue origini, ma credo che le sue parole ben si adattino alla condizione dei giovani d’oggi. Canta: «Dove stai andando?», disse il cavaliere lungo la strada. «Sto andando ad incontrare il mio Dio», rispose il giovane stando in piedi. Stava in piedi, stava in piedi, ed era bene che rimanesse in piedi. Il falso cavaliere allora tentò il ragazzo con la disperazione ma lui rimase in piedi sperando nel proprio Signore. Questa è una canzone per i giovani di oggi. Un oggi in cui il futuro è diventato spoglio ed è dura per i giovani rimanere in piedi.

Da questo punto di vista non stupisce che padre Radliffe sia stato chiamato ad accompagnare con le sue riflessioni e meditazioni il Sinodo sulla sinodalità.  Una teologia quindi molto “incarnata”, che non può essere confinata alla dissertazione metafisica, e tanto meno vissuta solo nelle aule delle università e, di conseguenza, che non può prescindere dalle profonde mutazioni antropologiche a cui stiamo assistendo. Per dirla con il cardinale Hollerich, la Chiesa oggi rischia di parlare ad un uomo e una donna che non esistono più. 

Sono assolutamente d’accordo. La teologia non studia l’incarnazione: la teologia è incarnazione. E questa realtà è molto evidente negli incontri che sono avvenuti nel Sinodo, dove il cuore di tutto il processo è stato l’incontro dell’uno con l’altro, e i cambiamenti che ognuno ha potuto registrare nell’incontro con l’altro. Questo approccio è quello che ispira quotidianamente Papa Francesco: ogni singolo incontro è esperienziale, e ogni incontro è un incontro di immaginazioni. È straordinario l’incontro con l’immaginazione dell’altro da me. E non è una questione che riguarda solo il cuore, ma riguarda il pensiero, le categorie di pensiero che usiamo, la poesia che è nella vita di ciascun altro da noi. Per questo combatto sempre contro la distinzione, seguita da molti, tra cuore e testa. È una falsa distinzione perché credo che i nostri sentimenti siano sempre in sintonia con i nostri pensieri, e viceversa. Quando leggi i grandi poeti essi ti cambiano i pensieri ma anche il cuore, cioè ti trasmettono una nuova immaginazione.

Il problema è che i luoghi in cui si sviluppa il discorso teologico sembrano essere distanti dai moti del cuore e dalla creatività immaginativa. Viene da pensare che il primo fine, seppur non dichiarato, di ogni istituzione sia la preservazione di se stessa e sembra che anche le accademie teologiche non ne siano esenti risultando spesso sospinte verso l’autoreferenzialità, tanto del linguaggio che dei contenuti.

Ho sempre viva la memoria di un teologo domenicano che ha avuto un ruolo importante nella mia formazione; era dello Sri Lanka, suo padre era singalese ma di origine olandese, e sua madre era buddista e lui mi ripeteva sempre che la teologia è l’incontro tra il Vangelo e il mondo, in un rapporto di reciproca illuminazione. La cultura contemporanea ci aiuta a saper leggere il Vangelo; dunque la teologia è anch’essa  sempre un incontro. Per questo incontro c’è bisogno di studiosi, di professori che camminino lungo le strade del mondo, di professori che, per esempio, sappiano cucinare. Una mia cara amica che insegna teologia a Cambridge ed è madre, una volta mi ha detto «raggiungo vette contemplative mentre cucino la cena o mi sveglio di notte per cambiare il pannolino a mio figlio». Abbiamo bisogno di professori che non siano solo rinchiusi tutto il giorno in biblioteca, abbiamo bisogno di maestri. Il mio maestro dei novizi di quando ero giovane usava dire: se separi la biblioteca dalla strada è un disastro. Ad Oxford, dove vivo, cerchiamo di avere sempre professori di teologia che vivano in case parrocchiali. Abbiamo bisogno di professori che abbiano tempo per studiare in biblioteca, ma anche un contatto con la ordinaria vita pastorale di una parrocchia. Solo così puoi incontrare una vera teologia.

Se in quanto cattolici crediamo nella religione dell’Incarnazione, lo sviluppo del nostro discorso teologico non può che prescindere ma deve anzi partire proprio dal dato antropologico. E allora si deve prendere atto dell’avvenuta mutazione antropologica. In una recente conversazione con Piero Coda, si rilevava come il Dio incarnato nell’uomo Jeshua ben Joseph, in quello specifico uomo, abbia indotto una certa fissità dell’idea di uomo.

Io penso che buona parte del problema possa trovare una risposta innanzitutto nell’incarnazione dell’uomo in se stesso. Noi siamo poco incarnati. Non possiamo comprendere l’Incarnazione di Dio se, a nostra volta, noi non siamo incarnati nel nostro corpo. Penso che la nostra società soffra un deficit nella comprensione del corpo, nell’accettazione della piena unità dell’umano in spirito e corpo. Una grande filosofa della scienza ad Oxford ha scritto che tutte le tentazioni della nostra cultura occidentale vengono dalla paura del corpo. Dalla classicità greca, al manicheismo, al neoplatonismo, a Cartesio si è sempre enfatizzato il concetto per cui l’umano si risolva nella sua mente, e quindi la tentazione del dualismo tra anima e corpo. Credo, dunque, che una grande sfida per i cristiani oggi, non sia soltanto quella di adeguarsi ad un mondo e a un uomo che cambiano, ma soprattutto indirizzare l’uomo di oggi ad una più completa comprensione di se stesso. Anche della sua corporeità. Oggi il nostro mondo appare malato soprattutto sul versante della corporeità, che è al centro di tutti i nostri discorsi, pensate alle malattie dell’alimentazione, alle cure palliative del fine vita, al dominio della fitness, alla rimozione della morte corporale. E la nostra dottrina ha molto da dire sul corpo. Anzi è fondata sul corpo. Sul dono di Gesù espresso con le parole: «Questo è il mio corpo dato per voi». La resurrezione del corpo. La cura e la salvezza che passa attraverso il corpo. Eppure siamo molto spesso riluttanti ad annunciare questo «Vangelo del corpo». Noi possiamo incontrare Dio attraverso i sensi del nostro corpo. Non solo attraverso la mente. Gesù si è rivelato in quel modo, incarnandosi. Come possiamo dunque incarnarci in noi stessi? La buona notizia è anche che io sono carne e sangue proprio come il mio Dio. Questa è la nostra affinità con Dio. Guardavo nei giorni scorsi i miei fratelli e sorelle nel Sinodo e mi domandavo: quanti di loro hanno consapevolezza della loro affinità con Dio attraverso la loro corporeità? Quanto della nostra conclamata spiritualità è relazionata alla nostra esistenza fisica? Tra i cristiani di oriente è diffusa la pratica dello yoga, che è un esercizio che si fonda sulla unità tra corpo e spirito. Ma ancora oggi tra molti cristiani occidentali lo yoga è visto con molto sospetto. L’uomo non può conoscere compiutamente Dio se non è riunificato. Ma quanti di noi possono effettivamente dirsi uno? La vita sacramentale è una vita del corpo, e dei suoi sensi. Ogni sacramento si fonda sulla nostra esperienza corporea.

Papa Francesco si esprime molto con la sua fisicità. Il suo stesso linguaggio, così forte a livello comunicativo, è basato più che sui concetti sulla gestualità del corpo e del volto.

Un esempio che ogni sacerdote dovrebbe seguire. Insegnavo sempre ai miei allievi e novizi: il vostro viso deve essere sempre splendente, deve esprimere la gioia di una verità gustata. L’incarnazione sulle nostre facce. Nell’antico Testamento è detto che chi vede Dio muore. Mosè sperimenta eccezionalmente l’incontro con Dio faccia a faccia. Ma con la nuova alleanza Gesù ci mostra Dio faccia a faccia, e non moriamo più. Noi dobbiamo imitare Gesù mostrando la nostra vera faccia. Troppo spesso invece mostriamo una maschera. Non siamo veri.

Spesso riusciamo ad essere autentici solo quando il dolore, la sofferenza, ce lo impongono. Queste ore di guerra sono atroci, per esempio.

Sì, questo è molto vero. Davanti al dolore gettiamo la maschera. Sono rimasto molto impressionato in queste ore dal Patriarca Pizzaballa.  Non solo per le sagge parole che sta usando, ma soprattutto per come le pronuncia. Da autentico testimone del Vangelo.

Un altro aspetto, molto evidente, della suddetta svolta antropologica è segnato dal cambiamento nella relazione tra i generi.

È un tema tornato molte volte nel confronto del Sinodo. Soprattutto nel profilo dell’indebolimento della figura paterna. Devo dire che questo problema della fuga dalla paternità riguarda anche molti preti. Anzi direi che è, secondo me, l’aspetto principale di questa crisi del presbiterio ordinato di cui tanto parliamo, senza trovare soluzioni efficaci. È un problema enorme per la Chiesa. Dobbiamo assolutamente rifuggire dal clericalismo. Ma, abbandonando il clericalismo, i preti hanno comunque bisogno di una loro identità. Hanno bisogno di chiarire a se stessi chi sono, e che scelta di vita hanno compiuto. La mia idea è che questa ricerca debba affondare le proprie radici nel concetto di fratellanza. Da questo punto di vista Fratelli tutti di Papa Francesco è un documento di straordinaria efficacia. Il clericalismo si sconfigge recuperando il valore della fratellanza in Cristo. Noi, ad esempio, nell’ordine domenicano, abbiamo vietato l’uso dell’appellativo “padre”. Ci chiamiamo tutti “fratelli”, indifferentemente dal nostro status canonico. Occorre trovare un’identità che non implichi superiorità.

Questa riflessione, insieme a quella sul corpo prima ricordata, apre la questione strettamente collegata al tema degli abusi.

Proprio così. Papa Francesco lo ha ricordato più volte: gli abusi sessuali nascono da un esercizio distorto, abominevole, del potere, della superiorità gerarchica, che induce a pensare che gli altri siano a propria disposizione. L’amicizia tra preti, e con i preti, è un elemento importante della loro vita; l’abuso è un grave tradimento del sentimento di amicizia. E attenzione, l’amicizia è una proprietà essenziale dell’essere cristiano. Il tradimento dell’amicizia è dunque il tradimento della nostra quintessenza. Nella Divina Commedia il girone più infimo e deprecato è quello in cui sono condannati coloro che hanno tradito l’amicizia.

Prima lei citava Fratelli Tutti.  Come si conciliano, nel suo pensiero, fratellanza universale ed evangelizzazione?

Guardi, se andiamo indietro a soli 150 anni fa, al tempo degli imperi, ci accorgiamo che all’interno di essi, si viveva spesso in un medesimo territorio un rapporto armonioso tra  religioni diverse. Credo che dipendesse essenzialmente da un più diffuso e compreso senso del trascendente. Il trascendente unifica. Ma se questo si perde allora si finisce col dare maggior peso alle proprie parole, e ci si divide. Il fondamentalismo è forse la maggiore tentazione di questi tempi che viviamo. Fondamentalismi nazionalistici, economici, etnici, scientifici, religiosi. Il riduzionismo è la filosofia dei nostri tempi. L’antidoto è andare oltre la lettera e cercare il senso allegorico, poetico, immaginifico, simbolico delle parole. Che era poi il parlare di Gesù.

Immaginifico però non significa magico.  Una delle ragioni che spiegano la crisi della religione è che la gente non accetta più una visione magica del religioso. Per esempio, il fondamento della nostra religione, la resurrezione dei morti, è percepita come una prospettiva irrealistica alla luce della ragione e della scienza.

Si, io credo che dobbiamo evitare di addossare ogni colpa alla secolarizzazione, di cui saremmo vittime innocenti. Penso invece che dovremmo considerare più attentamente il tema della superficialità con cui si guarda al futuro dell’uomo; superficialità che affligge anche la nostra predicazione. Se vogliamo guardare al nostro sistema di credenze, penso che più ancora che alla logica dovremmo affidarci alla semplicità delle parole e all’immaginazione che è cosa ben diversa dalla fantasia. L’immaginazione è lo strumento con cui attraversare il trascendente.  Il futuro del nostro essere umani (e cristiani) è nelle mani di scrittori, registi, poeti, pittori e musicisti, tutti alleati dei teologi. Per esempio, io sono rimasto molto impressionato dall’ultimo libro di Ian McEwan, Lessons, un libro di straordinaria bellezza che ripercorre l’arco di un’intera vita, che per un fatto generazionale potrebbe essere la mia. Non c’è niente di religioso in quel libo, ma a tratti presenta delle tracce di trascendente, che poi subito dopo ripone nel cassetto. C’è tanta umanità, e tanto gusto del vivere; malgrado tutto, al termine della lettura avrei voluto ringraziare l’autore per avermi fatto entrare nei meandri della sua vita. Ecco, questo è quello che voglio dire a proposito dell’immaginazione. McEwan esprime la ricchezza dell’umano attraverso l’immaginazione. Anche il Sinodo è stato un evento in qualche modo ricco d’immaginazione. Vedere giovani donne tenere testa ai cardinali del piccolo mondo antico è stato altamente immaginifico di una Chiesa che cambia e incontra il mondo. E questo è potuto avvenire perché Francesco è un uomo, un pastore, ricco di immaginazione.

di ANDREA MONDA
E ROBERTO CETERA