ABRAMO, PELLEGRINO DELL’ASSOLUTO  (Mons. Franco Giulio Brambilla)

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Dopo il grande scenario dei “racconti delle origini” che ci presentano le esperienze fondamentali dell’uomo e della donna, il Libro della Genesi al capitolo 12 dà avvio a un nuovo inizio: la “storia dei patriarchi”. La voce del narratore sposta la nostra attenzione dal panorama dell’umanità intera a un minuscolo popolo, che si installerà nella mezzaluna fertile, la zona di passaggio tra l’Asia e l’Africa, un lembo di terra che è la culla del futuro. L’Autore racconta la storia dei Padri del popolo di Dio, risale alle origini della vicenda singolare di Israele. Per conoscere un popolo occorre ricostruirne l’inizio, le storie di vita che spiegano quasi il codice genetico da cui proviene. Le storie dei patriarchi hanno un carattere emblematico e il racconto le organizza in tre cicli: il ciclo di Abramo (cc.12-25), il ciclo di Giacobbe e Esaù (cc. 25-36) e la storia di Giuseppe e i suoi fratelli (cc. 37-50). All’origine di questo popolo, come di ogni popolo, vi sono spesso storie così: una partenza che genera, una lotta per la successione, una vicenda fratricida. Si tratta per così dire di una sceneggiatura che ci racconta come siamo stati. Ora assistiamo alla proiezione del primo tempo: il ciclo di Abramo, il pellegrino dell’Assoluto!

La storia di Abramo è forse la più emozionante: il Padre della fede, figura esemplare per i credenti delle tre grandi religioni monoteistiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, è il pellegrino per eccellenza. L’inizio del ciclo di Abramo risuona improvviso e inatteso quasi fosse una nuova “genesi”. Come un battito di ciglio prende avvio la storia, la nostra storia: Parti dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò (12,1). Questo attacco della storia di Abramo è l’inizio più famoso delle vicende umane e parla di una partenza dalla casa e della ricerca di un nuovo paese. Il lettore attento si ricorda che ha già ascoltato nel racconto della creazione dell’uomo e della donna lo stesso tema: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre… Creare storia significa partire, lasciare la propria origine per diventare cercatori di futuro, pellegrini sulle strade che conducono al paese ospitale dove si costruisce il sogno di una casa nuova.

Questa storia è il primo ricordo sconvolgente che ci racconta la nostra origine: la vicenda degli umani non è fatta solo delle esperienze universali, narrate nei racconti dei primordi dell’umanità, ma a un certo punto deve arrischiare l’avventura di una storia singolare. Perché proprio Abramo? Perché egli parte da Carran, dalla terra dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, per cercare futuro nei pascoli di Canaan? Perché tra le mille storie questa ha in rilievo particolare? È l’altra legge della “genesi”: Dio dona all’uomo e alla donna, ai singoli e ai popoli, le forme fondamentali della vita umana (Gn 1-11), ma l’esistenza delle persone e dei popoli deve avventurarsi in una storia singolare, l’uomo deve farsi nomade e viaggiatore per cercare il proprio futuro (Gn 12-50). È il domani che dà volto al nostro sogno e crea una storia singolare. Questo spiega la cosa più sconcertante del libro della Genesi: dopo la sceneggiatura universale delle origini, inizia una vicenda particolare, molto umana, troppo umana!

Si può partire però solo sotto una buona stella o, meglio, se si ascolta un appello, una voce che chiama. Il centro di gravità del ciclo di Abramo è la promessa. Dio annuncia ad Abramo una promessa, che continua la benedizione ascoltata nel giardino dell’Eden. L’appello si propaga come l’onda del mare e ha la forma di una triplice promessa: di una discendenza numerosa (come le stelle del cielo e la sabbia che è sul lido del mare, Gn 22,17), del figlio atteso e insperato, del paese ospitale da cui verrà un grande popolo. Abramo da viaggiatore e nomade diventa pellegrino dell’Assoluto. La promessa è il filo d’oro che unisce le storie dei patriarchi. Essa resta sospesa al dono della benedizione e al gioco della libertà dell’uomo. Anche se, talvolta, Abramo vuole addomesticare la promessa di Dio. Questi sono i due registri che s’intrecciano nella storia di Abramo: Dio resta fedele alla benedizione promessa e l’uomo cerca le sue strade per anticipare, piegare e, persino, ridurre il dono promesso alla misura umana. Mai come per queste storie, ma forse per ogni umana vicenda, vale il famoso effato di Bossuet: Dio scrive diritto sulle righe storte che noi disegniamo sulle strade del futuro. La promessa fa i conti con il tempo che passa, più francamente è sfida alla morte: e noi, come Abramo, padre dei credenti, possiamo vivere l’avventura della vita o come nomadi vagabondi o come pellegrini dell’assoluto.

Credenti si diventa quando si ha una buona stella da seguire, figli di Abramo si cresce – come dice Cristo – quando si cammina come uomini della speranza. La speranza non è altro che la fede distesa nel tempo, e la promessa preserva il carattere di dono della nostra esistenza. La seconda parte del Libro della Genesi intreccia, dunque, la promessa con il gioco e, talvolta, la furbizia della libertà dell’uomo: questo è il tema delle storie dei patriarchi. Nel ciclo di Abramo notiamo una scansione in tre tempi che potremmo così nominare: il futuro della promessa, la scorciatoia e la crisi della promessa.

Il futuro della promessa è il motore del racconto. Come un sasso gettato nello stagno che disegna tre cerchi, la promessa parla di una discendenza futura, prende corpo nell’attesa del figlio e va in cerca del dono della terra. Per l’ebreo la promessa ha un carattere estremamente concreto, non ha il sapore impalpabile dell’illusione, ma ha la figura forte del frutto della propria carne e del verde della terra fertile, accompagnata dalla speranza di una discendenza numerosa. Ascoltiamo quanto si dice al capitolo 15, il passo chiave: Poi lo condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” e soggiunse: “tale sarà la discendenza!” (Gn 15,5). Ecco ciò che cerca Abramo: egli ha uno sguardo che spazia sull’orizzonte delle stelle del cielo, ma ha bisogno della fecondità del figlio e della terra ospitale per i greggi e gli armenti. È abitando questo intervallo che si diventa pellegrini, cercatori dell’assoluto: non essendo alienati sognatori di un’utopia che non ha spazio e tempo, né ripiegati sul frammento di cui diventiamo schiavi. Solo l’andirivieni tra l’alleanza promessa e la sfida della libertà di ogni giorno ha fatto di Abramo il padre dei credenti, anzi di molte genti e di innumerevoli popoli. Il figlio che ne nascerà è il frutto inaspettato della promessa e del sorriso che nasce quando l’evidenza umana dice che è ormai tardi per avere un figlio. Sara se ne ride che Dio possa di nuovo generare dal suo grembo avvizzito, nonostante la visita dei tre personaggi misteriosi che ne annunciano la venuta (Gn 18).

Questo spiega il secondo tempo del ciclo di Abramo: le scorciatoie della promessa. Il testo contiene molte storie di vita, dove Abramo tenta quasi di guidare la promessa, di anticiparla o ridurla alla logica umana. La sua storia è piena di sapienza e furbizia che, talvolta, sono una scorciatoia della promessa: in Egitto Abramo finge che la moglie sia la sorella per ingraziarsi il Faraone (c. 12); ma soprattutto nell’episodio del capitolo 16, egli cerca di avere in ogni modo un figlio dalla schiava Agar. Anche questo registro, che fa quasi da contrappunto alla storia della promessa, racconta la paradossale sfida dell’uomo viandante quando anticipa la speranza cercando di costruirla a misura d’uomo. Abramo è ormai vecchio e, nonostante l’alleanza stipulata con l’Altissimo (c. 15), egli tenta di forzare i tempi di Dio, cercando di avere un figlio dalla schiava… Questo episodio così curioso mette in luce in modo paradigmatico quanto avverrà tante volte nelle storie dei patriarchi, tra Esaù e Giacobbe, tra i figli di Israele e Giuseppe. La tentazione di Abramo è di anticipare i tempi, di non fidarsi di Dio, di aver bisogno subito di un surrogato della promessa piuttosto che attendere che Dio venga a visitarlo. E quando il figlio sarà annunciato ciò susciterà l’irrisione di Sara: ma Dio scrive nel nome di Isacco (“Dio ha sorriso, si è mostrato favorevole”) che è capace di trarre anche dalle impazienze e dal sarcasmo dell’uomo il figlio promesso.

Infine, il ciclo di Abramo raggiunge il suo vertice emotivo nell’episodio del sacrificio di Isacco: è la crisi della promessa. Il figlio della discendenza, finalmente nato, sembra di nuovo tolto. L’erede, portatore della promessa, viene messo in condizione di pericolo di vita in seguito all’ordine che Dio stesso dà di immolare il figlio Isacco. Dopo l’intercessione di Abramo per evitare la distruzione inevitabile di Sodoma e Gomorra (cc. 18-19), una città fondata dal nipote Lot, sembra che intorno al patriarca sia stata fatta ormai terra bruciata. La narrazione del sacrificio di Isacco è per così dire il culmine di un isolamento che mette Abramo nella sua condizione finale di pellegrino dell’assoluto: la sua vicenda, il figlio della promessa, il suo futuro, ormai rimane lui solo davanti a Dio! L’episodio è stato narrato per molti secoli prima di raggiungere il suo stato attuale: alla base c’è forse la maturazione che descrive il passaggio dai sacrifici umani a quelli animali. Di tutto ciò resta però solo un pallido ricordo: ora esso è inserito in una cornice teologica, che attribuisce a Dio la prova più drammatica, la disponibilità a perdere il figlio della promessa. Dio mette alla prova la libertà e la disponibilità di Abramo. La prova consiste nel fatto che la parola di Dio custodisce la libertà nella sua duttilità radicale: i beni che Dio concede fino al bene più grande, cioè la promessa fatta carne nel figlio, non possono diventare un possesso sicuro e scontato, ma sono come il segno di un pellegrinaggio della mente e del cuore. Se l’uomo diventa cercatore dell’infinito, allora sa trovare la giusta dimensione del finito, dei beni e delle persone che costellano la sua vita di ogni giorno. Per questo la prova di Abramo è un “sacrificio interrotto”: egli è veramente il padre dei credenti, perché ha saputo ricevere di nuovo il figlio come il dono di un confidenza sconfinata. Egli l’homo viator, figura di tutti coloro che non si stancano di cercare attraverso e al di là di ciò che hanno ottenuto e realizzato nella vita. 

Concludo, fermandomi su questa immagine dell’homo viator. G. Marcel, un grande filosofo forse dimenticato, citando l’espressione di un personaggio del suo teatro: “Amare un essere è come dire: tu non morirai”, così commentava:

 

«Amare un essere è come dire: tu non morirai», significa […]: c’è in te, poiché ti amo, poiché ti affermo come essere, quanto è necessario per superare l’abisso di ciò che chiamo indistintamente la morte. […] la mia affermazione, dal momento in cui è amore, nega se stessa a favore di ciò che viene proclamato nel suo valore essenziale»[1].

 

Questa è la fede di Abramo! Egli è disponibile a offrire il figlio, lacerando la sua coscienza di padre: solo così può riaverlo di nuovo e per sempre come il figlio della promessa. Dice la lettera agli Ebrei: «Egli offrì il suo unico figlio. Per questo lo riebbe come un simbolo» (Eb 12,17.18). Così è per tutti coloro che diventeranno pellegrini dell’Assoluto…

+ Franco Giulio Brambilla

 P.S. Ho scritto questa meditazione all’inizio della quarta settimana di quaresima di questa drammatica primavera 2020. Molti sacerdoti a pochi passi da noi sono stati chiamati dal Signore. Li ricordiamo con affetto nel suffragio cristiano. Questo è un fortissimo richiamo anche per noi a dedicarci – tutti insieme uniti spiritualmente – un “giorno di deserto” il 31 marzo, quando era previsto il nostro ritiro per sacerdoti. Facciamolo veramente come un giorno di deserto e di preghiera. Vi accompagno solo con queste tre domande per riflettere e pregare:

  • Quale partenza mi è richiesta, nella stagione del ministero che sto vivendo?
  • Quali scorciatoie e furbizie riconosco in me e come Dio mi ha guidato correggendomi?
  • Quale affidamento alla promessa e quale sacrificio mi chiede della cosa a me più cara?

[1]       G. Marcel, Le mystère de l’être, II: Foi et réalité, Paris 1951, 62.