ANCHE NINIVE È LA CITTÀ IN CUI DIO PRENDE DIMORA  di Pierangelo Sequeri

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Per trovarsi nel punto d’incontro fra il cristianesimo e la città, bisogna anzitutto sentirsi concittadini, nella città dell’’uomo. Si tratta di sentire lo spazio e il tempo del mondo come spazio e tempo nostro, a pieno titolo. Un cristiano non è un sopravvissuto, nel mondo che cambia (sempre cambia il mondo), in transito da un mondo che era il suo e ora non lo è più. Al quale vorrebbe ritornare, ma non può. Sembra banale. Invece è uno dei nodi dell’inconscio ecclesiastico più difficili da elaborare.

Bisogna anzitutto credere che questo è il tempo favorevole, questo è il mondo che poggia sulla creazione di Dio, questa è la città nella quale il Figlio assimila gli amori e gli umori dell’uomo vivente per renderne eloquente la verità perfetta custodita dal Padre e le opere che attestano le passioni indomabili di Dio per la creatura. Nazareth è la nostra città, e poi Corinto, Efeso, Laodicea, l’Atene dei filosofi e la Roma dell’impero. La città in cui Dio prende dimora è la nostra città. Persino Ninive è città di Dio, alla cui sorte Dio si appassiona. Non lo saranno Milano e Napoli, Madrid e Parigi, New York e Los Angeles?

I nodi essenziali, sui quali registrare oggi il gesto cristiano della testimonianza ecclesiale, li indicherei così.

Il radicamento di Dio nell’assimilazione dell’umano.

Il mistero di Nazareth, anzitutto: il grande tema che l’ecclesiologia deve di nuovo incorporare fino al midollo. Nazareth è l’emblema della profonda immedesimazione del Figlio, che fa tutt’uno con l’incarnazione e la rivelazione del Padre. Un tempo lunghissimo. Tempo di seminagione del profumo di Dio e di assimilazione degli umori dell’uomo: come vive e come muore, come gioisce e come soffre, come si dispera per il pane e come si entusiasma per i figli, come piange di risentimento per le ferite di coloro che gli sono cari e come si scopre improvvisamente capace di compassione e di cura per l’estraneo che non ha mai conosciuto. Abbiamo cercato di abbreviare – abbiamo osato considerare superfluo – il mistero di Nazareth. Finiamo per parlare un gergo religioso, pur altissimo e devoto, in cui non si può più intendere la Parola di Dio che mira al cuore. Per poter annunciare l’eterna verità di Dio bisogna essere profondamente contemporanei alle avventure e alle fatiche del vivere che prende la sua forma qui e ora E’ l’evento discriminante della novità cristiana.

Le opere che sigillano la verità della rivelazione.

La scena originaria dell’annuncio porta indicatori la cui priorità non deve più essere revocata in dubbio. La parola dell’annuncio è resa univoca e trasparente dal ministero della liberazione dal male, accompagnato dalla rimozione dell’esclusione dalla cura di Dio. Le opere di Gesù sono i segni della rivelazione, non semplicemente lo spazio dell’applicazione morale della coerenza religiosa. Sono il codice dell’annuncio che rende precisa l’inaudita verità di Dio, che in Lui si rivela. Ciò che vale per la rivelazione vale per la fede, «I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono consolati, i demoni sono cacciati». La confessione della fede rimane vuota se l’evidenza della prossimità di Dio rimane cieca. «Non chi dice Signore, Signore». La franca confessione dell’Evangelo di Dio, che ha l’identità del Figlio Gesù come referente assoluto, patisce la rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo. La purificazione evangelica della religione -delle religioni – ha qui il banco di prova dell’annuncio della fede che salva. Come siamo toccati, tutti – e anche ora – dalla nascita e dalla risurrezione di Gesù? Come siamo riscattati dalle passioni di Dio e dall’avvilimento del Figlio?

La religione nel crogiolo dell’assoluto di Gesù.

 Sempre, nella religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi, esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente incistate nell’invocazione del nome di Dio. La religione che si accontenta di provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se stessa, non a Dio.

Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia cristiana ha cercato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non religiosa del cristianesimo, contrapponendo la fede evangelica alla forma religiosa. La tesi, pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata indubbiamente oscurata. Rimane però il fatto che la pura alternativa della fede alla religione scrive la parola di Dio sulla sabbia di un’interiorità inafferrabile e taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione con Dio. Non c’è proprio nessun altro modo di andare a toccare le nervature della carne, e l’intimità dello spirito in cui l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità destinata. Per dodici apostoli che chiamò, il Figlio considerò come “suoi” cinquemila uomini alla volta. Per non contare le donne e i bambini.

Li istruì sulla verità di Dio che riguardava la loro vita e la sua destinazione, facendo in modo che non mancassero del pane e non dovessero vergognarsi delle loro ferite. lndividuò fra essi, non solo fra i discepoli, figure straordinarie, la cui “fede” additò all’ammirazione dei suoi e di tutti. La Cananea, la Samaritana, il lebbroso riconoscente, Zaccheo il pubblicano. Qualcuno – come il ladro crocifisso o il centurione romano – scoprì di essere “dei suoi” senza averlo previsto. Non stiamo rimpicciolendo troppo, a motivo di uno sguardo ecclesiologico forse indebolito dall’età, la vasta comunità di coloro che «guardano con fede a Gesù» (Lumen gentium, 9) nelle città che abitiamo – del resto sempre provvisoriamente?