BRUNO MAGGIONI: IL CANTORE DELLA PAROLA DI DIO (di Gianfranco Ravasi)

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Se avesse voluto scegliere un motto personale, avrebbe potuto optare per una netta affermazione del suo amato Paolo, l’Apostolo: «Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Corinzi 2, 2). Tutti noi biblisti italiani dovremmo senza esitazione riconoscere che nessuno tra noi ha annunciato, commentato, proclamato la Parola di Dio come monsignor Bruno Maggioni, la cui ampia e intensa esistenza terrena si è conclusa a 88 anni giovedì scorso nella città di cui era presbitero, Como. La sua bibliografia è imponente, perché la sua ricerca esegetica e teologica ha percorso tutti i principali itinerari delle Sacre Scritture.

Certo, l’orizzonte fondamentale è stato quello neotestamentario, perlustrato in tutte le sue traiettorie storico-letterarie e tematiche principali ma anche nei suoi angoli più segreti. A dominare erano due campi ai quali aveva dedicato una vera e propria biblioteca di saggi e di riflessioni: i Vangeli e l’epistolario paolino. Come egli stesso scriveva, l’originalità del cristianesimo è da cercare in una sorta di ribal-tamento radicale: «Non è l’uomo che muore per Dio, ma Dio per l’uomo. Per l’immaginazione religiosa degli uomini, è normale pensare che l’uomo sia pronto a dare la vita per Dio, ma il Vangelo racconta che un Figlio di Dio ha dato la vita per l’uomo. Il movimento è capovolto». E il volume in cui annotava questa visione radicale cristiana, scritto a quattro mani con un teologo suo concittadino, Ezio Prato, s’intitolava appunto Il Dio capovolto.

Il lineamento più luminoso del suo volto di studioso e di sacerdote è stato quello della «comunicazione» nell’autenticità della sua radice etimologica: il condividere un munus, un dono. Anziché arroccarsi nell’oasi protetta di un linguaggio teologico autoreferenziale, spesso così criptico da rasentare l’esoterico tipico di alcuni colleghi, don Bruno si è costantemente avviato lungo i sentieri della divulgazione, attraverso un linguaggio trasparente e simbolico o parabolico. Per averne la prova, basti scorrere alcuni suoi titoli nei quali amava introdurre la categoria narrativa: Il racconto di Marco (oppure di Matteo o di Giovanni o di Luca), I racconti evangelici della passione (o della Resurrezione). Ecco allora affiorare, sempre nelle titolature, immagini come «la pazienza del contadino», «la brocca dimenticata», «il seme e la terra», «un tesoro in vasi di coccio», «la cruna e il cammello», «forza e bellezza della Parola», «era veramente uomo», «la difficile fede», «la speranza ritrovata», «come la pioggia e la neve» e così via.

In filigrana si intravedeva sempre l’ammiccamento biblico e nelle sue righe, sotto il manto di un dettato limpido e coinvolgente, si intuiva però il retroterra della sua attrezzatura scientifica che l’aveva condotto anche a salire su cattedre accademiche nel Seminario di Como, ma soprattutto nella Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (ove siamo stati colleghi a lungo) e nell’Università Cattolica di Milano. Si configurava, così, un altro lineamento della sua persona di docente e testimone: è stato immenso il suo magistero orale, con presenze che spaziavano dai congressi ufficiali alle piccole comunità parrocchiali, dalle platee culturali qualificate agli ambiti più familiari e spontanei.

Se volessimo ancora una volta attribuirgli un motto, si potrebbe ricorrere all’appello della Prima Lettera di Pietro: «Rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Questo, però, sia fatto con dolcezza, rispetto e retta coscienza» (3, 15-16). Chi l’ha conosciuto, ascoltato e avuto come amico non può dimenticare la sua bontà che traspariva dal suo stesso carattere, la semplicità che rasserenava, la sua passione di essere anche pastore a Naggio, sul lago di Como, una piccola parrocchia della diocesi comasca, la sua libertà di pensiero anche nei confronti di certe lentezze, divagazioni, rigidità ecclesiali. Si poneva in ascolto attento anche degli ultimi con le loro domande ingenue che, però rivelavano un desiderio di ascolto, ignorato spesso da coloro che, come i farisei del Vangelo di Giovanni, detestano «questa gente che non conosce la Legge ed è maledetta» (7, 49).

In un’intervista del 2012, dopo aver ancora una volta “capovolto” la lamentazione di molti sulla degenerazione della società contemporanea scoprendovi, invece, fermenti inediti, chiedeva ai laici un dono: «Vorrei che mi aiutassero a incontrare Dio nella vita e nel mondo ordinario, nella quotidianità dei rapporti. La loro storia possa servire ad approfondire il Vangelo per testimoniarlo a tutti». Come il filosofo credente Soeren Kierkegaard, era convinto che, se «il principio della filosofia è la mediazione, per il cristianesimo lo è il paradosso», proprio come affermava l’Apostolo, certo che il cuore della fede cristiana fosse «scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani» (1 Corinzi 1, 23), un paradosso che tuttavia ha la capacità di custodire la coerenza piena della sapienza e di essere un veicolo indispensabile di conoscenza.

Per questo egli s’era battuto perché la Bibbia risuonasse anche fuori delle frontiere ecclesiali, sia come provocazione esistenziale e morale, sia come «grande codice» della cultura occidentale secondo l’espressione dell’artista William Blake, divenuta ormai una locuzione emblematica comune, soprattutto dopo il saggio critico omonimo di Northrop Frye. Infatti, in quella stessa intervista dichiarava: «Nelle scuole, come si studia l’Iliade e l’Odissea, si può anche leggere la Bibbia. Nella scuola italiana, europea, si studia il greco, perché è nelle nostre radici, ma lo è anche il pensiero giudeo-cristiano. Per insegnare la Bibbia bisogna farlo molto bene, e sono sicuro che essa piacerebbe agli studenti almeno quanto i grandi classici. In passato c’era una cultura ostile a questo progetto… E in fondo anche la Chiesa non ne era molto convinta, temeva che l’introduzione della Bibbia sostituisse l’ora di religione. Invece deve diventare la lettura di un grande testo culturale. Molti pensano che la Bibbia sia un libro per preti e monaci, invece è un testo di alta letteratura. Peccato!».

Tanto altro si dovrebbe aggiungere per ricomporre un ritratto di Bruno Maggioni, grande credente e sacerdote, testimone, biblista, annunciatore della Parola. L’amicizia che mi ha legato a lui, fatta di incontri, di dialoghi e di condivisioni ideali, anche per la vicinanza geografica e accademica, in questi ultimi anni — col mio approdo a Roma — era diventata implicita, ma era rimasta costante. Merita, però, di essere citato l’ultimo ricordo, un breve scambio telefonico di non molto tempo fa. Ormai la voce, che era risuonata per decenni con la sua tipica pacatezza e un’amabile inflessione lombarda, una voce che è ancora nell’orecchio della folla di coloro che l’hanno ascoltato, si era ridotta a un filo esile.

Eppure si sentiva vibrare ancora forte proprio la Parola per eccellenza: avevamo, infatti, parlato solo di temi esegetici ed ecclesiali. In uno dei suoi libri, La brocca dimenticata (1999), dedicata ai dialoghi di Gesù, aveva scritto una frase a prima vista sorprendente: «La verità della testimonianza di fede è la sua capacità di rinviare». Essa non si rinchiude in se stessa e nell’io, ma rimanda a un Altro e a un Oltre trascendente, ossia a Dio, a Cristo e alla Parola. Don Bruno Maggioni è stato la mano che con la sua penna svelava la ricchezza del testo sacro a molti, attraverso i suoi libri e gli innumerevoli articoli di giornali e riviste, è stato la voce che comunicava il fremito della Parola divina che consola ma anche inquieta le coscienze, è stato il compagno di viaggio di tante persone in ricerca, alle quali offriva — come suggeriva il Salmista (119, 105) — nella Bibbia la lampada che rischiara i passi nella notte e nel cammino quotidiano della vita.