Catania. Il nuovo Vescovo Luigi Renna: vorrei essere un vescovo di popolo

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La post pandemia le emergenze sul territorio, gli esempi di Romero e Bello, il Cammino sinodale Parla il nuovo pastore di Catania

Come primo atto pubblico ha scelto l’incontro con i detenuti del carcere di Bicocca. Perché – spiega – «dobbiamo prendere sul serio il Signore quando dice che gli ultimi sono i primi nel suo Regno. E poi non ci sono periferie per una Chiesa che è popolo di Dio e cammina alla sequela di Cristo». Monsignor Luigi Renna, 56 anni, è il nuovo arcivescovo di Catania. Nell’omelia di insediamento, lo scorso 19 febbraio, ha citato la “Lettera a Diogneto” in cui si riflette sulla presenza dei cristiani nel mondo, cittadini e al tempo stesso stranieri, perché il loro riferimento è un Regno senza confini. «Sono venuto qui – spiega – da persona che si sente già nella sua patria ma anche con una prospettiva che va oltre, quella di chi vuole camminare con il suo popolo verso ciò che il Signore indica oggi, in un momento storico caratterizzato da grandi sfide. Penso in particolare alla post pandemia, e speriamo sia davvero “post”, e alle sue ricadute ecclesiali e sociali». Per Renna, Catania rappresenta letteralmente l’inizio di una vita nuova. Pugliese di Corato, nell’arcidiocesi etnea è arrivato dopo aver guidato per sei anni la Chiesa di Cerignola-Ascoli Satriano. In pratica non si era mai allontanato dalla sua regione d’origine. «Ma devo dire che vivo questa esperienza con grande serenità, poiché faccio tesoro del percorso svolto finora e della calda accoglienza dei catanesi e dei vescovi della Sicilia».

Pur nella necessità di un periodo di ambientamento, immagino che la sua agenda pastorale stia iniziando a riempirsi. Si tratta di individuare i problemi più acuti presenti sul territorio. Sotto il profilo socio-ambientale, la stampa locale denuncia, per esempio, l’annoso problema dello smaltimento dei rifiuti.
Credo che ci siano alcune emergenze. A partire dalla necessità di una politica che abbia una visione a 360°, quindi collochi anche problemi emergenziali come quello dei rifiuti in una progettualità da far avanzare in maniera decisa. Si tratta di rivalutare Catania, anche al di là dei momenti esaltanti legati alla festa di Sant’Agata. C’è il tema rifiuti, c’è la questione educativa, c’è un’emergenza che riguarda lo stato delle periferie. E non dobbiamo dimenticare quante risorse naturali e ambientali si sprechino. Catania è tra i primi comuni capoluogo per la perdita di acque potabili dalle condutture.

Di fronte a questi problemi, il vescovo cosa fa?
Annuncia e denuncia secondo quanto indica la Dottrina sociale della Chiesa. Annuncio e denuncia vanno sempre insieme. Si tratta però di camminare come popolo. Se ci fosse solo la mia voce, sarebbe una sconfitta. Occorre invece che i laici si sentano protagonisti, bisogna coscientizzare e consapevolizzare. Il mio compito è aiutare a prendere possesso di determinate emergenze, a fare discernimento per poi, appunto, camminare.

Nell’omelia della Messa d’ingresso a Catania, lei ha citato san Oscar Arnulfo Romero e la definizione che ne diede don Tonino Bello: “un vescovo fatto popolo”.
È un’immagine che mi accompagna da sempre, dal periodo della formazione a Molfetta, diocesi di cui era vescovo appunto monsignor Bello. Nessuno parlava del martirio di Romero come lui. Per noi seminaristi significava dirigere lo sguardo non solo a una Chiesa che sembrava lontana, ma anche a una diversa modalità di vivere il proprio ministero. Anche l’immagine che utilizza papa Francesco, quella di “puzzare di gregge”, io l’ho sentita per la prima volta da monsignor Bello quando annunciò la nomina del nostro rettore, in quegli anni, monsignor Superbo. Gli augurò di essere «un vescovo che profuma di popolo ». Adesso io ho la possibilità di realizzare quell’immagine. Naturalmente con la gente che vorrà aiutarmi. Lei ha anche ricordato un grande vescovo catanese, il beato Dusmet. Una figura che si sposa con il suo motto episcopale: edificare nella carità. Un’espressione tratta dalla Lettera agli Efesini in cui l’edificare ancora una volta coinvolge tutto il popolo di Dio e non solo il vescovo. Dusmet ha avuto due grandi attenzioni. La prima, ai segni dei tempi. Da benedettino ha dovuto lasciare il suo monastero e non si è ribellato, ha accettato con grande serenità quel momento di spoliazione dei beni, che forse era utile a una Chiesa troppo ricca e troppo concentrata su se stessa. L’altra attenzione è stata proprio ai poveri, nel senso della condivisione. Al centro di Catania c’è un monumento a Dusmet che lo presenta con questa sua frase: «Sin quando avremo un panettello, noi lo divideremo col povero».

Siamo in una stagione particolare della Chiesa, quella sinodale. Lei che aspettative ha e come lavorerà in questo senso?

La prima cosa che ho fatto, anche su suggerimento del mio predecessore monsignor Salvatore Gristina, è stata convocare il vicario generale, il vicario per la pastorale e referente per il Cammino sinodale in modo da impostare i tavoli sinodali per la Quaresima. Si tratta di iniziare a confrontarsi su quello che è il primo nucleo tematico. Durante la Quaresima, ma anche oltre, incontrerò i sacerdoti e subito dopo i consigli pastorali parrocchiali dei vicariati. Ho deciso di partire così perché credo che ci debba essere quasi un contagio che ricade sul popolo di Dio. Senza fretta, ma dobbiamo iniziare, perché è molto importante consegnare la nostra voce, le nostre esperienze in vista del prossimo Sinodo sulla sinodalità.

Prima di diventare vescovo lei è stato rettore di Seminario. Alla luce di quell’esperienza, nella formazione dei futuri sacerdoti a cosa si deve guardare in modo particolare?
Bisogna puntare molto su una formazione umana che dialoghi con quella spirituale, che tante volte invece diventava un alibi per bypassare ilcambiamento, la trasformazione interiore. Così si potevano avere sacerdoti con una buona spiritualità ma molto deboli nelle relazioni. Naturalmente c’è anche la dimensione culturale ma se la formazione non non riesce a fare di un presbitero un uomo che si relaziona con il Signore con grande passione e fede, e con il popolo di Dio con grande libertà interiore e senso di paternità, vuol dire che quella formazione ha fallito.

Mi sembra di capire che lei guardi oltre il Seminario.
La formazione non si conclude nei sei anni che preparano al sacerdozio ma prosegue dopo. Ci sono anche il popolo di Dio e la pastorale a dare una dimensione nuova al nostro ministero. Penso all’importanza dell’ascolto su cui sofferma spesso il Papa. Alla luce del Concilio ci è chiesto il primato dell’evangelizzazione con una forte attenzione alla dimensione educativa, non solo a quella spirituale.