Cei. Meini: torneranno le Messe aperte ma ci saranno da fare sacrifici

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Parla il vescovo di Fiesole e vice-presidente della Cei. «Le celebrazioni con il popolo non saranno subito come prima. Servirà responsabilità. Torniamo a vivere anche Confessioni, Battesimi e Cresime»
«È lo Spirito Santo che ci consente di declinare il Vangelo in ogni circostanza, anche nella prova. Ed è lo Spirito Santo che ha permesso e permetterà alla Chiesa, compresa quella italiana, di adattarsi alla complessità del nostro tempo: in questo caso, il tempo della pandemia e presto del dopo pandemia». Parla con voce pacata il vescovo di Fiesole, Mario Meini, vice-presidente della Cei per l’Italia centrale. Sulla scrivania del suo studio ha sempre il computer acceso. E il cellulare continua a squillare. «Nonostante la clausura forzata – racconta il vescovo – le giornate sono comunque intense e le relazioni proficue: non dal vivo, naturalmente, non potendo incontrare le persone o visitare le comunità, ma grazie alla tecnologia. Con le email, con il telefonino, con i messaggini, persino con le videoconferenze». Inclusa la “call” per partecipare all’ultimo Consiglio permanente della Cei durante il quale si è discusso della “fase 2” nella Chiesa italiana. «Ci aspettiamo una ripartenza anche ecclesiale, mi viene da dire. Ma non immaginiamoci che tutto torni immediatamente come prima. Saremo costretti a ulteriori sacrifici: sacrifici nella liturgia, nell’evangelizzazione, nella testimonianza della carità», osserva Meini.

In cima alla lista c’è la possibilità di riprendere a celebrare i funerali in chiesa e l’Eucaristia assieme alla comunità. Con una serie di accorgimenti ancora da definire: dal rispetto delle distanze anti-contagio alle modalità di distribuzione della Comunione. «La “fase 2” sarà lunga – afferma il vice-presidente della Cei – e richiederà un grande senso di responsabilità. Però il Paraclito non ci abbandona. Se ci ha sostenuti nel fronteggiare l’emergenza durante il suo momento più acuto, lo farà anche in seguito».

Eccellenza, che cosa si prospetta per le parrocchie della Penisola? Il punto di partenza saranno le liturgie con il popolo.

Quando verranno varate indicazioni precise, potremo capire come comportarci. Dobbiamo auspicare il meglio ma faremo di necessità virtù. Mi auguro che le Messe si possano “riaprire un po’ di più”, se mi è consentita questa espressione: ossia, che si torni a celebrare alla presenza della nostra gente. Tuttavia è chiaro che non ci sarà permesso di avere le chiese affollate. Occorrerà rispettare con prudenza, fermezza, saggezza e attenzione le disposizioni di sicurezza e le regole che ci saranno. Poi spero riprendano progressivamente nelle parrocchie le iniziative pastorali per tornare a guardarci negli occhi. Anche nel nuovo frangente saremo chiamati ad aiutarci da buoni fratelli gli uni con gli altri.

L’impossibilità di avere funerali “pubblici” ha creato smarrimento. È una priorità celebrarli di nuovo?

Sicuramente. Lo ha anche evidenziato con avvedutezza il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, nell’intervista ad Avvenire. Ritengo che siano importanti le esequie in chiesa. Dobbiamo cercare il prima possibile di tornare a pregare insieme anche per i defunti. La scelta di limitarsi alle benedizioni al cimitero è stata fonte di sofferenza. Come sacerdoti abbiamo cercato di rimediare facendoci vicini ai familiari e ai parenti, ma non può bastare.

Il Papa ha affermato che le Messe sul web o in televisione sono per una situazione di difficoltà. Ma la Chiesa è con il popolo

Il Pontefice ci ricorda che siamo in un tunnel e che piano piano ne usciremo fuori. Tuttavia, dal momento che ci troviamo ancora all’interno, anche alcune eccezioni pastorali sono come un raggio nell’oscurità. I sacramenti fanno la Chiesa. L’Eucaristia è la fonte e il culmine. Ma non possiamo dimenticare il sacramento della Riconciliazione, il Battesimo, la Cresima, il Matrimonio che in queste settimane non abbiamo potuto vivere. Ecco perché occorre andare oltre.

La decisione della Chiesa italiana di celebrare le Messe “a porte chiuse” non è stata certo sinonimo di arrendevolezza.

È stato un atto di responsabilità e soprattutto di carità. Preferisco dire che in queste settimane abbiamo avuto l’Eucaristia senza il popolo, come tra l’altro è previsto nel Messale. Così, mentre la gente restava nelle proprie case, anche la Chiesa ha scelto di vivere i sacramenti in maniera diversa. Ma è rimasta accanto a tutti. Penso all’attenzione verso gli anziani chiusi fra le mura domestiche, verso le famiglie riunite attraverso i mezzi di comunicazione e la Rete, verso i malati accompagnati con la preghiera, verso i giovani abbracciati con i social. Tutto ciò è stato merito dei sacerdoti, ma anche di religiose e religiosi e di tanti laici. Ritengo che la gente non abbia percepito la lontananza della Chiesa. Anzi, l’ha sentita prossima nel dolore e nella preoccupazione. E il gesto di papa Francesco di benedire il mondo da una piazza San Pietro vuota evoca in modo straordinario sia l’immagine delle panche deserte nelle nostre parrocchie, sia la presenza viva della comunità ecclesiale in questa drammatica congiuntura.

Quale lezione dall’emergenza sanitaria?

La pandemia è sofferenza. Spetta a ciascuno di noi trarne uno o più insegnamenti. Anzitutto, abbiamo toccato con mano la nostra precarietà. Siamo mortali. Dobbiamo affliggerci per questo? No, sicuramente. Anche perché il cristiano ripete nel Credo: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”. Se ci dimenticassimo tutto ciò, vana sarebbe la nostra fede. Poi direi che un contesto così critico ci invita a recuperare l’essenziale. Dovremmo chiederci: che cosa conta nella vita? E, a mio parere, l’essenziale sta nell’appoggiarsi al Signore per servire il prossimo. Se riusciremo a imparare qualcosa, avremo usufruito bene di questo tempo. Se saremo stati arrabbiati o agitati, se prevarrà il senso di rivendicazione, avremo perso un’occasione di grazia.

Già aumentano le povertà in Italia. Ed è scattato l’allarme lavoro. Si preannuncia travagliata la ricostruzione “post virus”?

Purtroppo sì. Come Chiesa saremo chiamati a far crescere la carità concreta. La solidarietà verso tutti è imperativo evangelico ed è un punto fermo della Dottrina sociale. Davvero dovremo vivere il comandamento dell’amore nel tempo problematico che verrà. È la missione di noi credenti. E saremo a servizio del Paese che vuole ripartire.