«Così custodiremo il dono di Bose. Profezia che la Chiesa vuole rilanciare» (intervista a padre Amedeo Cencini)

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Parla padre Amedeo Cencini, incaricato di attuare il decreto della Segreteria di Stato: tutta la comunità ecclesiale è impegnata, in spirito di fraternità, a ricomporre punti di vista diversi

Tante parole sono state spese su Bose in questi mesi. Alcune coerenti. Altre meno. Difficile districarsi nella complessità della vicenda che ha coinvolto la comunità e il suo fondatore, Enzo Bianchi. Meglio quindi lasciare la parola a chi conosce davvero i fatti. Come padre Amedeo Cencini, delegato apostolico a Bose. Cioè colui che, dopo esserne stato visitatore apostolico, è ora incaricato di attuare il decreto della Segreteria di Stato, «approvato in forma specifica dal Papa». Importante perché, come sottolinea il religioso, psicologo e psicoterapeuta, quella di Bose è oggi una vicenda che riguarda la Chiesa intera.

Alcuni sostengono che il vero motivo dell’allontanamento di Enzo Bianchi sia la volontà della Chiesa di ridimensionare il ruolo della comunità e il suo carisma profetico. È così?

So che alcuni commentatori, con non tanta fantasia, sono tornati al vecchio e obsoleto schema della contrapposizione tra istituzione e carisma, tra autorità e profezia. Ma posso assicurare che non è assolutamente così. Non lo è perché diversa è la volontà della Chiesa e della Segreteria di Stato in questa vicenda, più volte esplicitata, ed evidente anche nella Lettera al Priore del cardinale Pietro Parolin, in cui si invita a recuperare e vivere in pieno i valori carismatici di Bose, quei valori che la comunità di Bose ha messo al servizio della vita della Chiesa e delle Chiese in questi anni, e che tanto bene hanno fatto a tantissime persone, credenti e non credenti che in questa comunità hanno ritrovato la fede o un modo più autentico di viverla. Potrei citare qui alcuni di questi valori: l’apertura ecumenica (a Bose non si prega semplicemente per l’unità dei cristiani, ma si fa ecumenismo), la bellezza della liturgia (l’orazione di questa comunità è svelamento di bellezza, della bellezza di Dio), la forma profetica di vita monastica (Bose cerca di tradurre una certa sapienza e stile di vita monastici in sapienza e stile attuali, eloquenti per l’uomo e la donna di oggi). Né io, a livello personale, mi sento un riformatore e mandato a operare una riforma. Ho sempre apprezzato Bose e il suo spirito, il Fondatore e la comunità, e intendo solo dare il mio apporto perché Bose continui a essere punto di riferimento per tanti, dentro e fuori della Chiesa, superando questo momento difficile.

Nel decreto del maggio scorso si spiegano i motivi del provvedimento con la volontà di riportare serenità tra i membri della comunità. Non sarebbe stato possibile raggiungere lo stesso obiettivo lasciando Bianchi a Bose?

Credo che questa possibilità sia stata la prima a esser presa in considerazione da chi ha steso il decreto. Se non è stata adottata significa che s’è ritenuto che il tipo di problemi e tensioni all’interno della comunità, con la sofferenza conseguente, fosse tale da consigliare un altro tipo di intervento. Certamente doloroso, specie per i quattro che sono i primi destinatari del decreto, persino eccessivo se visto dall’esterno. Ma qui occorrerebbe entrare all’interno del vissuto di questa comunità e ripercorrerne la storia dagl’inizi, in particolare quella dell’ultimo ventennio. Oltre questo va detto che Bose si trova in un momento che molte volte è stato critico e addirittura divisivo per molte giovani istituzioni: quello del passaggio dal Fondatore (col suo carisma) alla comunità, e in particolare a chi ne prenderà il posto nella guida comunitaria e pure nella lettura del carisma. È una crisi fisiologica e naturale, in cui è bene per la comunità stessa muoversi da sola, così come è bene per il Fondatore prenderne le distanze (come molti Fondatori hanno fatto).

Si parla molto, giustamente, delle sofferenze sopportate da Enzo Bianchi. Del tutto comprensibile, trattandosi di un uomo di 77 anni con alcuni inevitabili acciacchi che viene chiamato ad allontanarsi dalla sua residenza. Non si parla mai però delle sofferenze vissute dagli altri membri della comunità, quasi 90 tra fratelli e sorelle, che hanno manifestato una posizione molto esplicita nella vicenda. È vero che alcuni di loro, proprio a causa della difficoltà di arrivare ad una soluzione equilibrata, sono alle prese con varie sofferenze psicologiche?

La ringrazio di questa domanda che tocca un punto molto importante e delicato. Molti riducono la vicenda Bose a una questione di disposizioni disciplinari per alcune persone, ignorando in pratica la comunità. O sono turbati, e giustamente come dice Lei, dalla sofferenza di chi è colpito direttamente dalle sanzioni del decreto, ma senza alcuna attenzione a una sofferenza che a Bose è presente da anni, e che forse per molto tempo è rimasta come sotto traccia, non considerata, e che invece va riconosciuta e com-patita. L’attenzione deve andare in entrambe le direzioni. È proprio per questo che stiamo lavorando con tutta la fraternità, a livello individuale e comunitario, e non solo per accogliere e “curare” questo dolore, ma per eliminarne il più possibile le radici.

Pensa che il ruolo propositivo avuto da Bose in questi decenni, dal dialogo ecumenico, alla spiritualità al ruolo della vita consacrata, dovranno essere rivisti nella “nuova Bose” che nascerà dall’applicazione del decreto?

Anzitutto non mi pare adeguato parlare di una “nuova Bose” che dovrebbe nascere; la Lettera del segretario di Stato al priore e alla comunità – documento distinto dal decreto riguardante il Fondatore e gli altri due fratelli e la sorella di cui s’è chiesto l’allontanamento – mira non a creare una “nuova Bose”, ma a un riconoscimento del carisma fondativo di Bose e a un suo adeguamento anche formale all’evoluzione storica conosciuta in questi cinquant’anni di esistenza. Riconoscimento che dunque, e lo ribadiamo, nasce da una volontà della Chiesa questo dono permanga. Ogni istituto, per altro, è chiamato a vivere in uno spirito costante di attenzione al dono ricevuto, perché esso sia fedele all’ispirazione originaria e assieme sia in sintonia con la storia, della Chiesa e dell’uomo. A volte questo lavoro comporta anche la fatica della composizione di punti di vista diversi, ma certamente è un lavoro importante e da affrontare con coraggio. Ma che non vuol dire alcuno stravolgimento, questo dev’esser chiaro. Ed è pure il lavoro che dovremo portare avanti anche a Bose, ben consapevoli che qui c’è un dono straordinariamente fecondo e attuale, che ha già dato frutti e che, sono certo, ne darà ancora.

Non crede che l’accoglienza in spirito di obbedienza della volontà espressa da papa Francesco per il bene di Bose e del suo futuro finirebbe per tradursi in benefici spirituali per la stessa comunità, mentre questo lungo confronto sclerotizzato rischia di aprire la strada a un disagio che investe l’intera comunità ecclesiale?

Certamente, perché obbedire vuol dire ascoltare la realtà, imparare a leggere in ogni frammento di vita o in ogni relazione i segni del divino, vuol dire fidarsi così tanto di Dio da fidarsi anche delle sue mediazioni umane, non presumere di sé, esser liberi d’accogliere un punto di vista diverso dal proprio, entrare nella logica del mistero… L’accoglienza in spirito d’obbedienza gioverebbe a tutti e a ognuno, chiarendo che a questa obbedienza sono chiamati non solo, di nuovo, i destinatari primi del decreto, ma tutti. E se si tratta d’una obbedienza difficile, è proprio la storia a raccontarci che laddove l’adesione è più faticosa e complessa, lì c’è ancor più grazia e benedizione, per chi – obbedendo – s’è fidato e affidato, e per la comunità intera. Molte volte le cose più belle e importanti son venute proprio dalla disponibilità “obbedienziale” di chi ha accettato di dire di sì a qualcosa di difficile da capire (pensiamo a Maria). Allora ne viene un bene per la Chiesa tutta. Anche per questo la vicenda Bose oggi è sempre più vicenda ecclesiale.

Una crisi che arriva da lontano

La crisi di Bose non nasce in questi mesi. Già nel 2014 l’allora priore Enzo Bianchi cerca di affrontarla chiedendo aiuto a due esperti di vita monastica. Ma gli esiti non sono quelli sperati. Il problema non si risolve neppure quando, nel gennaio 2017, Bianchi lascia la guida della comunità a Luciano Manicardi. È la comunità stessa, quasi 90 tra fratelli e sorelle, a chiedere l’aiuto della Santa Sede per fare un po’ di chiarezza. Così tra il 6 dicembre 2019 e il 6 gennaio 2020, tre visitatori apostolici – il benedettino padre Guillermo Leon Arboleda Tamayo, l’abadessa di Blauvac, madre Anne-Emmanuelle Devêche e il canossiano padre Amedeo Cencini – arrivano a Bose e per un mese ascoltano tutti i membri della comunità. Dalla loro relazione nasce il decreto della Segreteria di Stato che il 13 maggio impone a Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lino Breda e Antonella Casiraghi di allontanarsi dalla comunità pur continuando a rimanerne membri. Padre Amedeo Cencini, nominato delegato apostolico, deve dare attuazione al documento vaticano. Una trattativa difficile, ma il delegato pontificio e la comunità «sono fiduciosi che la situazione possa sbloccarsi al più presto».