Don Ciotti: l’amore non basta. Per rialzarsi serve giustizia

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Il fondatore di “Libera” si racconta in un libro: il rischio è desiderare il ritorno a una normalità che era molto malata ben prima dell’arrivo del virus. Il crimine trova sempre nuove occasioni…
Eh no, l’amore non basta. Per occuparsi degli altri è una base troppo fragile. Strano, per la parola più scontata, quella che mette d’accordo tutti: l’amore è indiscutibilmente una cosa bella. Ma don Luigi Ciotti scontato non è mai, e L’amore non basta è il titolo che dà al suo ultimo libro (Ed. Giunti, 320 pagine, 18 euro) per ribadire fin dalla copertina che “occorre invece il sentimento di giustizia”, ossia “quel sentire sulla pelle le ferite degli altri che impedisce l’indifferenza, il giudizio e il pregiudizio”. E ti fa sentire “ogni forma di vita degna della massima cura”, anche quando la vita non è quella umana.

E’ un libro che racconta i 75 anni di don Ciotti ma non è un’autobiografia, che ripercorre i 55 anni del Gruppo Abele in soccorso degli ultimi e i 25 anni di Libera nella guerra alle mafie ma è molto di più, l’autore la definisce con un ossimoro una “autobiografia collettiva”. Con la scorrevolezza di un romanzo e la passione di chi ha attraversato nei decenni la storia del nostro Paese, il sacerdote bellunese, immigrato da piccolo a Torino al seguito di genitori poveri, presenta così una galleria di personaggi, noti o sconosciuti, tutti capaci di lasciare un solco profondo, un tempo nella sua formazione e ora nella coscienza di chi legge.

Don Luigi, perché l’autobiografia di un noi e non di un io?
Perché l’io non offre un punto di vista sufficientemente ampio per raccontare una vita. L’io è uno strumento, non un fine, come vogliono farci credere l’individualismo e l’egocentrismo diffusi. È essenzialmente uno strumento di relazione. «Tutto è connesso», ripete papa Francesco nella Laudato si’ e io in fondo ho avuto una vita privilegiata, costellata e nutrita da una miriade di incontri, relazioni, esperienze. Per questo per raccontarla non potevo che raccontare quel “noi”. Perciò parlo di “autobiografia collettiva”, definizione che può sembrare contraddittoria ma non lo è.

Tra i personaggi spicca don Tonino Bello. Che rapporto vi ha uniti?
Conobbi don Tonino Bello negli anni ‘80 a Verona in occasione di un incontro. Subito capii che quell’uomo mite, umile, generoso, incarnava l’idea di Chiesa nella quale anch’io mi riconoscevo. Una Chiesa non solo per gli ultimi, ma con gli ultimi, immersa nel mondo però svincolata dalle sue logiche di potere. «La Chiesa è per il mondo, non per sé stessa», usava dire. E ancora, «ai segni del potere si sostituisca il potere dei segni». Spesso mi raccontava di un amico senza dimora, o meglio con una dimora ridotta ai minimi termini: una scatola di cartone che don Tonino definiva «un ostensorio, contenitore di frammenti di santità». Si chiamava Bartolo e viveva vicino al Vaticano… probabilmente ha sempre ignorato che quel signore che passava ad ascoltarlo non era un sacerdote fra i tanti ma un vescovo. La santità della povera gente era il suo primo Vangelo, anzi considerava la povertà come una condizione imprescindibile per viverlo appieno. Da qui nasceva il suo messaggio radicale e scomodo, nell’epoca di un benessere fondato sui consumi: saranno i poveri a salvare noi, non certo il contrario. Durante gli anni della nostra amicizia, don Tonino accompagnò da lontano il cammino del Gruppo Abele. Aveva dieci anni più di me e uno spessore umano e spirituale immenso, sapeva cogliere in profondità le situazioni e restituirne il senso con finezza di poeta, il suo era un parlare profetico da cui discendevano sempre azioni di coraggiosa coerenza. Per questo era per me un riferimento importante, una specie di fratello maggiore. Alla sua morte, i fratelli Marcello e Trifone mi hanno voluto consegnare la sua stola e ogni volta che la indosso, con timore e tremore, sento che è davvero l’“ala di riserva” che a volte ci manca, l’ala che permette a ciascuno di noi di spiccare il volo.

Colpisce anche Roberto Antiochia, agente di 23 anni: quando la mafia ha ucciso il commissario Montana, ha chiesto di essere trasferito in prima linea a Palermo. Solo una settimana dopo è stato assassinato nell’attentato al vicequestore Cassarà. Quale forza determina una generosità così estrema?
Innanzitutto la passione per la sua professione, fare l’agente di polizia non è una cosa semplice, richiede un forte senso di responsabilità. Roberto prende coscienza che il cambiamento avviene solo se ciascuno dà il contributo di se stesso. E poi l’affetto profondo per i due uomini che erano stati i suoi superiori e maestri. Trasferito a Roma da mesi, Roberto torna a Palermo per il funerale di Montana e lì si accorge che anche l’altro commissario Cassarà è minacciato, il clima è pesante e volontariamente chiede di essere riaggregato. E’ segno di grande amore. L’amore non basta, se non si impregna di questa dimensione di giustizia e se non si prova questa empatia per le ingiustizie altrui. Le ferite degli altri Roberto le sentiva sulla propria pelle come fossero sue.

Il libro racconta molti episodi della sua famiglia di origine. Quanto ha influito sulla sua scelta di diventare prete?
Di fatto non più di tanto, perché è stata una scelta molto intima e personale. Una scelta che ha colto i miei genitori un po’ di sorpresa, perché nata da una vocazione improvvisa e imperiosa, dopo diversi anni passati sulla strada con i giovani fragili delle periferie torinesi. Posso però dire che in casa avevo respirato fin dall’infanzia la fede che poi ho vissuto da sacerdote: concreta, incarnata nei gesti del quotidiano, aperta all’accoglienza. Non eravamo una famiglia agiata, tutt’altro, eppure per i miei l’attenzione ai poveri, a chi materialmente stava ancora peggio di noi, è sempre stata fondamentale.

Papa Francesco ha detto che da questa emergenza del Covid potremo uscire migliori o invece molto peggiori. Che cosa pensa di come la pandemia ci ha imposto cambiamenti anche duri? E di come le mafie si stanno infiltrando nella ripresa, approfittando nei vuoti lasciati dallo Stato?
I cambiamenti “imposti” – per decreto o dalle contingenze – non sono mai veri cambiamenti ma adattamenti. I cambiamenti veri partono da dentro, da un processo interiore spesso tormentato che per consolidarsi, diventare realtà, ha bisogno di molto impegno, autodisciplina, anche coraggio. Si tratta di osare, di incamminarsi per sentieri nuovi, di rinunciare a sicurezze e abitudini. Questo è quello che bisognerà fare passata l’emergenza sanitaria, se vogliamo contrastare e, se possibile, eliminare le ingiustizie che la pandemia non ha prodotto ma solo messo in evidenza. «Peggio della crisi c’è solo il dramma di sprecarla», ha detto Papa Francesco, e ha ragione. Il rischio è desiderare il ritorno a una “normalità” che era molto malata ben prima dell’arrivo del virus. Anche le mafie sono insediate in mezzo a noi da prima della crisi, la presenza criminale non è a margini ma nelle fessure della nostra società, e il crimine trova sempre nuove occasioni di potere causa l’osmosi tra legale e illegale: da un lato mafie flessibili, imprenditrici e sempre più globali, dall’altro la corruzione e “mafiosizzazione” di parti di società e di poteri che le rappresentano. È un processo iniziato da decenni: le mafie hanno tratto massimo profitto dalla globalizzazione delle merci e delle finanze, dal cosiddetto “neoliberismo” economico, un sistema che ha prodotto molte zone grigie tra economia legale e illegale. Da anni Libera denuncia che le mafie non sono un mondo a parte ma parte del nostro mondo, e che la forza delle mafie sta fuori dalle mafie: nella rete di collusione e corruzione che permette loro di diffondersi. Oggi è necessario non allentare le misure di prevenzione e di controllo antimafia e anticorruzione che qualcuno vorrebbe eliminare in nome della “deburocratizzazione”, di una pur necessaria semplificazione delle procedure burocratiche e amministrative.

Lei è nato tra le montagne del Cadore ma presto è approdato nelle periferie metropolitane. Qual è il suo luogo dell’anima?
Se per luoghi dell’anima s’intende quelli in cui ritroviamo la nostra origine ma anche riconosciamo il nostro destino, di certo le montagne, le Dolomiti in particolare: il mio primo orizzonte emotivo ed esistenziale, le mie radici e le mie ali. Poi certamente la “strada”, la parrocchia che mi affidò padre Michele Pellegrino ordinandomi sacerdote, per me il luogo di un Vangelo radicalmente vissuto nel tentativo di saldare il Cielo e la Terra. “Strada” che mi ha permesso di incontrare Dio nella vita delle persone, perché lì ci sono i frammenti di Dio. Luoghi dell’anima sono quindi tutte le realtà di accoglienza e di sostegno per le persone più fragili, ma anche i monasteri di clausura dove ho potuto pregare immerso in quel profondo silenzio che risuona di Dio e rende il dialogo con Lui particolarmente intenso.

Come prega un don Ciotti?
Per me la preghiera è un grande desiderio di novità di vita, continuamente inventarsi cose nuove per rispondere ai bisogni delle persone, perché oggi è in corso un cambiamento epocale che impone a tutti una grande trasformazione, un cambio di rotta e di paradigmi per rimettere con forza la persona al centro. E poi la mia preghiera sono le preghiere degli amici che ho avuto il privilegio di incontrare, i complici di Dio, David Turoldo, Tonino Bello, gli amici di Romena, Carlo Maria Martini: attingo alle poesie e alle riflessioni di altri. Infine – può sembrare scontata – il Padre Nostro, la preghiera di Gesù: la dico sempre volentieri, primo perché gli è nata dentro, spontanea, e poi perché sento bisogno che sia il Padre di tutti. Prendo le distanze da quelli che lo vogliono privatizzare, questo Padre. E’ una preghiera scomoda, difficile, “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”… io sono il primo e molte volte mi arrampico sui vetri. E poi sì, sia fatta davvero la Sua volontà.

Dopo i luoghi, l’oggetto dell’anima.
Ha riempito la mia vita un piccolo Gesù scolpito in legno che mi ha donato padre Pellegrino quando ormai era molto malato. A lui che era uomo di Parola l’ictus aveva tolto la parola, ma capiva tutto, bastavano piccoli gesti. Anche la mia vita è stata un oscillare tra gli affanni quotidiani e il silenzio, che poi è la dimensione profonda che sento tutta mia: nella mia vita di azione la preghiera è fondamentale, è la dimensione che vivo nella riservatezza, è il mio telefonare a Dio.

Risponde sempre?
A volte tira la corda, eccome se la tira, quante attese, quante preoccupazioni, anche perché viviamo un tempo difficile. E’ assurdo ma per fare un servizio alla collettività dobbiamo inventarci di tutto. Ho visto banche che hanno stanziato milioni dalla sera alla mattina per progetti inutili, e il terzo settore viene dimenticato. Ma non mi scoraggio, quando meno te l’aspetti il Padre Eterno ti manda dei segni che sono inequivocabili.

Benedetto XVI, intervistato da un bambino che gli chiedeva come si immaginasse il Paradiso, rispose che lo desiderava abitato dai suoi genitori e dalle persone care. Com’è il suo di Paradiso?
Non ne ho idea, non ho potuto farmela, anche perché mi confronto quotidianamente con i miei limiti, le mie contraddizioni. Spero di esserne degno… Invece ho una precisa cognizione dell’inferno terrestre. Delle dure, a volti atroci sofferenze di chi viene umiliato, scartato, perseguitato. Di chi nei propri simili trova non fratelli, ma aguzzini spietati o spettatori indifferenti e “neutrali”. Di chi ha ricevuto non abbracci e riconoscimento, ma giudizi e pregiudizi. Guardiamo alle storie dei migranti… Un’idea di Paradiso me la sono fatta quando ho visto una di queste persone rialzarsi e ritrovare la speranza dopo aver ricevuto affetto, comprensione, disponibilità, opportunità di vero lavoro e giusto guadagno. Ecco, nella luce di certi sguardi illuminati dalla speranza ritrovata, mi è sembrato di cogliere quella del Paradiso.