Don Tonino Bello, santo e scomodo come lo spazio che va dato a Dio

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La ricetta della santità è chiara, quasi banale. Consiste nel svuotarsi di se stessi per farsi abitare dall’amore di Dio. Sembra una formula astrusa, in realtà è un progetto concretissimo. Tanto reale quanto difficile. Tutto un togliere, un liberare spazi, un fare passi indietro dal palcoscenico del mondo.

Monsignor Antonio, o meglio “don Tonino”, Bello, di cui ieri la Chiesa ha riconosciuto le virtù eroiche indicandolo come Venerabile, si è immerso in quel fiume di grazia che va controcorrente, sin da bambino. A partire dal nome, cui preferiva il diminutivo, fino a un’autodefinizione arida per quanto poetica: Io – scrisse – sono «un buono a nulla. Ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona a Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta intorno».

Lui se apriva gli occhi si trovava accanto i poveri, gli abbandonati, il popolo dei dimenticati. Uomini e donne che bussavano alla sua porta prima di parroco, poi di vescovo con la certezza di trovarla aperta e di avere un cuore disponibile ad ascoltare il loro, dando un nome alle angosce che ne appesantivano la vita. Erano proprio i piccoli, gli “ultimi”, i veri protagonisti della Chiesa del grembiule, secondo una fortunata immagine, quella che ai segni del potere preferisce il potere dei segni. Stola e grembiule, aggiungeva, «sono il dritto ed il rovescio dello stesso paramento sacro: la stola che ci fa ministri del Vangelo ed il grembiule che ci fa “lavapiedi del mondo”».

Eccola la gloria dei figli di Dio, con le mani sporche di fatica e rinunce per lasciare pulito il cuore. In ginocchio ore e ora davanti al tabernacolo, così da avere la forza di vincere i pregiudizi, di alzarsi ogni giorno con il sorriso sul viso, di superare le critiche invidiose di chi lo trovava sempre fuori posto. E certo non lo potevi considerare un uomo tranquillo, don Tonino. Era scomodo come gli auguri di quel Natale in cui chiese a Gesù di dare ai suoi amici «la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali», sollecitandoli invece a inventarsi un’esistenza «carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio».

Lui dal canto suo, docile alla creatività dello Spirito, non stava mai fermo costruendo minuto dopo minuto il Regno della mitezza e del dialogo, adoperandosi nello scandaloso a avversato progetto di realizzare la pace come convivialità delle differenze. Che significa mangiare il pane insieme con gli altri, intesi come volti da scoprire, da contemplare, da togliere dalle nebbie dell’omologazione e dell’appiattimento.

Un amore per l’uomo, per ogni uomo, che gli diede le forza di gesti estremi come il pellegrinaggio del 1992, quand’era già malato di cancro, da Ancona a Sarajevo ostaggio della devastante guerra fratricida, con l’ultimo tratto, iniziato a Spalato, percorso a piedi. E poi il discorso nel cinema illuminato solo dalle candele, perché mancava l’elettricità, con l’invito alla «nonviolenza attiva», ideale continuazione dell’appello gridato nel 1989: «In piedi, costruttori di pace».

Chi ha il cuore pieno di Dio, infatti, non può chinare la testa davanti alla rabbia e alla vendetta. Ti guarda negli occhi per trovare uno spiraglio in cui infilare lo sguardo del perdono e una lacrima di misericordia. Nella consapevolezza che non esiste ferita che non possa essere curata e che le cicatrici sono segno di malattia ma anche firma di guarigione. «Amiamo il mondo – diceva il neo venerabile –. Vogliamogli bene. Prendiamolo sotto braccio. Non opponiamogli sempre di fronte i rigori della legge se non li abbiamo temperati prima con dosi di tenerezza».

Don Tonino Bello è stato un amico, un compagno di viaggio, un poeta, un vescovo-pastore. O più semplicemente un uomo. Capace di legare insieme verità e dolcezza, che al pugno chiuso preferiva la mano aperta, a suo modo segno delicato della rinuncia al proprio orgoglio. Perché «la carezza non è mai un prendere per portare a sé, è sempre dare».