Ermes Ronchi su David Turoldo

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Lo incontravi, e ti colpiva da un lato la sua imponenza e irruenza da antico guerriero vichingo
e dall’altro lato i suoi occhi infantili e chiari.
Restavi scosso dalla sua voce profonda e vibrante, da cattedrale o da deserto, e poi ti seduceva l’invincibile sorriso degli occhi azzurri.
La sua parola apriva spazi al volo: ascoltarlo era rimanere accesi. Regalava stupore, quella esperienza felice che scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci satura.
Libero da maschere e da paure, da ogni cortigianeria, da tutto ciò che è cascame culturale, contagiava di libertà e fedeltà, entrambe assolute.
E di quella gioia corroborante e vitalissima che nasce dalla coscienza di appartenere a un sistema aperto e non a un sistema chiuso, definito, concluso.
Turoldo sapeva liberare la Parola da ogni sequestro ecclesiastico, e proporre un Dio «che fiorisce sotto il sole», cui piace sconfinare, pascolare nella terra dell’uomo, e non nel solito paradiso.
Ha cantato un Cristo che scorre dentro il torrente della vita, nel pane che profuma, nel vino che è sangue, nelle mani che accarezzano il volto, nella fessura di luce che è la finestra dell’abside aperta a oriente. Non rubatemi…/ la gioia che nessun tempio / Ti contiene / e nessuna chiesa Ti incatena. È il Cristo della strada, degli uomini liberi, «fonte di libere vite».
E proprio perché entrava nella vita, la sua non era una parola neutra e la sua predicazione non poteva non suscitare, come ogni parola profetica, accoglienza e ostilità. Dentro e fuori la chiesa.
Ma proprio per questo, perché amava con la stessa intensità il cielo e la terra aveva il dono rarissimo di saper parlare a tutti, credenti e non credenti:
«Non cerco il consenso e neppure il dissenso – scriveva –, ma il senso».