Genesi 2. La creazione dell’uomo e della donna (di Bruna Costacurta)

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Introduzione.

In questi incontri vorrei esaminare con voi alcuni testi biblici che ci aiuteranno ad avere una nostra comprensione dell’evento del matrimonio e di tutto ciò che questo comporta, quindi di tutta la realtà familiare.
Iniziamo leggendo Genesi 2, il racconto della creazione dell’uomo e della donna. Si tratta di un testo “classico” che dà delle indicazioni antropologiche di base su chi è l’uomo, cosa è l’umanità, cosa è il rapporto di coppia. Il discorso è fondamentalmente antropologico, come la Bibbia ce lo insegna.
Poi leggeremo un testo diverso, di tutt’altra problematica: il capitolo 2 del libro di Osea, la famosa requisitoria contro la moglie adultera e prostituta. Alla luce di tutta la Rivelazione Biblica si vede bene che l’amore dell’uomo e della donna, della coppia, diventa segno dell’amore di Dio. Al capitolo 2 del libro di Osea abbiamo l’amore di Dio messo alla prova e quindi in grado di esprimersi fino alle ultime conseguenze.
Nell’ultimo incontro poi, passeremo ad un altro testo classico: il capitolo 2 del Cantico dei Cantici, testo matrimoniale per eccellenza che vedremo però alla luce di un aspetto particolare: l’Alleanza. Il rapporto matrimoniale, ancora una volta come il segno del rapporto di Alleanza di Dio con gli uomini.

La creazione dell’uomo e della donna

E’ il racconto della Creazione dell’uomo e della donna, quello che viene subito dopo l’altro racconto di Creazione di Gen 1. Il sapore letterario è di tipo mitologico, ed attraverso questo testo la Parola di Dio vuol dare delle indicazioni molto precise su quale è la verità dell’uomo. Questo si situa infatti come “racconto di origine”, il che vuol dire ovviamente che non si vuole raccontare come è avvenuta l’origine dell’uomo; ma piuttosto che qui si vuole indicare, raccontando l’uomo nella sua origine, chi è veramente l’uomo. Dunque, fare un racconto “di Creazione” è un modo con cui la Bibbia non spiega come è nato l’uomo, ma spiega chi è l’uomo e la donna, qual è il rapporto tra loro e qual è il loro rapporto con Dio.
Questo è il tema del capitolo 2 della Genesi, che si presenta all’inizio con un evento: la Creazione dell’uomo fatta dalla polvere del suolo, dopo aver detto che non c’era nessuno che lavorasse la terra: “allora Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden a Oriente e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare: l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.” (Gen 2,7-9) Poi il testo continua descrivendo il giardino con i famosi quattro fiumi, un giardino che viene presentato come ricco, con minerali preziosi; e l’uomo, dice il testo, vi viene messo da Dio: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse”. (Gen 2,15).

L’uomo dalla terra

Abbiamo qui il primo elemento: l’uomo è fatto dalla terra e viene messo nel giardino, giardino che è stato fatto apposta per l’uomo. Dunque si comincia subito con il precisare nel testo che l’uomo è il centro di tutta la Creazione, in vista del quale si fa tutto il resto: il giardino è per lui, gli animali sono per lui, il mondo è per lui. Lui, l’uomo, è al centro. E’ al centro e perciò signore di questa realtà. L’uomo viene presentato come un re, un sovrano di un regno molto opulento, che esercita il suo dominio non solo sul mondo, ma anche sugli animali, ai quali dà il nome. Nel mondo biblico, dare il nome ad una cosa vuol dire esercitare su di essa il massimo potere, perché il nome rappresenta la verità più profonda della cosa o dell’individuo chiamato. Già conoscere il nome è segno di potere e, addirittura, essere quello che dà il nome ad un altro è esercizio di potere totale. Dunque l’uomo è signore e esercita il suo potere sul mondo. Viene detto qui in altro modo quanto era già stato detto in Gen 1, quando si dice che l’uomo è creato a immagine di Dio e che riceve da Dio il mandato di dominare la terra e di coltivarla. E’ signore. Però è un signore fatto di polvere del suolo.
Qui il testo biblico gioca sui nomi.
Uomo, infatti, in ebraico, si dice Adam e terra si dice Adama; anche se forse le radici sono diverse, il suono è lo stesso, tranne che per la finale. Adam viene da Adama. Tra uomo e terra c’è una vicinanza che li rende praticamente simili, hanno lo stesso nome, sono uguali. Addirittura, se si guarda bene il testo scritto nella sua lingua originale, si potrebbe persino dire che il testo sta dicendo, non solo che l’uomo viene dalla polvere del suolo, ma anche che l’uomo è quella polvere. Perché il testo come suona qui nella traduzione è: “Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo”. Però, questo “con” fa riferimento a un accusativo che può sì essere un accusativo di mezzo, ma può essere anche un’apposizione. Se uno legge il testo ebraico legge: “Dio plasmò l’uomo polvere del suolo”. Allora, cos’è questo “polvere”? Un accusativo di mezzo (con polvere del suolo), oppure una spiegazione di cosa è l’uomo (Dio plasmò l’uomo polvere)? In ogni caso, la polvere del suolo è punto di riferimento per l’uomo. Esso, poiché è polvere, ridiventa polvere. E da quella sua stessa polvere vengono fatti anche gli animali. L’uomo, signore del giardino, è contemporaneamente polvere e fatto della stessa pasta degli animali. Sono tutti e due fatti di terra.
La stessa cosa è detta in Gen 1 quando si dice che l’uomo è ad immagine di Dio, però viene creato nello stesso giorno in cui vengono fatti gli animali. Non c’è un giorno particolare per l’uomo in Gn 1. E’ strano. C’è un giorno particolare per i rettili, per i pesci, e non c’è per l’uomo. L’uomo è fatto nello stesso giorno in cui vengono fatti gli animali terrestri e condivide con essi la stessa benedizione di Dio (crescete e moltiplicatevi), però è immagine di Dio.
In Gen 2 è la stessa cosa: l’uomo è signore del creato, però è polvere e animale. Come dire che il racconto di origine rivela il senso profondo dell’uomo che è questo incredibile e difficilissimo mistero, un mistero molto difficile da vivere: tenere insieme due realtà che sono invece contraddittorie. Il compito dell’uomo è vivere questo mistero senza mai illudersi di essere uguale a Dio, ma chiamato ad esserne immagine; senza mai ingannarsi di essere come gli animali e solo terra, ma sapendo invece di avere un destino eterno che è quello di vedere Dio e diventare come Lui. Questo è ciò che l’uomo deve fare.
E non si può neppure capire il rapporto di coppia se non si capisce questo mistero costitutivo dell’uomo che è anche la sua vocazione, è il progetto che Dio ha su di lui.

Il comando di Dio

Questo elemento fondamentale dell’uomo, questo mistero che lo costituisce, trova poi la sua sintesi nel comando che Dio dà all’uomo. Dopo averlo messo nel giardino, Dio dice: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. (Gen 2,15-17). Questo comando continua la linea di quanto abbiamo detto prima. E’ovvio che non è un ordine arbitrario che Dio dà all’uomo solo per metterlo alla prova, tanto per vedere se obbedisce, e per dare una limitazione perché non si insuperbisca. Questo comando è innanzitutto il dono che Dio fa all’uomo della sua verità, perciò un dono di comunione. Che vuol dire che l’uomo non può mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male?
Sapete tutti che “conoscenza del bene e del male” è un’espressione tipica della Bibbia con cui si vuole indicare la totalità. Quando la Bibbia vuol dare un’indicazione di una totalità intera, lo dice nominando i suoi due estremi. Così, per dire la totalità dell’esistenza, dice: “vita e morte”; per dire la totalità del vivere umano dice: “entrare e uscire”. Il “bene e male” è la stessa cosa, si indica la totalità, non sul piano semplicemente morale, etico, ma sul piano esistenziale, metafisico. “Bene e male” vuol dire la realtà intera, nella sua dimensione di bene e male, buono e cattivo, bello e brutto, sofferenza e felicità. E conoscere questa totalità vorrebbe dire esserne principio, perché conoscere non è semplicemente avere intelligenza intellettuale, ma vuol dire possedere il segreto di ciò che si conosce.
Quando perciò il nostro testo dice che l’uomo non può mangiare di quell’albero, intende che egli non può assimilare quella conoscenza del bene e del male che vorrebbe dire che l’uomo ormai possiede le chiavi di tutto l’esistere. Questo compete a Dio, non all’uomo.
Questo è il comando; dunque – diciamo così – qualche cosa che ricorda all’uomo che è terra.
Però, attenzione. Questo comando viene dato proprio perché egli, accogliendo la propria verità, possa essere in comunione con Dio. La grande insistenza della Bibbia è che l’uomo deve capire di essere diverso da Dio perché questo è l’unico modo per poter vivere in comunione con Lui. Questo credo che sia un discorso importante che la Bibbia fa per noi, anche a livello di coppia. La comunione è possibile quando i due rimangono, diciamo, differenziati, ognuno con la propria consistenza personale. Solo così è possibile una comunione di persone. Altrimenti c’è la confusione, c’è il plagio, la dipendenza che annulla la persona. E’ invece nel riconoscersi ognuno per ciò che è, diverso dall’altro, è lì che si gioca la comunione nella coppia.
Abbiamo visto così il senso del comando. Ma bisogna anche aggiungere che esso riguarda solo l’albero della conoscenza del bene e del male, e non anche l’altro albero di cui parla il testo, cioè quello della vita. Di questo l’uomo può mangiarne.
Dobbiamo essere consapevoli che qui c’è un problema di composizione del testo e che probabilmente ci troviamo davanti al confluire di tradizioni diverse che portano alla menzione dei due alberi. Rimane però il fatto che il testo ultimo si esprima in questo modo, ed è questo testo così come lo abbiamo oggi che è normativo per la nostra fede. Ebbene, questo testo non pone per l’uomo la proibizione di mangiare dell’albero della vita. Ad esso l’uomo ha accesso, gli appartiene, può da lui essere assimilato.
Cosa vuol dire questo? Non che l’uomo possiede in sé la vita, ne è origine e può farne ciò che vuole: il comando riguardante la conoscenza del bene e del male ha già chiarito questo. Piuttosto, il senso sembra essere che, se l’uomo accetta la propria verità di uomo, diverso da Dio, che riceve da Dio tutto e che riconosce in Dio l’origine di tutto, allora egli può accedere alla vita e mangiare della vita in piena libertà. La vita è sua nella misura in cui egli si ricorda che è sua solo perché Dio gliela dona. E che è sua e può gestirla solo continuando a riceverla come dono da Dio e, quindi, continuando ad obbedire a quel Dio che viene riconosciuto come l’origine di tutto. Questo è il rapporto che l’uomo è chiamato ad avere con la vita, con il mondo.

“Non è bene che l’uomo sia solo”

Però, dice il nostro testo, il rapporto con la vita non è pieno finché l’uomo è solo. Non è bene che l’uomo sia solo, manca la vera alterità, manca quell’essere due che possa essere riconosciuto come essere due della stessa specie. Un essere due nella unicità. Per questo gli animali non vanno bene. Dio porta gli animali ad Adamo e Adamo gli dà il nome, ma quelli non sono ciò che può far uscire Adamo, l’uomo, dalla sua solitudine che non è buona. Perché gli animali sono ciascuno secondo la propria specie, come dice Gen 1, e poi c’è l’uomo secondo la sua specie. La comunione è possibile solo all’interno di questa unicità di specie.
Se si legge Gen 1, si vede bene come il testo insiste molto sul fatto che Dio crea gli animali secondo la loro specie, quindi c’è la specie di un tipo, poi un altro, un altro; c’è la molteplicità per gli animali. Invece, quando arriva all’uomo, crea l’uomo uno: maschio e femmina lo crea. Lì la specie è una sola, c’è un’unicità che rispecchia l’unicità di Dio. Perciò gli animali non possono entrare in vero rapporto con l’uomo, e invece serve la comunione perché l’essere uomo possa essere completo, possa essere definitivo. Il nostro racconto dice che questo essere uomo, creato dalla terra, signore del giardino, raggiunge il suo senso definitivo e completo solo quando si riconosce uomo e donna.
Il testo dice: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo che si addormentò, gli tolse una delle costole. Mise la carne al suo posto, il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo la donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è carne della mia carne e ossa delle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”. Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Ora, tutti e due erano nudi, l’uomo e la donna e non provavano vergogna.” (Gen 2,22-25)
Dunque Dio crea la donna, e con ciò porta a compimento la creazione dell’uomo rivelandolo nel suo senso completo che è quello di essere uomo e donna. Nel testo, c’è una certa ambiguità, forse voluta, nell’uso della parola “uomo”. Tra i vari modi in cui questo si può dire in ebraico (come ad es. anche in italiano possiamo dire uomo, oppure maschio, o anche umanità), qui si sceglie il termine “adam”, che è la parola che serve normalmente per indicare l’uomo nel suo senso più generico, cioè l’uomo come umanità; ma, oltre a questo, può voler significare anche l’uomo maschio, oppure essere il nome proprio Adamo. Il nostro testo usa dunque una parola dal senso molteplice, e la usa con l’articolo determinativo, il che complica la possibilità di capire il termine come nome proprio.
Si rimane così ad un livello ambiguo e si può intendere che Dio ha creato Adamo, oppure l’uomo (maschio contrapposto alla donna), oppure, come mi sembra più probabile, l’umanità. Questa apparente imprecisione terminologica ci permette così un’interpretazione particolare del testo. Dio crea l’uomo (nel senso generico di umanità) dalla terra, e lo pone nel giardino, e gli dà il comando; poi questa realtà ancora indistinta si precisa e giunge a compimento in tutto il suo senso e la sua verità, distinguendosi e rivelandosi come uomo e donna.

L’accoglienza dell’alterità

Bisogna fare attenzione e continuare a ricordare che non si sta qui ricostruendo una storia dell’origine dell’uomo, ma se ne sta rivelando il senso profondo, con strumenti letterari particolari, legati al mondo e all’ambiente culturale dell’epoca. Perciò, non bisogna interpretare il testo nella piccolezza dei suoi elementi, ma in una visione molto più ampia, simbolica, che parla dell’uomo non per dire come è stato fatto, ma per dire come bisogna capirlo. Bisogna capirlo come l’uomo che viene dalla terra, che è signore, che deve riconoscere Dio come creatore non mangiando dell’albero. Egli ha accesso alla vita, ma tutto questo si compie quando questa umanità si riconosce nell’alterità e quindi nell’accoglienza reciproca. La realizzazione dell’umanità è nel rapporto uomo-donna. La realizzazione dell’essere umano è nell’essere due, non necessariamente nel vivere in due, cioè non necessariamente solo nel rapporto matrimoniale, ma nel riconoscimento dell’alterità dell’altro, nel riconoscimento che l’essere umano non è completo finché non si apre all’alterità.
L’umanità diventa tale solo quando c’è riconoscimento reciproco tra l’uomo e la donna. Quando cioè l’uomo si riconosce come un essere incompleto. Nel fatto che l’uomo sia uomo e donna viene iscritta nella realtà dell’uomo una sua fondamentale verità di essere nel bisogno, di essere incompleto, di non poter vivere senza l’altro. E dunque il problema dell’uomo e della donna, il problema dell’umanità, è quello di riconoscere la fondamentale uguaglianza nella diversità, di entrare in comunione e diventare uno, ma continuando a riconoscersi incompleti, mancanti di ciò che consente di realizzarsi come esseri umani.
Si potrebbe anche dire che il fatto che l’uomo sia uomo e donna, è ancora un altro modo con cui si rivela che l’uomo non è Dio e solo Dio è unico, è assoluto, non ha bisogno degli altri. Invece, l’essere umano, proprio perché è uomo e donna, non potrà mai illudersi di essere assoluto, di poter bastare a se stesso perché in se stesso non realizza l’essere umano, ha bisogno dell’altro sesso, in termini di alterità, di riconoscimento del bisogno.
Questo uomo così, allora, che riconosce questa alterità, questo è il vero essere umano, è perciò la vera immagine di Dio.

Una sola carne

Tutto quanto detto fin qui trova la sua espressione anche nel grido di esultanza dell’uomo che riconosce la donna come parte di sé. La separazione, la diversità, sono per la comunione che è basata sul fatto che i due sono due, ma ognuno riconosce l’altro come parte di sé. Non è così per gli animali. Non si vede nell’altro qualcosa di diverso da sé, ma qualcosa di identico, la stessa carne, le stesse ossa.
Tra l’altro, l’espressione “Carne della mia carne e osso delle mie ossa” echeggia una delle espressioni tipiche dei rapporti di alleanza. Così, ad esempio, quando Davide viene consacrato re di Israele e poi quando torna in patria dopo la rivolta di Assalonne e c’è il problema della riunificazione, troviamo ancora questa espressione. Israele dice a Davide: “Noi ci consideriamo tue ossa e tua carne” e allora il re Davide fa alleanza con loro (2 Sam 5,1-3). E Davide dice a Giuda: “Voi siete mio osso e mia carne” (2 Sam 19,13). Questa espressione non vuol dire semplicemente: “Siamo parenti”, ma è un riconoscimento di un coinvolgimento totale uno con l’altro per cui ormai i due sono una carne sola, inseparabili.
Questo è proprio il rapporto di alleanza che fonde i due in una sola carne; questo è vero rapporto di coppia, del rapporto tra gli uomini ed è soprattutto definitivo nel rapporto tra uomo e Dio. Dio vive questa dimensione dell’alleanza in termini matrimoniali.
Dunque, appartenenza reciproca totale, indissolubile, che si apre perciò alla fecondità. Allora ecco, questi due che si riconoscono parte l’uno dell’altro e realizzano l’uomo, lasceranno il padre e la madre, si uniranno e diventeranno una carne sola. E’ il raggiungimento nell’essere umano che, poiché riconosce questa appartenenza radicale dell’uno all’altro, non può che essere definitivo e per questo diventa fecondo. Diventare una sola carne è la riunificazione di cui l’atto sessuale è espressione simbolica massima, segno di una unione più radicale e profonda che si realizza in quella sola carne che è il figlio. Questi due che diventano una carne sola generano il figlio. Il figlio porta iscritti in sé tutti i geni, i cromosomi del corpo paterno e materno, assomiglia al padre e alla madre, ne riporta i segni nella carne. E’ carne della madre ed è carne del padre. Una, perché il figlio non si può dividere, altrimenti muore.
Ecco quindi che il fatto antropologico così importante dell’unione sessuale, proprio perché è questo riconoscimento reciproco, si apre a questa fecondità che fa vivere nella carne del figlio la totalità e la perennità del dono reciproco che gli sposi si sono fatti quando hanno abbandonato il padre e la madre e si sono uniti.

Rifiuto e compimento

Tutto questo va vissuto nella consapevolezza del problema dell’accettazione del “diverso” nella sua parità. E’ assolutamente necessario che l’uomo e la donna, nella coppia o fuori, si riconoscano diversi. Appunto perché se non c’è diversità non c’è più differenziazione, non c’è più comunione.
Se mi identifico totalmente nell’altro da sparire in lui, non posso essere in comunione in lui e lui non può esserlo con me. E se l’altro mi ingloba, mi fagocita, rimane solo, nella solitudine tremenda di chi non riconosce l’alterità dell’altro e che, pretendendo di assimilarlo totalmente a sé, in realtà rimane solo.
Questo è il problema detto in Genesi 4: Caino che rifiuta la diversità di Abele e lo uccide. E’ un tentativo di assimilazione a sé rifiutando il diverso. Caino rimane solo, non è più il fratello di nessuno.
L’accettazione della diversità è unica condizione di comunione, ma è una diversità che è parità (non parlo di parità di diritti, mi sto muovendo su un altro livello) che dice “questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa”. Allora diventa possibile la vera comunione, la vera realizzazione dell’essere umano. E, infatti, andando avanti nella lettura del testo, si scopre che proprio questo diventa il peccato: il rifiuto della diversità da Dio, che implica poi il rifiuto della differenziazione dell’altro (cfr. Genesi 3).
Quando l’uomo e la donna non sono più in comunione con Dio, non sono e non possono essere più in comunione gli uni con gli altri. Prendono il frutto della conoscenza del bene e del male perché vogliono diventare come Dio, così che i loro occhi si aprano. Allora scoprono di essere nudi e hanno bisogno di coprirsi. Non è nato il pudore, non c’entra il fatto sessuale; ci si muove ad un livello simbolico estremamente importante: nudità come segno di totale esposizione all’altro. Nella Bibbia quando si è nudi non ci sono più diaframmi, difese, nulla che copre; questa è l’esperienza antropologica.
Sappiamo bene che non sono i vestiti a difenderci, perché se uno vuole farci del male, lo fa comunque, sia se siamo vestiti che se siamo nudi. Però, se ci mettiamo nudi davanti ad un altro vestito, abbiamo più paura perché ci sentiamo molto più indifesi, ci sentiamo immediatamente in stato di inferiorità. Non a caso, questo è uno dei sistemi preliminari necessari quando si vuole usare violenza non solo fisica, ma anche psicologica, per esempio su un prigioniero. Il vestito forse lo salva? No, ma l’esperienza antropologica della nudità è precedente alla nostra abitudine all’abito, è profonda, è strutturale ed è percezione della nudità come esposizione totale che viene vissuto nella coppia in modo stupendo. Nel matrimonio l’uomo e la donna possono essere nudi e si donano nudi; questa è un’esperienza antropologica importantissima che dice che io mi fido totalmente dell’altro, non ho più paura.
Allora, tutto quello che scoprono l’uomo e la donna dopo il peccato, è che hanno bisogno di difendersi, che hanno paura l’uno dell’altro. Il loro è il rifiuto di essere uomini, cioè diversi da Dio, che ricevono da Lui la vita e che possono gestirla come qualche cosa che è donato e che ha la sua origine non nell’uomo e nella donna, né dal padre e dalla madre, ma da Dio. Se è vero che il figlio è prolungamento della carne del padre e della madre, è anche vero che non sono loro l’origine di quel figlio; poiché essi, a loro volta, sono il prolungamento della carne del loro padre e della loro madre. Invece, entrare nella dimensione di coppia, è un modo con cui l’uomo partecipa al divino, ne diventa segno, perché Dio è diverso, è altro, eppure il suo amore è tale che egli dà origine e pone in essere proprio perché diventi come Lui e perché Lui possa riconoscere in ogni uomo suo Figlio.
Nel Mistero Pasquale questo diventa definitivo, perché in esso diventiamo figli e se accettiamo di morire, di dare la vita, di vivere e risorgere come Gesù, noi diventiamo figli, il Padre riconosce in noi il Volto del Figlio che è il suo stesso Volto, come un padre vede il figlio che gli assomiglia.
Dunque noi, totalmente diversi da Dio, siamo creati per diventare simili a Lui. Di questo divino che si manifesta nel mondo, diventano segno e partecipazione quegli uomini e quelle donne che, nella diversità, si riconoscono uguali, parte l’uno dell’altro, per giungere a quella unificazione che è la carne che realizza l’immagine di Dio.