Gesù educa alla fede – Enzo Bianchi

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Gesù Cristo, il nostro pedagogo, ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive in lui … Assumiamo [dunque] il salvifico stile di vita del nostro Salvatore, noi figli del Padre buono e creature del buon pedagogo. (Clemente Alessandrino, Il pedagogo I,98,1.3)

Introduzione

Viviamo in un’ora contrassegnata da molti ostacoli, da diverse contraddizioni recate alla fede, sicché la fede sembra incapace di interessare gli uomini e le donne di oggi, che vivono nell’indifferenza riguardo alla fede cristiana e, più in generale, sono indifferenti a ogni ricerca di Dio. Non solo, proprio in coloro che si dicono credenti e cristiani di fatto la fede appare debole, a corto respiro, incapace di manifestare quella forza che cambia la vita, il modo di pensare, sentire e agire. Sempre di più noi cristiani siamo letti come una minoranza in una società plurale per credenze religiose, etiche ed espressioni spirituali che non fanno alcun riferimento a Dio o a vie tradizionali. Anche la trasmissione della fede è diventata difficile, e le nuove generazioni – definite dalla sociologa Danièle HervieuLéger «en rupture de mémoire», «in rottura di memoria» – sembrano incapaci di ricevere quell’eredità di fede e di cultura che per secoli ha contrassegnato la nostra gente. Dobbiamo dirlo: se è vero che «cristiani lo si diventa, non lo si nasce», è altrettanto vero che fino a qualche decennio fa si «nasceva», per così dire, cristiani, si cresceva più o meno come cristiani, e il tessuto famigliare ed ecclesiale assicurava un cammino che portava la maggior parte delle persone a definirsi cristiane. Oggi invece il quadro è profondamente cambiato: per questo la chiesa, anche in Italia, si interroga sulla trasmissione della fede, sull’educazione alla fede come primo compito da assumere, e richiama spesso l’attenzione sull’emergenza educativa.

Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia – per riprendere il titolo dato dai vescovi italiani agli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000 –, trasmettere la fede in nuove comprensioni antropologiche è dunque per noi una sfida, un compito che non possiamo evadere. In questa situazione difficile e critica dobbiamo però tenere presente che cattiva consigliera è la paura, l’ansia per il futuro della fede: questi sentimenti, infatti, portano non ad avere fede, ma da un lato ad assumere posizioni difensive, a chiudersi in una cittadella che si sente assediata e minacciata, e dall’altro a confidare in un buon metodo o in una strategia astuta, entrambi ricercati con affanno. Nella breve riflessione che questa sera vi offro vorrei percorrere un’altra via; o meglio, vorrei adottare semplicemente la via percorsa da Gesù stesso e di cui danno ampia testimonianza la sante Scritture del Nuovo Testamento. Perché, come aveva già compreso la chiesa primitiva nell’ora in cui quale «piccolo gregge» (Lc 12,32) si impegnava nella missione tra le genti del Mediterraneo, Gesù è stato e resta un pedagogo, un iniziatore alla fede. È Clemente d’Alessandria, un padre vissuto tra la metà del II e l’inizio del III secolo, che definisce Gesù Cristo «pedagogo», invitando i cristiani a guardare a lui non solo come modello di vita ma anche, appunto, come educatore alla fede. Questa scelta è dovuta alla convinzione che c’è in Gesù un’arte nell’incontrare l’altro, nel comunicare con l’altro, nel tessere con l’altro una relazione: l’arte di un educatore alla fede.

1. Che cos’è la fede?

Diciamo subito che la fede – come ha sempre recitato il Catechismo che tutti conosciamo – è un dono che viene da Dio. Scrive l’Apostolo Paolo in 2Ts 3,2: «Non di tutti è la fede», ma essa abita soltanto coloro cui Dio l’ha donata. «La fede nasce dall’ascolto» (fides ex auditu: Rm 10,17) – annota sempre Paolo – e dunque occorre che la Parola di Dio giunga al cuore dell’uomo e vi desti la fede. Ma la fede, proprio perché deve essere accolta dall’uomo, proprio perché è l’uomo a credere, è anche un atto umano, un atto della libertà dell’uomo che risponde al Dio che parla: «Non è Dio ma l’uomo che crede», ha affermato giustamente Karl Barth. Così la fede è una scelta dell’uomo che coinvolge tutto il suo essere personale, manifestandosi come un atto umanissimo e vitale, teso alla vita; è entrare in una relazione, in un rapporto vivo con un altro. Fede è dire: «Amen, è così; io aderisco, faccio fiducia, mi fido di qualcuno». Quando si parla di fede occorre fare attenzione a non pensare immediatamente al credere in verità, in dogmi (quella che i teologi definiscono «fides quae»); no, dobbiamo pensare la fede come quell’atto, di cui ci testimoniano le sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul sicuro (cf. Sal 20,89; 125,1; Is 7,9), nell’affidarsi come un bambino attaccato con una fascia al seno di sua madre (cf. Is 66,1213), sicuro in braccio a lei (cf. Sal 131,2).
La fede appare pertanto come una necessità umana. Possiamo dire che non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? Noi uomini, a differenza degli animali, usciamo incompiuti dall’utero della madre, e per venire al mondo e crescere come persone abbiamo bisogno di qualcuno in cui mettere fedefiducia. Pensiamoci bene: quante azioni della nostra vita dipendono dal nostro avere fede… È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a partire dai genitori? È possibile iniziare a percorrere una storia d’amore senza avere fede nell’altro? È significativo che, un tempo, in una storia d’amore ci si sentiva prima fidanzati, cioè persone che danno e ricevono fede; poi si sanzionava la storia d’amore con un anello chiamato, non a caso, fede. Lo ripeto: in tutta la vita noi uomini dobbiamo avere fede, fare fiducia, credere a qualcuno. Quando accediamo alla pienezza delle relazioni, in quelle più personali e intime come in quelle sociali e pubbliche, dobbiamo fidarci, fare credito, credere a qualcuno. In breve, non si può essere uomini senza credere, perché credere è il modo di vivere la relazione con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro. Proprio per questa umanità della fede, oggi dobbiamo confessare che la crisi della fede incomincia dalla crisi dell’atto umano del credere, che è diventato difficile e sovente contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere all’altro, siamo poco disposti a fare fiducia all’altro, non osiamo credere all’altro fino in fondo. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile la storia perseverante nell’amore? Perché così spesso soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra vita, l’atto umano del credere. Tanto che ormai, di fronte a quella celebrazione della fede e della promessa che è il matrimonio, il pensiero che ci attraversa la mente è: «Fino a quando durerà?». Noi non crediamo all’amore, contraddicendo così quella definizione lapidaria dei cristiani data dall’apostolo Giovanni: «Noi crediamo all’amore» (1Gv 4,16)! A chi si lamenta della crisi della fede in Dio, mi viene da rispondere: «Ma com’è possibile credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede (cf. 1Gv 4,20)?». Per questo è decisivo cogliere come Gesù educava alla fede, come generava alla fede gli uomini e le donne che incontrava lungo le strade della Palestina. Gesù sapeva che non ci può essere vita umana senza fede e per questo aveva come prima preoccupazione quella di destare fede, di mostrare un atteggiamento capace di comunicare e di generare la fede. Diventare credente è un compito mai portato a termine, allo stesso modo che diventare un soggetto responsabile e libero. Ma per molti uomini non è facile avere fiducia, credere a qualcuno – così come non è facile accedere a una vera soggettività – a causa delle contraddizioni patite nella vita. La vita è attraversata dal male in varie forme: malattia, sofferenza, malessere, separazioni, morte… E quando ci si dispone a leggere la vita passata, si trovano molte ragioni per non credere. Come contrastare queste forze di morte che ci abitano? E soprattutto, ciò che più conta, come Gesù ci insegna a contrastarle e ci educa dunque alla fede?

2. Gesù, educatore alla fede

a) Gesù, uomo credibile e affidabile

Gesù ci ha mostrato innanzitutto una necessità: chi inizia alla fede o a essa vuole generare, deve essere credibile, affidabile. Del resto – lo sappiamo per esperienza – anche i genitori che vogliono educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili. La credibilità di Gesù nasceva principalmente dal suo avere convinzioni e dalla sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Non erano solo le sue parole che, raggiungendo l’altro, riuscivano a vincere le sue resistenze a credere; non era un metodo o una strategia pastorale a suscitare la fede: era la sua umanità contrassegnata – secondo il quarto vangelo – da una pienezza di grazia e di verità (cf. Gv 1,14). Grazia e verità che dicevano l’autenticità e la coerenza di Gesù, non lasciando alcuno spazio tra le sue convinzioni e ciò che egli diceva e viveva. Incontrando Gesù, tutti percepivano che non c’era frattura tra le sue parole e i suoi gesti, i suoi sentimenti, il suo comportamento. Ed è proprio da questa sua integrità che nasceva la sua exousía, la sua autorevolezza, che spingeva gli uomini a esclamare con stupore: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorevolezza!» (Mc 1,27); e a constatare che egli non insegnava come gli scribi (cf. Mc 1,22), come chi lo fa per mestiere, come chi ha solo una competenza tecnica. Se avveniva una persuasione di uomini e donne in ascolto di Gesù, questa era soprattutto causata dalla testimonianza, non da una somma di parole. Si può anche dire che in Gesù c’era la capacità di testimoniare con le sue azioni, anche senza le parole; per parafrasare un detto tradizionale dei padri del deserto, «bastava vederlo»… Nella pedagogia, nell’educazione alla fede, l’iniziatore deve dunque essere affidabile. Certo, per noi non è possibile raggiungere la coerenza vissuta da Gesù, quest’uomo in cui traspariva Dio; ma anche per noi l’essere affidabili dipende dalla nostra coerenza, e la nostra affidabilità è decisiva nell’educare alla fede e nel trasmetterla. E se è vero che la nostra fede è sempre fragile, basta metterla nella fede di Gesù Cristo, lui che è «la fede perfetta» (he teleía pístis), secondo la bella definizione di Ignazio di Antiochia.

b) Gesù, uomo che si è «spogliato» per entrare in dialogo

È innegabile nella pratica della relazione e dell’incontro da parte di Gesù la dimensione dialogica, che è sempre accompagnata dalla dimensione kenotica, di condiscendenza. Gesù non consegna mai a chi incontra una verità astratta, ma instaura innanzitutto con lui/lei una relazione umana, nella quale il momento concreto dell’incontro è un kairós, nel pieno senso della parola biblica (cf., per es., 2Cor 6,2). Il suo è un comunicare «in situazione» e apre un dialogo, ma è sempre preceduto da un cammino di abbassamento, di condiscendenza, che rinnova quel cammino di kénosis da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di uomo come noi (cf. Fil 2,67). Gesù si fa viandante assetato al pozzo di Sicar dove incontra la donna samaritana (cf. Gv 4,530); si fa pellegrino sulla strada di Emmaus dove incontra i due pellegrini (cf. Lc 24,1335); si fa frequentatore della tavola dei pubblicani e dei peccatori, per incontrarli e poter annunciare loro la buona notizia (cf. Mc 2,16 e par.; Lc 7,34)… Gesù percorre dunque un cammino di abbassamento, si mette in dialogo – il che significa innanzitutto ascolto dell’altro – e si confronta con l’interlocutore. Primo effetto dell’incontro con lui è l’interrogarsi su cosa si cerca, su cosa si vuole, su cosa brucia nel cuore. Basta ricordare alcune domande che Gesù rivolge a quanti incontra: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38); «Donna, chi cerchi?» (Gv 20,15); «Che discorsi state facendo?» (Lc 24,17). A partire da domande come queste nel dialogo avviene un vero incontro, un’esperienza condivisa, un parlare e un rispondersi reciprocamente. Anche questo è un tratto dell’educazione alla fede praticata da Gesù: accettare di «scendere», di «svuotarsi» per stare accanto all’altro; accettare di rinunciare a certi diritti e privilegi che rischiano di essere un ostacolo, per proporre la fede in modo credibile. Sì, perché la buona notizia del Vangelo non può risuonare né esistere senza un’incarnazione concreta, senza che si inscriva nella vita di uomini e donne. In questo senso è significativo che i discepoli da Gesù siano da lui chiamati «amici» (Gv 15,15), in una vera e propria relazione di amore.

c) Gesù, uomo capace di accogliere e di incontrare tutti

Un’altra caratteristica di Gesù, che emerge dai suoi incontri, è la sua capacità di accoglienza verso tutti. Gesù sapeva incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto della buona notizia, del Vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cf. Lc 19,110) e Giuseppe di Arimatea (cf. Mc 15,4243 e par.; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cf. Mt 8,513; Lc 7,110) e la donna sirofenicia (cf. Mc 7,2430; Mt 15,2128); gli uomini giusti come Natanaele (cf. Gv 1,4551), o i peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cf. Mc 2,1517 e par.; Mt 21,31; Lc 7,34.3650; 15,1). Com’era possibile questo? Perché Gesù sapeva non nutrire prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Sulle strade, lungo le spiagge, nelle case, nelle sinagoghe, Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e l’altro che veniva a lui o che lui andava a cercare; si metteva sempre innanzitutto in ascolto dell’altro, cercando di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno. Mi si permetta di dire: Gesù non incontrava il povero in quanto povero, il peccatore in quanto peccatore, l’escluso in quanto escluso. Ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l’altro veniva rinchiuso in una categoria, avrebbe significato ridurre l’altro a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l’altro in quanto uomo come lui, membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell’incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, questo sì, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato… Quando Gesù incontrava l’altro, cercava di creare un clima relazionale, consentiva all’altro di emergere come persona e soggetto, non lo giudicava mai, ma sapeva accogliere il linguaggio di cui l’altro era capace: il linguaggio corporeo della prostituta (cf. Lc 7,3738.4447), il linguaggio espresso dalla donna emorroissa con il fugace tocco del suo mantello (cf. Mc 5,2544; Lc 8,4348), il linguaggio sconnesso di tanti malati di mente. Più in generale, quando incontrava l’altro colpito da ogni sorta di malattia, Gesù si prendeva cura di tutto l’uomo – nella sua unità di corpo, psiche e anima –, fino ad «assumere le nostre debolezze e ad addossarsi le nostre malattie» (cf. Mt 8,17; citazione di Is 53,4). Sì, Gesù era veramente un uomo di compassione, capace di sentirecon fino a patirecon, dunque un uomo per il quale ogni relazione era aperta alla comunione.
Solo avvicinandoci all’altro nel modo insegnatoci da Gesù, anche noi possiamo vivere un incontro ospitale, un incontro all’insegna della gratuità e teso alla comunione. E così possiamo giungere a fare spazio non solo all’altro che vediamo davanti a noi, ma all’Altro per eccellenza, Dio, che allora ci può veramente parlare.

d) Gesù, uomo che cerca e fa emergere la fede dell’altro

Gesù era capace di compiere un ulteriore passo per iniziare, per educare alla fede. Nel rispondere a chi incontrava, Gesù cercava la fede presente nell’altro, come se volesse risvegliare e far emergere la sua fede. Egli sapeva infatti che la fede è un atto personale, che ciascuno deve compiere in libertà: nessuno può credere al posto di un altro! Gesù sapeva che a volte negli uomini c’è l’assenza di fede, atteggiamento che lo stupiva e lo rendeva impotente a operare in loro favore (cf. Mc 6,6); era anche consapevole che ci può essere una fede non affidabile nel suo Nome, suscitata dal suo compiere segni, miracoli, come annota il quarto vangelo: «Molti, vedendo i segni che faceva, mettevano fede nel suo Nome; ma Gesù non metteva fede in loro» (Gv 2,2324), perché l’uomo diventa rapidamente religioso, ma è lento a credere… Gesù cercava invece in chi incontrava la fede autentica, e quando essa era presente poteva dire: «La tua fede ti ha salvato». Si noti che Gesù non ha mai detto: «Io ti ho salvato», bensì: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34 e par.; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42); «Va’, e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13); «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri» (Mt 15,28). Ecco come Gesù rendeva possibile la fede, ecco come faceva emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale, che non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Ha scritto Benedetto XVI nel prologo della sua Enciclica Deus caritas est: All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro … con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva. Purtroppo noi dimentichiamo questa verità e rischiamo così di rendere sterile la nostra missione e il nostro sforzo per comunicare il Vangelo. Proprio perché il Vangelo è buona notizia, esso vuole raggiungere l’uomo nel suo cuore e suscitare in lui in primo luogo la fede nella bontà della vita umana, in modo che egli possa intraprendere l’avventura dell’esistenza credendo all’amore. È in questo senso che Gesù insegnava che nulla resiste alla fede, anche quando essa è nella misura di un granello di senape (cf. Mt 17,20; Lc 17,6), «il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra» (Mc 4,31); che occorre non dubitare (cf. Mc 11,23; Mt 21,21), perché «tutto è possibile a colui che crede» (Mc 9,23); e si diceva addirittura impegnato a pregare affinché la fede di uno dei suoi discepoli, Simone, non venisse meno (cf. Lc 22,32).

e) Gesù, uomo che annuncia il Regno e si decentra rispetto a Dio

Infine, va messo in rilievo come l’educazione alla fede da parte di Gesù tenda all’annuncio del Regno di Dio, alla buona notizia che Dio regna. Gesù non faceva riferimento a se stesso, ma nell’opera di evangelizzazione appariva sempre decentrato rispetto a Dio, al Padre che, con fiducia assoluta, chiamava: «Abba, Papà» (Mc 14,36). Gesù è l’evento in cui Dio ha potuto parlare in un uomo senza alcun ostacolo! Di più, con l’intera sua vita, fatta di azioni e di parole, Gesù cercava di raccontare Dio, di rendere il Dio dei padri un euanghélion, una buona notizia distruggendo tutte le immagini perverse di Dio elaborate dagli uomini. Gesù parlava di Dio soprattutto nelle parabole, narrando vicende umane, mostrando come il Regno di Dio sia buona notizia per uomini e donne, buona notizia nelle loro storie quotidiane, reali. Attraverso la sua vita umanissima, da vero uomo, l’autentico adam voluto da Dio (cf. Col 1,1516), Gesù ha raccontato e annunciato Dio; ha mostrato come Dio regnava su di lui e, regnando, combatteva e vinceva la malattia, il male, la sofferenza, la morte. È per averlo visto vivere in questo modo che Giovanni ha potuto scrivere alla fine del prologo del quarto vangelo: «Dio nessuno l’ha mai visto, ma proprio lui, Gesù, ce ne ha fatto il racconto (exeghésato)» (cf. Gv 1,18). Gesù ha, per così dire, «evangelizzato» Dio, e ha mostrato l’uomo autentico, chiamato a essere a sua immagine e somiglianza. Con la sua umanità piena e non segnata dal peccato – che è sempre philautía, amore egoistico di sé –, Gesù è dunque riuscito a raggiungere l’intimo dell’uomo e a generarlo alla fede in un Dio che ama per primo (cf. 1Gv 4,10.19), un Dio il cui amore ci precede sempre, un Dio il cui amore noi non dobbiamo meritare, perché è il suo stesso essere: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). Ciò che Gesù chiedeva, o meglio destava in chi incontrava, era nient’altro che la possibilità di credere all’amore. Ecco il fulcro della fede cristiana: credere all’amore attraverso il volto e la voce di questo amore, cioè attraverso Gesù Cristo.

Conclusione

Educare alla fede è per la chiesa, per noi, il compito primario; ma nel tentativo di riuscirvi possiamo imboccare molte strade, alcune decisamente sbagliate, altre poco efficaci. Tutto dipende in verità, e non può essere diversamente, dalla nostra capacità di assumere la stessa pedagogia vissuta da Gesù nell’incontrare gli uomini e le donne. Anche oggi la fede può essere generata, destata, fatta emergere da chi, volendosi testimone ed evangelizzatore di Cristo, sa incontrare gli uomini in modo umanissimo; sa essere una persona affidabile, la cui umanità è credibile; sa essere presente all’altro, sa fare il dono della propria presenza; sa, in un decentramento di sé, fare segno a Gesù e, attraverso di lui, indicare Dio, il Dio che è amore. Può darsi – come molti affermano – che oggi il discorso su Dio lasci gli uomini indifferenti: io stesso penso che questa osservazione contenga del vero. Può darsi che oggi «la chiesa» – come scriveva quarant’anni fa il teologo Joseph Ratzinger – «sia divenuta per molti l’ostacolo principale alla fede»15. Ma rimane vero che gli uomini sono sensibili all’avere fede o al non avere fede nell’amore, al credere o non credere all’amore, perché da questo dipende il senso dei sensi della vita. Resto convinto che ancora oggi molti ci chiedono: «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21), perché sentono che la sua umanità li riguarda, li intriga, li interroga. Ma noi cristiani, noi chiesa, sappiamo rispondere a questa domanda, a questo anelito profondo, oppure non lo ascoltiamo, lo evadiamo? Forse noi per primi non sappiamo vedere Gesù, oppure lo conosciamo poco. Sappiamo noi cristiani che tutto quello che possiamo conoscere di Dio ce lo ha narrato Gesù Cristo? Sappiamo che nessuno ormai può andare a Dio se non attraverso di lui (cf. Gv 14,6)? Se verifichiamo tanta sterilità nel nostro educare gli altri alla fede, perché non ci impegniamo noi per primi a essere rieducati alla fede, attraverso l’incontro con Gesù? «Ciò che Gesù aveva di eccezionale non era di ordine religioso, ma umano» (Joseph Moingt): egli, la vera «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), a somiglianza del quale siamo stati creati e diventiamo uomini, ci ha insegnato a vivere in questo mondo (cf. Tt 2,12), ci ha lasciato delle tracce umanissime sulle quali camminare per essere suoi fratelli e figli di Dio.
Dobbiamo soltanto credere all’amore che lui, Gesù, ha vissuto «fino alla fine», fino all’estremo (cf. Gv 13,1). Questa è la nostra fede cristiana.