Gesù in relazione con il Padre

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La vita di Gesù di Nazareth nei vangeli è descritta come un’esistenza eminentemente teologale e dialogica. Teologale perché centrata in Dio e nella realizzazione della missione che egli gli affida;  dialogica perché totalmente impregnata di relazioni con il Padre e con gli uomini. In Gesù, tutto è rivelazione di Dio, trasparenza del suo amore, epifania del volto del Padre. “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo”, dirà nella preghiera sacerdotale.

“Le parole che hai dato a me, io le ho dato a loro” (Gv 17,6.8). “Per loro io consacro me stesso, perché anch’essi siano consacrati nella verità” (Gv 17,19). Questa è la tensione che permea la vita di Gesù in tutte le sue espressioni: rivelare e raccontare la tenerezza del Padre a tutte le persone che incrocia nel suo cammino. Al centro di tutto, quindi, egli pone la relazione con il Padre, una relazione sostenuta e animata da una preghiera viva e incessante.

Gesù l’orante

Dai vangeli appare che Gesù ama la preghiera frequente e prolungata; prega al mattino presto o alla sera tardi dopo aver congedato la folla, prega quando si appresta a guarire un malato e quando prende decisioni importanti per la sua missione. All’inizio del suo racconto, Marco descrive una giornata missionaria di Gesù a Cafarnao, una giornata-tipo fatta di attività, predicazione, incontri con la gente, in particolare con i malati.

A conclusione della giornata così intensa, lo mostra in preghiera: “Mentre era ancora buio, Gesù uscito di casa si ritirò in un luogo deserto e là pregava” (Mc 1,33). La preghiera è posta come momento culminante della sua attività di “operaio del Regno”. Da parte sua, l’evangelista Luca, che è il più attento nel rimarcare l’attitudine di Gesù alla preghiera, riassume il primo periodo della sua vita pubblica in questi termini: “La sua fama si diffondeva sempre più, folle numerose accorrevano a lui per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie. Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare” (Lc 5,15-16).

Lo stesso Luca si preoccupa di dirci che per Gesù i momenti maggiormente significativi del suo ministero, sono vissuti in clima di orazione. Egli, infatti, è in preghiera al momento del Battesimo al fiume Giordano (Lc 3,21). Prima di eleggere i Dodici, trascorre una notte intera in orazione (Lc 6,12). L’esperienza della Trasfigurazione avviene mentre prega sul monte (Lc 9,28).

Al ritorno dei Settantadue discepoli dalla missione, Gesù esulta nello Spirito e rende grazie al Padre (Lc 10,21). Nel Cenacolo rivolge al Padre la “Grande preghiera sacerdotale” (Gv 17,1-26). Al Getsemani, vive l’agonia in una preghiera accorata e incessante (Lc 22,40-45). Infine, chiude la sua giornata terrena pregando con le parole del Sal. 31: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Proviamo ora guardare un po’ più da vicino Gesù nella sua dimensione di “orante”.La prima cosa che và sottolineata è che la preghiera di Gesù, più che argomento su cui disquisire, è un mistero da contemplare, un mistero a cui accostarsi in punta di piedi, poiché a nessuno è dato di penetrare nel segreto della coscienza del Signore per sondare l’intimità del suo rapporto con Il Padre.

Ciò che a noi è consentito è fermarci sulla soglia di questo mistero per contemplarlo, appunto, e quindi cogliere qualche elemento di questo rapporto assolutamente “unico”, alla luce dei Vangeli i quali, peraltro, quando parlano della preghiera di Gesù sono estremamente sobri e discreti. La preghiera di Gesù è anzitutto filiale. Egli si rivolge a Dio e lo chiama “Padre”, anzi “Abbà” (papà), termine confidenziale usato dai bambini ebrei per rivolgersi familiarmente al padre.

Occorre precisare che nella tradizione ebraica l’appellativo Abbà non è mai usato nella preghiera per invocare Dio. Gesù, invece, osa farlo, quasi a svelare tutto lo spessore della sua confidenza che lo lega intimamente a Dio. Questa relazione intima è il cuore di tutta la sua vita; è la forza che lo sostiene e gli dà sicurezza; è la luce che illumina il suo pensare e il suo agire.

I contenuti della preghiera

I Vangeli riferiscono che Gesù ama pregare spesso, ritirandosi in luoghi solitari; ma solo raramente ci riferiscono i contenuti della sua preghiera. Una di queste rare testimonianze, ce la offre l’evangelista Matteo: “In quel tempo Gesù disse: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre  se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo vorrà rivelarlo” (Mt 11,25-27).

Questa è una preghiera di benedizione, la berakah, che per gli ebrei è la preghiera per eccellenza. Esprime riconoscimento e ammirazione, esultanza e lode. Qui Gesù si rivolge al Padre, lo riconosce  “Signore del cielo e della terra”, cioè autore della creazione e della storia umana. Al Padre, Gesù dice: “Ti rendo lode, (ti benedico)”. Il verbo greco (exomologhéo) significa “proclamare, riconoscere pubblicamente, nel senso di lodare e ringraziare.

In latino questo verbo è stato tradotto “confiteor” che significa “proclamare ad alta voce, confessare”. Pertanto, la preghiera di Gesù è lode, ringraziamento, confessione al Padre. Perché egli loda e ringrazia il Padre? “Perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”.

In un momento drammatico del suo ministero (siamo nel contesto della “crisi galilaica”), quando la sua predicazione appare un fallimento totale, per il fatto che la gente delle città Corazin, Betsaida, Cafarnao, in cui egli ha annunciato l’Evangelo e ha operato tanti segni prodigiosi, non l’hanno accolto, Gesù si ferma alla presenza del Padre e, nella preghiera, scopre che Dio sta ugualmente realizzando il suo progetto.

Infatti, se da una parte i sapienti e i dotti del tempo (probabilmente sta pensando ai capi religiosi del popolo: Scribi, Farisei, Sommi Sacerdoti), chiudono la mente e il cuore al suo annuncio e alla sua persona, dall’altra, i “piccoli” (népioi), cioè la gente umile e semplice, senza cultura ma, soprattutto, senza arroganza e presunzione, proprio questa gente sta accogliendo Gesù e il suo Vangelo. I discepoli, infatti, appartengono a questa categoria di persone.

i fronte a questa constatazione, Gesù apre il cuore alla meraviglia e alla lode, poiché tutto ciò è opera del Padre: “Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”. Ecco in cosa consiste la preghiera di Gesù: alla presenza di Dio, egli fa discernimento sulla sua vita e sulla missione, illuminato dalla preghiera, scopre il progetto e la volontà del Padre, e l’accoglie totalmente.

Dunque: non sono gli uomini che con la loro intelligenza e sapienza entrano nei segreti di Dio e ne comprendono l’agire, ma è lui, il Signore stesso, che si rivela e svela ciò che gli sta a cuore (in greco è usato il verbo apokalipto, da cui viene apocalisse, svelamento-rivelazione). Il Signore, quindi, svela il suo mistero, la sua vita intima, e la sua volontà di salvezza a coloro che si fanno “piccoli” davanti a lui. Questo svelamento avviene attraverso il Figlio.

Per questo Gesù può esclamare: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio vorrà  rivelarlo”. Leggendo queste parole si ha l’impressione che qui Gesù si lasci andare, cioè apre uno spiraglio, una finestra che ci consente di contemplare i segreti del suo rapporto intimo con il Padre.

In un solo versetto “Padre e Figlio” sono nominati ben tre volte, per dirci che tra i due c’è una conoscenza piena e reciproca. Il verbo “conoscere” nella Bibbia è pregnante: indica relazione intima, piena sintonia, comunione ed esperienza vitale. Quindi: tra il Padre e il Figlio vi è una conoscenza esperienziale piena ed esclusiva, tale da rendere Gesù l’unico Mediatore e Rivelatore del Padre.

Le “cose”, cioè i segreti nascosti ai sapienti e ai dotti di questo mondo, cioè la conoscenza intima tra Padre e Figlio, il loro amore esclusivo, il loro unico Spirito che è la vita di ambedue, è comunicata dal Figlio a coloro che lo accolgono con semplicità e fiducia.Un’altra preghiera di benedizione è quella che Gesù fa davanti alla tomba dell’amico Lazzaro: “Padre, ti benedico perché mi hai ascoltato. Sapevo che sempre mi ascolti” (Gv 11,41).

Detto questo grida a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori”. In questa preghiera colpisce il tono di incondizionata sicurezza, l’estrema fiducia nella bontà della richiesta e la certezza che sarà esaudita. E’ la preghiera del Figlio che si sa amato dal Padre e vive la perfetta sintonia con lui.

La preghiera sacerdotale

L’evangelista Giovanni ci tramanda una preghiera particolarmente densa che Gesù rivolge al Padre la sera dell’Ultima Cena, prima di affrontare la sua Passione. Dopo l’umile gesto della lavanda dei piedi, egli si intrattiene in colloquio intimo e intenso con i discepoli; poi alza gli occhi al cielo e prega: “Padre, è giunta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1).

Nell’imminenza della croce, dal cuore di Gesù sgorga questa preghiera che è un compendio della sua esistenza di Figlio. Egli ha rivelato a tutti il nome (cioè il mistero) di Dio come Padre. Ora, compiuta la missione, ritorna a lui che lo ha inviato. Ma non se ne torna da solo, bensì come primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29), grazie ad una vita vissuta e spesa nella piena solidarietà con questa umanità fallimentare, ma da lui amata follemente.

Al centro di questa preghiera è rivelata l’intima comunione d’amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo, l’amore trinitario che si apre all’esterno in un movimento progressivo di espansione. Si apre verso i discepoli lì presenti e verso coloro che crederanno in forza della loro parola: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi una sola cosa… Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità… L’amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17,21.23.26).

Gesù prega perché la Chiesa, la comunità dei credenti, sia immessa nel dialogo trinitario: non semplicemente perché i discepoli siano uniti tra di loro, ma perché la loro unità sia il prolungamento reale, storico visibile della comunione d’amore che costituisce il mistero di Dio.
La preghiera del Getsemani

Un’altra pagina in cui i Vangeli ci descrivono in modo esaustivo i contenuti, ma anche la qualità e lo stile filiale della preghiera di Gesù è quella del Getsemani. Una preghiera drammatica e, al tempo stesso, colma di fiducia nel Padre (leggere Mc 14,32-42). Ci soffermiamo un po’ più a lungo su questa preghiera perché ce la sentiamo molto vicina.

La notte del tradimento, Gesù insieme ai discepoli si reca nell’Orto degli ulivi per pregare. Il Getsemani è un posto, una zona all’interno dell’orto. Getsemani, in ebraico vuol dire “torchio”. Qui l’umanità di Gesù realmente viene “torchiata”, “spremuta” fino all’osso, fino a manifestare tutta la sua fragilità, simile a quella di ogni altro uomo; ma anche tutto l’amore che è capace di testimoniare.

“Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia “(Mc 14,33). Pietro, Giacomo e Giovanni sono i tre che sul Tabor hanno contemplato il suo volto splendente e la sua divinità che traspariva dal corpo trasfigurato. Ora, al Getsemani, gli stessi tre vedono da vicino l’umanità fragile e angosciata del loro Maestro.

“Cominciò a sentire paura e angoscia”, perché? Il quadro della situazione è molto chiaro e lucido agli occhi di Gesù. Egli sa bene ciò che lo attende: il tradimento di Giuda, l’arresto, il processo, l’inevitabile condanna, la crocifissione come il peggiore dei malfattori. La sua umanità avverte l’abisso del sacrificio e della sofferenza che lo sovrasta, e reagisce provando paura e angoscia.

Gesù non si vergogna di questi sentimenti, né di mostrare e condividere la sua fragilità estrema, ma chiede vicinanza e solidarietà agli amici. Confessa ai discepoli: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate. Poi, andato un po’ innanzi si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile passasse da lui quell’ora” (Mc 14,34).

Gesù rivive nella sua umanità il disorientamento di chi sperimenta il silenzio di Dio  e, addirittura, si sente abbandonato da Dio (nel quale, tuttavia, continua a confidare). In questa situazione affiora sulle sue labbra la preghiera della supplica: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te” Questa invocazione è il pieno riconoscimento dell’amore e della potenza di Dio.

Proprio da questa certezza sgorga l’implorazione di Gesù: “Padre, allontana da me questo calice”. Se Dio è buono e onnipotente, perché non interviene? Questo interrogativo che tante volte affiora dal nostro cuore nei momenti difficili della vita, è probabile che sia affiorato anche nell’animo di Gesù. Ma dopo il dibattito e il tentativo di sottrarsi alla propria via, ecco la fiducia rinnovata, l’abbandono senza riserve, l’accettazione incondizionata: “Tuttavia – aggiunge Gesù – non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36).

La supplica di Gesù nasce dall’angoscia e si conclude nella fiducia senza riserve. Al Getsemani, dunque, Gesù, prostrato, veglia, prega e lotta con se stesso e con Dio. La preghiera, infatti, è una lotta interiore. L’evangelista Luca la definisce esplicitamente “agonia” (Lc 22,44), agòne come quello degli atleti, un agòne cruentissimo, tanto che il sudore di Gesù scorre come sangue.

Dice Luca: «Il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano per terra» (Lc 22,44). Luca osserva che interviene perfino un Angelo ad irrobustire Gesù in questa lotta. È l’angelo Gabriele (“fortitudo Dei, fortezza di Dio”). Anche Gesù ne ha bisogno, infatti, in certi momenti, è necessaria una forza divina per affrontare gli eventi.

In questa lotta terribilmente faticosa, Gesù cerca il sostegno dei discepoli ai quali ha raccomandato di vegliare: «Tornato indietro li trovò addormentati e disse a Pietro: Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,37-38).

Per tre volte Gesù è costretto a constatare il sonno e la pesantezza dei discepoli, la loro distanza e incapacità di prendere parte alla sua sofferenza e al suo dramma. Quando torna dai discepoli la terza volta, dice loro:«Dormite ormai e riposatevi!». È il momento della svolta: Gesù, grazie alla forza attinta dalla preghiera al Padre, pone fine alla sua lotta, accetta il calice e ritrova serenità e forza d’animo per andare avanti, fino in fondo.

Questa forza è dono dello Spirito santo. Per questo non dice più ai discepoli di vegliare, ma: “Dormite!”. Non è un’ironia quest’espressione! Il dormire, infatti, somiglia al “morire”. Pertanto, dopo l’agonia del Signore, ogni discepolo può abbandonarsi alla morte, fiducioso che anche lì incontrerà il suo Signore che lo ha preceduto nella stessa esperienza. Nella nostra morte, saremo raccolti, sollevati e fatti risorgere dal Signore della vita.

L’esperienza del Getsemani si chiude con l’ordine di Gesù ai discepoli: «Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Mc 14,42). Alzatevi (eighèreste), eghèiro è il verbo della risurrezione. Ecco il paradosso: l’ora in cui Gesù viene tradito e consegnato, in un certo senso anticipa e racchiude in sé l’evento della risurrezione, cioè la vittoria di Dio sui nostri tradimenti e sulla morte.

Questo perché Gesù si consegna per realizzare il progetto del Padre che è la “salvezza” di noi tutti, attraverso il suo “dono” di figlio obbediente. Tutto ciò che avviene da questo momento in avanti, non sarà altro che l’esplicitarsi di quel “dono”, di quella “consegna”, portatrice di salvezza per tutti.

La preghiera al Calvario

Le ultime preghiere di Gesù sono quelle che fa dalla croce. Prima intercede a favore dei suoi crocifissori: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Non solo invoca il perdono per i nemici, ma addirittura li scusa davanti a Dio: “Non sanno quello che fanno”. Infine, la preghiera drammatica eppure colma di fiducia e di abbandono filiale: “Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabàctani?”, che significa: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? (Mc 15,33-34).

“Poi, Gesù gridando a gran voce disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Detto questo, spirò” (Lc 23,46). Il primo grido di Gesù è un lamento rivolto al Padre. E’ il lamento del salmista per il silenzio di Dio di cui fa esperienza anche lui nel momento cruciale dell’agonia. Ma a questo lamento segue un ultimo grido, un grido di fiducia e di consegna filiale: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. L’ultimo gesto di Gesù è la consegna di sé al Padre.

Elementi e contenuti della preghiera di Gesù

A conclusione di queste riflessioni, possiamo cogliere alcuni elementi che caratterizzano la preghiera di Gesù.

1. Per Gesù la preghiera è coltivare la relazione filiale con il Padre. Ai suoi occhi, Dio non è qualcosa di evanescente, ma una persona e una presenza viva e palpitante, è la fonte sorgiva da cui promana la vita, l’amore, la salvezza.

2. Per Gesù la preghiera non è un momento come altri della sua giornata, ma una dimensione costante ed essenziale della vita e della missione.

3. Gesù, ponendosi in ascolto orante del Padre, fa discernimento sugli avvenimenti della storia e sulla sua vita. Alla luce della Parola scopre la volontà di Dio e l’accoglie con radicale obbedienza.

4. In Gesù non c’è dicotomia, non c’è frattura tra preghiera e vita; egli, infatti, nella preghiera porta e offre la fatica e i frutti del vissuto, e nella vita incarna e realizza ciò che ha espresso e chiesto nella preghiera.

5. Nella preghiera sacerdotale Gesù si mostra come il Buon Pastore che affida il suo gregge nelle mani del Padre e per esso invoca il dono dell’unità.

6. Gesù nella preghiera chiede al Padre che lo liberi dalla sofferenza (“allontana da me questo calice”); ma, soprattutto, decide di consegnare se stesso nelle mani di Dio perché il suo progetto di salvezza si realizzi (“però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”).

Gesù maestro di preghiera

Gesù di Nazareth non è solo uomo di preghiera, l’orante per eccellenza nella sua relazione filiale con il Padre, egli è anche “Maestro di preghiera”, impegnato ad iniziare noi suoi discepoli a pregare, anzi: ad introdurci nella sua preghiera di Figlio, a renderci partecipi della sua intimità con Dio. Questa sua preoccupazione traspare dal Vangelo: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare –scrive l’evangelista Luca- quando ebbe finito uno dei suoi discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1).

Quel discepolo senza nome (perché rappresenta tutti noi) incuriosito e affascinato dalla scena cui assiste, attratto da quel modo di stare davanti a Dio, osa chiedere: Signore, insegnami, insegnaci a pregare come fai tu. E Gesù prontamente risponde: “Quando pregate dite : Padre, Abbà” (Lc 11,2). Egli, quindi, abilita e invita anche noi a dire Abbà; così ci introduce nella sua preghiera, cioè nella stessa comunione intima e nel suo dialogo d’amore con il Padre.

La “paternità” di Dio nella quale Gesù ci introduce è anche rivelazione e fondamento della nostra “fraternità”. Pregando il Padre comune, quindi, ci impegniamo ogni giorno a costruire fraternità con tutti, proprio perché tutti siamo amati dal Padre. E Gesù, ogni giorno, rinnova a tutti noi la sua “consegna”: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato; da questo gli uomini sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri” (Gv 15,12).
Aurelio Antista