Gianfranco Ravasi: «Anche Gesù usava i tweet (a fin di bene)»

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Il cardinal Ravasi, ministro della Cultura del Vaticano, dice: «Le macerie del nostro tempo sono la stupidità e la volgarità». Mostra come anche Gesù utilizzasse i tweet («Rendete a Cesare…, 52 caratteri») e quali sono le principali armi di Papa Francesco. E indica gli esami di coscienza che deve fare la Chiesa

 Odi et amo, uno dei versi più belli del poeta latino Catullo, sintetizza i due poli estremi dello spirito del tempo. In questi ultimi anni, le iniezioni di negatività hanno intossicato la convivenza, non solo nella società italiana, e spesso avvelenato i pozzi, impedendo, a chi cercava di farlo, di ribaltare la tendenza e diffondere positività. Il cardinal Gianfranco Ravasi dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura: è il ministro della Cultura del Vaticano. Mi riceve negli uffici di via della Conciliazione, a Roma, mentre il sole che si avvia a tramontare avvolge in una luce quasi mistica il cupolone di San Pietro.

Eminenza, che ne pensa: l’ago che negli ultimi anni sul barometro dei sentimenti della convivenza civile puntava deciso verso l’odio ha cambiato direzione, come abbiamo annunciato sulla copertina di questo di 7?
«L’amico Mario Luzi, il famoso poeta fiorentino, parlava in una sua poesia del “bulbo della speranza” nascosto sotto al cumulo delle macerie del tempo cupo che stiamo attraversando. E lo diceva anni fa. Il compito della poesia, delle religioni e della cultura, è proprio quello di andare a scovare i bulbi nascosti sotto. Permane ancora molta maceria, di questo dobbiamo essere consapevoli. Pensi all’atmosfera così inquinata anche dal punto di vista fisico… e soprattutto dal punto di vista sociale, spirituale e culturale». E c’è anche chi aggiunge macerie alle macerie… «È la via più semplice. La distruzione dei miti, la distruzione della buona educazione, la distruzione delle élite – cioè della nobiltà spirituale e del pensiero –, la distruzione delle relazioni divenute artificiose, è una tentazione quasi comprensibile. Il compito nostro invece è quello più faticoso: cominciare a scavare, come vigili del fuoco per rintracciare i germi vitali».

Come vede dunque le macerie del nostro tempo?

«Non sono quelle in mezzo alle quali sono nato io, nel 1942, con una Guerra Mondiale, con fiumi di sangue e due pazzi lucidi che dominavano l’Europa, Hitler e Stalin, c’era l’Olocausto, c’erano le distruzioni dei bombardamenti. Ora no. Ci sono sempre le guerre, ma non con quella epifania del male. C’è come una polvere diffusa: è la superficialità, la banalità, la volgarità, la stupidità. Tanti anni fa, a Milano, ho conosciuto lo scrittore Riccardo Bacchelli. Una volta che andai a trovarlo, dopo aver parlato a lungo della crisi di allora, accompagnandomi all’ascensore mi sorprese dicendomi: “Reverendo, si ricordi di una cosa: gli stupidi impressionano non foss’altro che per il numero”. Ecco, non dovrebbero, ma impressionano per il numero».

Come si combatte questa stupidità?

«I problemi più gravi di ogni tempo li evidenziano e lo fanno ancor oggi i profeti. Anche nella Bibbia c’erano persino profeti laici, come Amos, un contadino. Abbiamo visto figure profetiche anche nella politica, figure straordinarie, nell’immediato dopoguerra. Essi puntano al cervello e al cuore. Prima di tutto fanno vedere la realtà, nella sua autenticità – quindi il cervello – per farci scoprire i valori autentici; poi vanno al cuore, perché impegnano nella passione. Oggi, invece, molti parlano alla pancia. Una volta il sociologo canadese Charles Taylor, l’autore de L’età secolare, mi disse: “Se oggi arrivasse Cristo in piazza e cominciasse ad annunciare la sua Parola – che era fuoco vero – cosa accadrebbe? Al massimo gli chiederebbero i documenti”. Trovo bellissima l’immagine del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus quando, a proposito della persona umana, dice: “Quello che volevo identificare erano i contorni di un’isola”, cioè l’uomo, come creatura finita. E continuava: “Ciò che ho scoperto alla fine erano le frontiere dell’oceano”. La superficialità è guardare solo al contorno dell’isola, cioè alla pancia, alla pelle, all’esteriorità, all’interesse immediato».

Per continuare con la metafora dei bulbi di speranza… lei pensa che a un certo punto ci sarà una maggioranza silenziosa che reagirà, e comincerà a estrarli?

«Sono convinto che la maggioranza della società non si preoccupi di estrarre bulbi di valore dalle macerie. Questo, allora, dovrebbe essere il compito delle religioni autentiche e della cultura: essere minoranza che stimola. Una minoranza “offensiva”. E siccome una minoranza non può mai esserlo con le armi perché sarebbe sempre perdente, deve diventare una sorta di spina nel fianco».

Il senso di responsabilità è un compito di minoranza.

«Sì, bisogna creare consapevolezza. Lo dico anche per quanto riguarda la Chiesa oggi in Italia. Io provengo dalla Brianza: la domenica mattina tanta gente confluiva in chiesa per la Messa. Adesso quando torno a casa, in chiesa non trovo nessuno che non abbia un capello grigio! Tuttavia, questa minoranza può diventare più efficace della grande e imponente maggioranza».

Mi faccia capire meglio cosa intende.

«Prendiamo la figura – tra l’altro anche contestata – di Papa Francesco. Lui dice cose che sono spesso evidentemente di minoranza. E si vedono le reazioni che provoca. Ma la spina nel fianco, quando è autentica, non necessariamente è perdente, come accade nell’attenzione che suscita».

Quali sono le parole chiave del Papa per combattere le macerie? «Francesco ha soprattutto tre elementi che metterei in luce. Innanzitutto ha capito che per la società contemporanea il linguaggio è fondamentale. Se parlo un linguaggio obsoleto, la sordità è scontata – da “sordo” deriva “assurdo”. Oggi è considerato assurdo ciò che la gente non riesce ad accettare all’interno della conchiglia del proprio orecchio, cioé ad adattare al suo interesse».

E il linguaggio del Papa com’è?
«Ha capito che ora è necessaria la frase essenziale senza tante subordinate. Sappiamo che oggi domina lo slogan. Alcuni politici vincono perché ce l’hanno sempre pronto e hanno alle spalle troupe che lavorano per trovare quello più adatto. È indispensabile adottare, anche nei valori, il ricorso all’essenzialità per una maggiore incisività».

La semplificazione spesso scatena la contrapposizione, attizza l’odio. Penso ai tweet incendiari di Trump.
«Questo è indubbio. Tuttavia questa modalità può essere usata anche per servire il bene. Pure io mi sono piegato al tweet. Non dimentichiamo che Cristo ha parlato tendenzialmente in parabole e ha usato i tweet».

In che senso?

«“Rendete a Cesare quel che è di Cesare, rendete a Dio quel che è di Dio”: in greco, con gli spazi, sono 52 caratteri, pochi rispetto ai 280 oggi possibili! E pensiamo a quanto per secoli si sia discusso sul rapporto fede e politica».

Diceva tre chiavi per capire il Papa fra le macerie d’oggi.
«Il pontefice ha capito poi che la cultura contemporanea è tendenzialmente legata alle immagini. E le usa: le “periferie”, l’“odore delle pecore”, la “Chiesa ospedale da campo”, il “sudario non ha tasche”… C’è infine il terzo elemento: il modo in cui usa il corpo, la corporeità. Nelle udienze generali parla per una ventina di minuti, poi sta un’ora con la gente. Che così incontra una persona concreta, non avvolta in un alone di luce e di distacco».

Tornando ai bulbi di speranza. Quali sono le parole che meglio li rappresentano: dialogo, amore, solidarietà?

«Partirei dal primo: il dialogo. Nel senso etimologico è l’incrocio di due logoi, due discorsi. Il discorso non è da intendere solo come un ragionamento, ma come un’esperienza fondata, una visione che dà un senso. Il confronto con l’altro può aiutare a scoprire meglio il senso ultimo dell’essere e dell’esistere. Nella parola “dialogo” poi, dià in greco vuol dire anche in profondità, diabasi significa scendere. E se si vuol tirare fuori il bulbo che c’è sotto il dialogo bisogna essere seri, fare fatica. Tutti fanno l’elogio della lentezza. Io vorrei farlo della fatica. La seconda parola è l’“amore” autentico, non quello di pelle, ma quello profondo, capace di unire sesso, eros e amore. Se sei innamorato davvero cominci a capire genuinamente cosa significa donarsi all’altro. È questo che dobbiamo insegnare ai giovani, che riducono l’esperienza al sesso, mentre è anche tenerezza, bellezza, passione, sentimento. Come fai a esprimere tenerezza con i messaggini? ».

Voleva fare l’elogio della fatica.

«I giovani sono convinti che questa sia brutalità, sudore. Ed è vero, non s’impara per osmosi. Ma la verità è che se tu moltiplichi l’esercizio dell’impegno, la fatica alla fine diventa una realtà spontanea e creativa. Pensiamo a un atleta o a una ballerina classica e alle infinite ore di esercizio. Ma quando nel Lago dei cigni una étoile ruota sul suo alluce sfidando le leggi della fisica non pensa più a quello che deve fare, alla sequenza dei movimenti. Tutto le viene spontaneamente. È creatività pura, è libertà pura».

Oggi la politica, in tutto il mondo, sparge la polvere dell’egoismo, accende la rabbia.
«È il paradosso. La politica, come dice la radice polis, città, è lo stare insieme e la società, è essere soci, compagni di vita. Invece ora fa di tutto per creare forme di “autismo” spirituale, come la paura dell’altro. Quando sei rinchiuso nella tua fortezza sovrana, ci si riduce all’egoismo, che non è certo la bellezza della vita, la quale invece è rischiare. In questo la funzione dell’arte è una sorta di antidoto, proprio come lo è la vera religione».

Ricorda, nella politica, protagonisti positivi?

«De Gasperi, Adenauer, Schumann, Spinelli… e altri». L’europeismo fondativo, vero e sano. «Sì, eppure talora venivano dalla provincia, pensiamo a De Gasperi. Un’altra figura, che pochi conoscono, è Dag Hammarskjöld, il segretario generale dell’Onu morto nelle operazioni di pace in Africa, dove fu abbattuto col suo aereo. Si era dedicato a stabilire ponti all’interno dei conflitti. Ma penso anche ai sindaci di paese di un tempo: conoscevano tutti gli abitanti, condividevano i loro problemi, alla fine venivano eletti. Ora i politici vivono quasi esclusivamente per farsi rieleggere, spesso col ricorso alla demagogia».

I populismi, oggi una delle leve fondamentali della politica non solo in Italia, non rischiano di essere uno strumento per apprendisti stregoni? C’è il pericolo che scappi di mano a chi li maneggia, come è già successo. «Il populismo viene da “popolo”, parte da un nucleo positivo. Ritrovare l’identità di un popolo è una cosa bella, pensiamo alla gloria dell’Italia dal punto di vista artistico, culturale, filosofico. L’identità che si fa cristallizzazione e respinge l’altro diventa invece una fortezza. Essa alla fine, all’interno, ha un popolo schiavo, incapace di interrogarsi. In italiano abbiamo una bella parola: “incontro”. È costituita da due elementi, “in” che è andare verso, e “contro” perché l’altro è, sì, identico a te, ma è anche diverso da te. Il populismo suppone solo il “noi”, l’“identità nostra” salvifica. Noi potremmo costruire, invece del “duello” che il populismo crea, un “duetto”. Il duetto può essere tra un basso e un soprano… Cosa c’è di più diverso? E non è che il basso debba fare il falsetto e il soprano scendere di un’ottava: l’armonia è creata da ciascuno con la propria voce. La diversità nell’identità».

Parliamo dei social. A me sembrano ancora un Far West. L’anno scorso anche lei si è trovato di fronte alla reazione della Rete dopo aver messo una frase del Vangelo su Twitter. Perfino Salvini era intervenuto…

«La Rete è questa, eppure bisogna esserci. Non si può essere né apocalittici né integrati, come diceva Eco. McLuhan sosteneva che questi mezzi di comunicazione sono “l’estensione dell’uomo” e dei suoi organi: tele-fono, tele-visione, tele-scopio… Ma la vera rivoluzione è che si è creato un nuovo ambiente, l’infosfera, un nuovo mondo a cui non ci si può sottrarre. Dovremmo fare in modo – sempre secondo il principio della spina nel fianco – di non adeguarci alle derive e di non farci condizionare: pensiamo a cosa riescono a fare i grandi gestori delle reti informatiche nei confronti degli utenti».

Ad alimentare l’odio ci sono adesso anche le manipolazioni delle fake news.

«La “post-verità”, una falsità reiterata che diventa verità successiva, è un paradosso incredibile. Un falsità non può mai diventare verità! È per questo che bisogna “stare dentro” nella Rete con passione, perché ci sono delle meraviglie, ma è anche necessario introdurre sempre il seme della ricerca dell’autentica verità. Un altro “bulbo” potrebbe essere appunto quello della ricerca, in tutti i sensi, anche scientifica. Non essere mai contenti di ciò che ci viene dato. Platone mette in bocca a Socrate nell’Apologia di Socrate una sorta di testamento finale: “Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. Questa ricerca è l’inquietudine interiore, e i giovani ce l’hanno. L’inquietudine ha anche un volto negativo, ma può diventare la spinta all’interrogarsi, è l’“Inquietum est cor nostrum” di cui parlava Agostino. Lo scrittore francese Julien Green diceva: “Finché si è inquieti si può stare tranquilli”.

Fra le molte cose negative del nostro tempo c’è anche lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Il Papa ha preso una posizione molto forte. Quanto tempo ci vorrà perché la Chiesa ci faccia i conti pienamente? 

«Questo può essere un esempio dell’“autospina” che Francesco ha voluto introdurre nella Chiesa, e prima di lui Benedetto XVI. Anche il credente deve essere autocosciente e autocritico, altrimenti è solo specchio della società. Martin Luther King sosteneva che “il cristiano nel mondo non dev’essere un termometro ma un termostato”. Non deve registrare la temperatura dell’ambiente, ma scaldare. Certo, per il fenomeno della pedofilia s’è puntato l’indice violentemente solo contro la Chiesa, ma sappiamo che in realtà il livello più alto è nella famiglia, e poi nello sport… Ma quello autodifensivo e apologetico non sarebbe l’atteggiamento giusto. Questo problema pone, allora, una serie di corollari: la formazione nei seminari, la riflessione sull’educazione al celibato, anche se si sa che il problema esiste in maniera identica in altre confessioni religiose che hanno invece il matrimonio dei loro ecclesiastici. E poi la selezione dei sacerdoti. Tutta una serie di esami di coscienze e di verifiche che devono essere fatte nell’interno della Chiesa. Anche, aggiungendo il fatto che il peccato fa parte comunque di una dimensione della Chiesa, che è una realtà incarnata e non eterea. Pensiamo alla corruzione del papato di certi periodi del Medioevo. Ancora Sant’Agostino ha una bella immagine: “La Chiesa è come l’Arca di Noè all’interno della quale c’era la colomba e c’erano i corvi”. La religione ebraico-cristiana, in particolare cristiana, è una religione storica e quindi carnale».

“Il Verbo si fece carne”…

«Lo scandalo fa parte, in qualche modo, della struttura della Chiesa, divina ma anche umana. Non è angelica, non decolla dalla realtà verso cieli mitici e mistici, è impiantata nel terreno della storia. Se la pedofilia dev’essere eliminata, lo dev’essere anche l’attaccamento al potere e al denaro. Ma dobbiamo ricordare che esiste, per il credente, anche la presenza del divino, della forza dello Spirito che è purificazione e catarsi. L’appello che Papa Francesco fa spesso è, però, duplice: condanna e severità, ma senza dimenticare anche la misericordia».