Giobbe: la sofferenza dell’innocente di Bruna Costacurta

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Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito una relazione della prof.ssa Bruna Costacurta sul libro di Giobbe. Il testo è tratto direttamente dalla registrazione di una meditazione ed è pertanto privo dei rimandi scientifici e bibliografici, proprio a motivo della sua origine. La trascrizione è stata curata dal Servizio di Formazione permanente del clero della diocesi di Roma e non è stata rivista dall’autrice. Il nostro Centro culturale ha apportato alcuni ritocchi a quella trascrizione per rendere più scorrevole il testo.


Il libro di Giobbe è il primo grande libro sapienziale. Cercherò di introdurvi alla lettura di questo testo. Posso semplicemente dirvi qual è la problematica che soggiace a questo testo e quali sono le linee interpretative da tener presente per poterlo leggere.

Il libro di Giobbe è stato scritto tardi, certamente dopo l’esilio di Babilonia. Dunque, è un libro che risente della problematica dell’esilio, che è quella di un popolo che improvvisamente vede frantumata tutta la sua speranza, che vede disilluse le sue attese, anzi che vede infrangersi addirittura la propria fede nel Signore, perché Dio nell’esilio sembra rivelarsi non più credibile perché non è più fedele alle sue promesse.

E’ un momento tragico in cui i conti non tornano più! Ci si era fidati di Dio e adesso questo non funziona! Ci si era fidati di Dio e sembrava che questo dovesse servire per vivere e invece ci si ritrova che si muore. La grande domanda che sorge nei libri post-esilici è: che cosa può voler dire la sofferenza dell’uomo e in particolare la sofferenza di un uomo innocente? Perché Israele ha dovuto soffrire l’esilio? Questa domanda diventa la domanda di ogni uomo: perché l’uomo deve soffrire? E perché esiste nel mondo una sofferenza che colpisce anche coloro che non la meritano?

Il modo con cui il libro di Giobbe si svolge è questo: abbiamo un prologo e un epilogo che sono in prosa e poi dentro, all’interno, invece una quarantina di capitoli in poesia. Il prologo è composto dai cap. 1 e 2. Narra la storia di Giobbe, un uomo molto pio e timorato di Dio, che vive secondo la legge del Signore e sul quale a un certo punto si gioca una sfida tra satana e Dio stesso. Satana pone a Dio il problema: “Ecco Giobbe ti è fedele, è pio, solo perché Giobbe è ricco e felice”.

In altre parole: la fedeltà di Giobbe dipende dalla propria situazione di benedizione. Giobbe è un uomo pio e perciò è ricco, ha molti figli, ha buona salute, la sua terra è fertile, gli armenti sono fecondi, un uomo buono che ha un ottimo rapporto con la vita e la vita è generosa con lui, perché lui è generoso con gli altri. Arriva Satana e dice a Dio: Giobbe ti è fedele solo perché sta bene, prova a toccarlo e vedrai che la sua fedeltà si disintegra e ti maledirà! Dio accetta la sfida e Giobbe viene colpito nei suoi averi: il raccolto brucia, la terra non fa più frutti, gli armenti muoiono, perde tutte le ricchezze, muoiono i figli, Giobbe è ridotto alla rovina. Eppure, nonostante questo, rimane fedeleIl Signore ha dato, il Signore ha tolto! Sia benedetto il nome del Signore!

Allora Satana insiste e dice: “Questa fedeltà di Giobbe è ancora possibile, perché sono state toccate solo le cose che lui ha; prova a toccare quello che lui è, e vedrai se ti maledice. Finora sono stati toccati gli averi di Giobbe, adesso prova a toccare la sua vita e vedrai!” E allora anche la vita di Giobbe viene toccata. Viene colpito da una malattia che lo porta in faccia alla morte.

Arrivano gli amici per fare il cordoglio con lui, arrivano degli amici per consolarlo, e però questi amici di fatto si siedono in silenzio accanto a Giobbe per il tempo che serve per fare il lutto. Giobbe, in altre parole, è oramai condannato a morte! In questa situazione Giobbe rimane fedele e allora – ecco l’epilogo – al cap. 42,7-17, Giobbe era rimasto fedele e quindi Dio lo reintegra nella sua situazione di prima. Giobbe ritrova la salute, gli vengono ridonate ricchezze, fecondità, figli e tutto. Anzi, tutto centuplicato e così vissero tutti felici e contenti.

Questa è la storia di Giobbe dentro alla quale abbiamo i 40 capitoli in poesia, che sono il dramma di Giobbe vero e proprio. Questi 40 capitoli sono la grande lotta che Giobbe fa per riuscire a capire il senso di quello che gli sta avvenendo.

Giobbe è condannato a morte pur essendo un uomo fedele a Dio. Per 40 capitoli il problema è questo: com’è possibile che un uomo debba soffrire e morire se non ha fatto nulla per meritare questo? I 40 capitoli centrali iniziano al cap. 3 con il grande grido di Giobbe che maledice il giorno della propria nascita e dopo questo prosegue; poi abbiamo un ciclo di discorsi degli amici di Giobbe, che a turno parlano per consolare Giobbe e Giobbe risponde. E questo avviene per tre volte. Ci sono i tre amici e allora parla un amico e Giobbe risponde, parla il secondo amico e Giobbe risponde, parla il terzo amico e Giobbe risponde e questo per tre volte.

Solo che quei dialoghi non sono dialoghi. Gli amici vanno avanti per conto loro e fanno il loro discorso e Giobbe va avanti per conto suo e fa il suo discorso. Classico dialogo tra sordi, dove il discorso non può procedere perché non c’è vero ascolto dell’altro. Alla fine Giobbe chiude il ciclo con un lungo discorso che è la poesia di se stesso e che culmina con la proclamazione solenne della propria innocenza. Qui abbiamo un intermezzo di cinque capitoli, nei quali è Eliu che parla, che sarebbe il giovincello che crede d’aver capito tutto e che ricomincia a ripetere quello che hanno già detto tutti gli altri; alla fine di questo risponde Dio. Così si articola il libro.

Adesso dobbiamo occuparci del contenuto di questo libro, qual è il senso e in che modo va letto. Mi sembra di poter dire che questo libro di Giobbe è un testo sapienziale che ha come scopo di mettere in crisi la vecchia sapienza. In altre parole, è un testo sapienziale che, essendo sapienziale, ricerca la verità dell’uomo e del suo senso, camminando con la storia dell’uomo e quindi non accontentandosi di discorsi o di risposte date una volta per sempre. Perché vengono date delle risposte ai problemi dell’uomo, ma poi la situazione dell’uomo cambia e allora quando si pongono nuove domande non bastano più le vecchie risposte. Se ci sono delle nuove domande è necessario arrivare anche a delle nuove risposte.

Qual è la nuova domanda e quali sono le vecchie risposte che non bastano più? La domanda sembra vecchia e cioè: perché l’uomo soffre? Le risposte tradizionali davanti al problema della sofferenza dell’uomo possiamo dire che mandavano in due direzioni. Due direzioni possibili di risposta al problema perché l’uomo soffre.

La prima risposta è quella della teoria retributiva. In altre parole si organizza un sistema concettuale di spiegazione molto semplice. Se l’uomo è buono, tutto gli va bene! Se l’uomo è cattivo, tutto gli va male! Dunque, se a qualcuno le cose vanno male, se qualcuno soffre, è perché è stato cattivo. Il problema è risolto facilmente. Non c’è sofferenza immeritata! Se soffri è perché hai peccato; invece, sei felice perché tu sei buono. Questa era la teoria tradizionale della sapienza, che si trova in molti testi sapienziali dell’A.T., per esempio nel libro dei Proverbi. Colui che è giusto accumula per sé e per i propri nipoti e colui che invece è malvagio accumula e tutto quello che ha accumulato finirà ai giusti. Di per sé come teoria è simpatica; peccato che non sia verificabile nella realtà che dice il contrario.

Altra risposta possibile al problema della sofferenza secondo un differente filone di pensiero che dice: No! Al di là della teoria retributiva c’è anche un’altra componente che è quella della prova. Ci può essere una situazione di sofferenza nella vita dell’uomo, anche nella vita dell’uomo giusto, e questo è determinato dal fatto che Dio mette alla prova l’uomo. Una cosa che deve servire a vagliare la fedeltà dell’uomo e che deve servire a rivelare il vero cuore dell’uomo. Queste sono le due teorie classiche.

Ora, che cosa fa il libro di Giobbe? Le mette in crisi, perché pone una situazione, un problema, per rispondere al quale quelle due teorie non servono più. Perché il problema che si pone è quello di un uomo che soffre, anzi che soffre fino a morire, che è prossimo alla morte, pur essendo giusto. Allora è chiaro che la teoria retributiva non funziona, perché per soffrire ci vuole una colpa; invece la situazione di Giobbe è di essere senza colpa. E non può funzionare neppure l’altra. Innanzitutto in Giobbe il concetto di “prova” si capovolge, perché non è Dio che decide di provare l’uomo, ma è Satana. Il concetto che Dio mette l’uomo alla prova, viene capovolto da Giobbe, perché nella storia di Giobbe è Satana che va da Dio e dice: proviamo a metterlo alla prova e poi vedrai! Non è Dio che mette alla prova Giobbe! La prova di Giobbe semmai è il risultato di questo patto infame tra Dio e Satana.

Già diventa problematico parlare di “prova” nel libro di Giobbe, ma poi la cosa è completamente esclusa dal fatto che la prova per essere tale necessariamente deve essere una cosa momentanea. Uno dice: voglio provare quest’uomo per vedere se è buono, e per questo lo ammazzo! Che cosa provi con questo? Non puoi provare più niente, perché quello è morto e non potrai mai sapere se era buono o no! E questo è il discorso di Giobbe: la prova può essere solo un fatto momentaneo e relativo, non definitivo! Il concetto stesso di prova chiede che sia una cosa che finisce, se no non si chiama più prova! Se è prova deve finire, e invece per Giobbe non finisce, perché è una prova che lo ammazza e allora neppure questo discorso può funzionare.

Il libro di Giobbe è questa lotta strenua, fino all’ultimo sangue, tra Giobbe e gli amici, tra il problema di Giobbe e gli amici che invece si fanno i propugnatori delle vecchie teorie della prova e della retribuzione. Così arrivano gli amici che devono consolare Giobbe che soffre ingiustamente e la loro consolazione è di ignorare radicalmente il problema di Giobbe, di non prendere in considerazione qual è la vera domanda di Giobbe e cominciare a dire: ah! E’ colpa tua! Ah! Non è colpa tua, ma è colpa dei figli! Ma hai visto: ti sono morti anche i figli! E così consolano Giobbe. Le vecchie teorie che diventano più importanti dell’uomo!

Quando una teoria è consolidata non si accetta di metterla in discussione, perché se metti in discussione la teoria, devi incominciare, devi di nuovo interrogarti, devi passare necessariamente attraverso un vuoto di sicurezze, perché almeno finché non hai trovato la nuova risposta sei senza risposte e quindi è la crisi che chiede il silenzio, che chiede di dire: ecco, io in questo momento non so rispondere! Non ci sono delle risposte, ma bisognerebbe dire piuttosto: Non so! Devo capire. Bisogna attendere, bisogna passare attraverso il momento della confusione, bisogna passare attraverso il momento della crisi della fede. Per fare questo bisogna avere un grande coraggio e allora si preferisce evitare e se c’è qualcuno che ti mette in discussione la tua teoria, tu semplicemente ignori quel qualcuno e continui a dire che il problema è in questi altri termini!

Ed è molto interessante, perché i discorsi degli amici di Giobbe passano sopra la testa di Giobbe. È come quando uno guarda uno e guarda al di là; davanti non ha una persona, ha un vetro: non lo vede! Si procede nella propria linea e si impedisce alla verità di mettere in questione quelle che noi crediamo siano le nostre verità. Nel fare questo gli amici di Giobbe addirittura mettono di mezzo Dio. Siccome devono far tornare i conti, il problema che pone Giobbe è questo: o Giobbe è davvero innocente e allora è colpevole Dio che lo sta facendo soffrire ingiustamente, o se vogliamo salvare Dio e dire che Dio è innocente è necessario che sia colpevole Giobbe. Gli amici si schierano dalla parte di Dio e allora per poter continuare a dire che Dio è giusto devono necessariamente dire che Giobbe è ingiusto e, invece di consolare Giobbe, le loro parole diventano parole di accusa nei confronti di Giobbe; solo che invece Giobbe è veramente giusto, di una giustizia umana.

Giobbe parla della propria fragilità e debolezza; non è il Giobbe arrogante, presuntuoso, che pretende di essere santo e accusa Dio, dicendo: io sono santo, dunque! Giobbe è l’uomo fragile che conosce la propria fragilità, ma che siccome ha vissuto la propria fragilità e la propria debolezza fidandosi di Dio, ora deve dire che quello che sta vivendo di sofferenza non è proporzionato alla propria fragilità. Il problema di Giobbe è quello dell’uomo che soffre ingiustamente e cioè di una sofferenza che non è proporzionata alla sua verità. Perché la sofferenza che Giobbe sta patendo è una sofferenza definitiva. Giobbe è condannato a morte. Non c’è proporzione tra la condanna a morte e la ricerca sincera di fedeltà che aveva guidato la vita di Giobbe.

E di Giobbe si dice che era giusto. Il problema che pone il libro di Giobbe è il problema che si pone per ogni uomo, perché non c’è mai proporzione vera tra la morte e l’uomo. Qualunque cosa faccia l’uomo, la morte è una condanna sproporzionata alla fragilità dell’uomo. Perché poi si scopre che l’uomo non sapeva quello che faceva e invece la morte rende definitiva la sua scelta. Non c’è proporzione! In altre parole, dice il libro di Giobbe: ogni sofferenza è ingiusta. A maggior ragione poi è ingiusta la sofferenza di chi è giusto.

Questa è la problematica che Giobbe allora porta avanti cercando disperatamente di trovare il confronto con Dio. Giobbe apre la bocca al capitolo terzo e comincia a maledire il giorno della sua nascita. Quella della maledizione era stata proprio la sfida di Satana: “Prova a toccarlo nella carne, poi vedrai se non ti maledice!” Giobbe viene toccato nella carne e maledice, ma attenzione: non maledice Dio – questa era la sfida di Satana – maledice il giorno della propria nascita. Cioè erompe in quel lamento che dice che la vita è talmente insostenibile che è meglio non cominciarla mai: questo vuol dire maledire il giorno della nascita, cioè desiderare di non aver mai cominciato a vivere, perché la vita è un inganno, perché la vita viene data perché l’uomo viva e invece l’uomo, quando vive, muore; anzi, vive per morire! Anzi, può vivere già la morte perché è toccato dalla sofferenza che è un’anticipazione della morte ed è comunque un procedere verso la morte.

Allora la promessa di vita viene smentita dalla vita stessa che si presenta come una vita di morte e allora, dice Giobbe: “Maledetto il giorno in cui io sono nato”. Oppure meglio ancora bisogna dire: “maledetta la notte in cui mio padre e mia madre mi hanno concepito!” Proprio perché sia chiaro che il rifiuto della vita è totale, talmente totale che non solo si rifiuta la vita dalla nascita in poi, ma si rifiuta la vita nel momento germinale, nel momento del concepimento. Tutto ciò che è esistere viene rifiutato da Giobbe come non-senso, come menzogna, come inganno e perciò maledetto. E così Giobbe va sognando di non essere mai nato, in modo che così non ha mai vissuto e così non deve neppure mai morire! L’angoscia del morire gli fa desiderare non di essere già morto, ma addirittura di non avere mai cominciato a vivere; e se poi proprio è necessario cominciare a vivere almeno di essere già morto.

E così Giobbe comincia dicendo: “Ah, magari, non fossi mai stato concepito”. E finisce dicendo: “Magari almeno fossi morto, così ora mi riposerei!” E proietta in questa sua visione della morte il suo vero desiderio della vita. Incomincia a dipingere la morte come la vita che lui desidera. È questa la follia che pone Giobbe come problema: il fatto che l’uomo, quando vive, proprio nel suo vivere l’unica cosa sensata che può fare è di desiderare di morire; e desiderare la morte è l’unico modo in cui lui può proiettare il proprio sogno di vita. Per cui la vita è tale che l’unico modo per viverla in modo decente è di desiderare di viverla da morto, perché allora lì forse la vita si acquieta, forse lì la vita diventa accettabile.

E allora dice Giobbe: se è così, cosa vuol dire far nascere un uomo, cosa vuol dire aprire il grembo di una madre e portare alla luce un uomo, un uomo che vive sognando la tomba, un uomo che è felice all’idea di morire, un uomo a cui Dio ha sbarrato tutte le strade? Che significa che Dio fa nascere un uomo se questo nascere è per desiderare di morire? E che significa che Dio nel far nascere un uomo gli dona la vita, se questa vita viene da Dio stesso sbarrata in tutte le sue parti?

Questo è il problema di Giobbe, che comincia con la grande maledizione e finisce nominando il responsabile. Comincia genericamente: “Maledetto il giorno in cui sono nato”. E finisce, dicendo: “È Dio il responsabile di questo!” È lui che costringe l’uomo a questo assurdo di vivere e desiderare di morire. Il problema è che il senso della vita dell’uomo, se questa è sofferenza, è però impostato come una domanda che viene fatta a Dio, perché è Dio il responsabile ultimo della vita dell’uomo e quindi è Dio anche il responsabile ultimo di questa sua sofferenza e di questo non-senso del vivere.

Qui si imposta la problematica del libro di Giobbe che va avanti con Giobbe che continua a interpellare Dio perché Dio risponda e mentre fa questo deve contemporaneamente combattere con Dio che non risponde e con gli amici che invece rispondono ma sarebbe meglio che non rispondessero. E Giobbe lo dice a un certo punto: “Meglio sarebbe che taceste!” Perché il discorso degli amici è un discorso menzognero e che Giobbe non può accettare, perché semplicemente è falso; e l’altro che dovrebbe rispondere invece tace… ed è Dio. E Giobbe va avanti così senza rinunciare!

E alla fine Dio dirà che Giobbe ha parlato bene, non gli amici. Gli amici nella loro ortodossia si mantengono fedeli ai vecchi discorsi, ma sono loro quelli che hanno parlato male; Giobbe che arriva al limite estremo dell’eterodossia, lui ha parlato bene, perché l’ha fatto cercando Dio. I discorsi che fa Giobbe sono ai limiti dell’accettazione delle orecchie di un credente, perché Giobbe accusa Dio di essere nemico dell’uomo, di essere un cacciatore, di essere un guardiano, che vive per stare a spiare l’uomo e coglierlo appena cade. Dio è sadico, è cattivo, fa nascere l’uomo per farlo morire. Dio dona all’uomo la vita per poi stargli appresso e non farlo neanche respirare, per poterlo finalmente uccidere! Non sono discorsi accettabili per un credente e invece sono i discorsi della fede che vengono proposti dal libro di Giobbe come il cammino della sapienza dell’uomo credente. Come dire: il cammino della sapienza non ha paura delle parole, ha paura della menzogna che è una cosa diversa. E, se per cercare la verità, si dicono anche parole che sembrano eccessive, che sembrano andare oltre, bene! Non sono le parole che uccidono l’uomo; è l’atteggiamento del cuore che lo uccide.

Giobbe non ha paura di dire che quello che sembra è che Dio sia cattivo e non ha paura di dirlo, perché continua a dire questo mentre chiede a Dio -e lo supplica- di rispondere per dire che invece lui è buono. Giobbe non accetta la realtà, non ha paura di chiamare le cose con il loro nome, ma continua a lottare perché non si rassegna a che le cose siano come sembrano; è questo che fa di Giobbe un uomo saggio che parla bene anche mentre dice cose che sembrano almeno sconcertanti, perché nel suo parlare continua a credere che solo in Dio c’è una risposta possibile e che quello che appare è quello che Giobbe è costretto a dire: però non può essere la verità ultima.

E Giobbe lotta perché Dio dica qual è la verità. Giobbe continua a rivolgersi a un Dio che deve chiamare cattivo, mentre continua disperatamente a credere, a sperare, a volere che sia un Dio buono; e cerca il confronto con Dio solo perché si fida di Dio. Giobbe non chiude il discorso dicendo: “Basta, Dio è cattivo! E allora vuoi sapere che ti dico? Tu ti fai gli affari tuoi, io mi faccio i miei, che è l’unico modo per sopravvivere”. Giobbe cerca il confronto con Dio e così facendo, mentre dice che Dio è cattivo, Giobbe dice che in realtà lui continua a credere che Dio è buono, perché se non fosse buono, non tenterebbe il confronto con lui. Se non fosse buono, non lo provocherebbe perché Dio si riveli; se non fosse buono fuggirebbe dalla presenza di Dio, non gli andrebbe incontro per costringerlo a parlare. E Giobbe si fida e lotta perché vuole che Dio si riveli per ciò che è e cioè per qualcuno che è diverso da ciò che appare, da ciò che la vita sembra dire.

Ecco la grande lotta di Giobbe che non fa come gli amici che usano la menzogna, ma che invece ama a tal punto la verità, desidera a tal punto la verità, essere pronto a giocare la propria vita, pronto a morire pur di arrivare alla verità. Giobbe non si accontenta di una menzogna che potrebbe salvarlo perché gli amici sono espliciti: dì che sei colpevole e tutto torna a posto! Se tu dici di essere colpevole, Dio ti perdona e tu ridiventi ricco, ti ritornano i figli, ristai bene! Giobbe non accetta la vita a prezzo della menzogna; preferisce la verità anche a prezzo della morte. C’è un capovolgimento radicale: non la vita a prezzo della menzogna, ma la verità anche a prezzo della vita e della morte. E così facendo Giobbe diventa il grande credente capace di credere al di là delle apparenze, capace di credere fino alla fine, capace di fidarsi al di là di ogni ragionevole speranza.

È lui il vero innocente che si mantiene giusto e innocente in tutta la sua lotta e in tutta la sua ricerca di Dio, perché non abbandona mai il desiderio di un rapporto con Dio secondo verità. Gli amici, invece, rispondono parole vane e Dio interverrà alla fine del libro per rispondere a Giobbe. Dopo che gli amici avranno detto le loro cose insensate ci si sarà resi conto che da quella parte non si va avanti, Giobbe prende la parola.

L’ultimo amico, di fatto, non parla; come a dire: ormai è inutile, si continua in eterno. Giobbe fa la propria proclamazione di innocenza e, dopo essersi definitivamente proclamato innocente, si dice pronto ad ascoltare Dio anche se questo gli può costare la vita. Prende il libro della propria innocenza e lo firma e a questo punto si avanza verso Dio. Giobbe che aveva detto che Dio è quello che bracca l’uomo, che gli conta i passi per farlo morire; Giobbe che a un certo punto dice a Dio: “Per favore, allontanati e fammi almeno respirare”; Giobbe che aveva sfidato Dio, dicendo: “Vieni a confronto, però patti chiari, il gioco deve essere pulito, senza intimidazione, perché tu sei potente e io no! E quando tu parli l’uomo deve tacere: che può fare?” Qualunque cosa dica Dio, l’uomo che può fare? Si mette contro Dio? Lo smentisce? Dice a Dio: no, tu hai torto? Se dice così a Dio, le tue stesse parole ti danno torto, perché tu ti credi più di Dio! Se tu dici a Dio: no, va bene, allora hai ragione, allora stai dicendo che tu hai torto. Da qualunque parte tu vada, sei perso.

dopo tutto questo Giobbe decide che vale la pena di morire per incontrarsi con questo Dio. E allora firma la sua innocenza e comincia a camminare, questa volta contando lui i passi che vanno verso Dio. Non è più Dio che gli sta a spiare i passi; è Giobbe ormai che ha deciso che vale la pena di morire e allora si mette lui con atteggiamento sovrano a contare proprio i passi che lo separano da Dio, forse che lo separano dalla morte. E prende il documento di accusa del nemico e lo usa come corona, diventa il suo diadema, è pronto ormai per incontrarsi con questo Dio, davanti al quale non si rassegna e che vuole riconoscere per ciò che è.

Quando questo avviene, allora Dio risponde. Dopo tanto parlare di Giobbe e tanto silenzio da parte di Dio, Giobbe ora ha finito le sue parole e la firma è l’ultima sua parola, adesso prende la parola Dio e finalmente risponde a Giobbe. E Dio parla, e invece che rispondere, comincia a domandare.

La risposta di Dio si presenta come una incredibile serie di domande che Dio stesso rivolge a Giobbe e per le quali non ci sono risposte. Giobbe domanda perché Dio risponda e quando finalmente Dio risponde, Dio domanda in modo tale che non ci possano essere risposte. L’intervento di Dio comincia al cap. 38 del libro di Giobbe:

E il Signore risponde a Giobbe di mezzo al turbine: “Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti? Cingiti i fianchi come un prode, io t’interrogherò e tu mi istruirai. Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la misura? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio? Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno, quando lo circondavo di nubi per veste e per fasce di caligine folta?” (Gb 38, 1-9).

Dunque, Dio finalmente parla e quello che uno si aspetti è che finalmente sveli a Giobbe il mistero di questa sofferenza, sveli a Giobbe il senso di ciò che sta avvenendo e invece Dio risponde lanciando una specie di sfida: “Allora facciamo così, adesso ti interrogo: tu, dimmi!” E questo lungo interrogatorio di Dio mette Giobbe con le spalle al muro, facendo domande a cui Giobbe non sa cosa replicare.

“Dov’eri tu quando io ponevo le fondamenta della terra?” E che può rispondere un uomo? “Sai tu come si fa a mettere la terra sulle sue fondamenta? Dove eri mentre io lo facevo?” Che può dire un uomo davanti a questo? Dio aiuta Giobbe a fare un suo cammino esperienziale di autocoscienza. Le domande di Dio non sono domande brutali che vogliono ridicolizzare Giobbe e schiacciarlo, anzi Dio si presenta con fare paterno e un po’ è come se prendesse per mano Giobbe come si prende per mano un bambino e lo portasse a visitare un mondo incantato.

Giobbe è un po’ il bambino portato per mano dal padre che va a vedere le meraviglie dello zoo, cose che non ha mai visto; e poi va a vedere il giardino comunale con gli alberi strani e scopre che ci sono cose nel mondo che lui non sapeva e che sono molto belle. Il mondo che Dio dispiega davanti agli occhi di Giobbe non è un mondo terrificante o un mondo che metta l’uomo in angoscia davanti a delle cose tanto grandi; è un mondo bello, fatato. L’impressione è un po’ quella di un’atmosfera magica, dove si rimane a occhi aperti dicendo: com’è bello!

E contemporaneamente, però, prendendo coscienza dentro di sé che queste cose così belle sono le cose di sempre, di ogni giorno, sono le cose del nostro mondo, a cui noi siamo abituati e che però, se ci pensiamo un momento, sono cose di cui noi non sappiamo assolutamente nulla. C’eravate voi quando la terra è stata fondata? La terra c’è; siete capaci voi di crearla? Sapete spiegare voi come fa a mantenersi su, sulle sue fondamenta? Eppure è il nostro mondo, ma di questo mondo non ne sappiamo niente.

Così Giobbe si trova confrontato con i segreti del cosmo per poter arrivare a capire la propria verità dentro questo cosmo. Giobbe viene portato fuori di sé a vedere il mondo esterno, ma per poter arrivare a prendere coscienza di sé, dentro di sé, per poter arrivare al proprio interno e riconciliarsi con la propria vita. Giobbe voleva capire Dio e quando sembra che Dio finalmente gli si sveli, gli mette davanti nuovi, insolubili problemi, proprio perché l’uomo possa capire che in realtà non può capire.

E questo è il cammino che Dio fa fare a Giobbe. Un cammino bello, sdrammatizzante; dopo la tremenda angoscia di Giobbe, qui adesso invece si entra in un’atmosfera finalmente bella, rilassante, dove tutto è incantevole. Voglio darvi un esempio perché vi rendiate conto di che tipo di mondo è quello che Dio presenta. Al cap. 38,28ss. si dice:

Ha forse un padre la pioggia? O chi è che mette al mondo le gocce della rugiada? Dal seno di chi è uscito il ghiaccio e la brina del cielo chi l’ha generata? Come pietra le acque induriscono e la faccia dell’abisso si raggela. Puoi tu annodare i legami delle Pleiadi o sciogliere i vincoli di Orione? Fai tu spuntare a suo tempo la stella del mattino o puoi guidare l’Orsa insieme con i suoi figli? Conosci tu le leggi del cielo o ne applichi tu le norme sulla terra?(Gb 38,28-33).

Quello che si vede è: guarda le stelle! Un mondo bello, come si dice in Genesi 1. Si guarda ciò che Dio fa e si dice: questo è buono, questo è bello! Si guarda il cielo stellato e questo è bello! Che è nostro! Non ci fa paura! Forse ci sgomenta per la sua grandezza, ma è bello, è alla nostra portata, fa parte del nostro mondo, lo vediamo tutte le notti. E Dio allora comincia: “Tu sei capace di prendere i fili d’argento delle stelle e di annodarli in modo che quando le costellazioni vanno in giro per il cielo le stelle rimangano tutte insieme e non si disperdano?” Questa è l’idea, l’immagine sottostante: i legami che vengono annodati. Come fanno le stelle di una costellazione a muoversi tutte insieme? Perché c’è qualcuno che ha preso i fili delle stelle, come dei fili d’argento, e li annoda e allora vanno tutti insieme! E l’Orsa maggiore che va in giro per il cielo; la stella grande è la mamma Orsa che si porta dietro i suoi piccoli… “Voi siete capaci, le sapete annodare le stelle? Siete voi che portate a spasso i piccoli dell’Orsa insieme alla mamma? Rispondi se lo sai?” Questo è ciò che Dio dice a Giobbe.

Noi siamo uomini a cui il mondo è stato donato e però in realtà di questo mondo non sappiamo assolutamente niente. E questo mondo è nostro, però non ci appartiene e soprattutto non siamo noi che lo abbiamo fatto, ma Dio. E questo mondo è bello, è buono; dunque anche Dio deve essere incredibilmente bello e buono per fare cose così belle, cose buone. Le domande di Dio servono ad aiutare Giobbe a prendere coscienza della propria piccolezza, della propria creaturalità e insieme della meraviglia del Dio buono che fa tutte le cose. Giobbe deve imparare ad accettarsi come creatura, Giobbe è costretto da Dio con bontà, con benevolenza a capire che è impossibile per l’uomo avere in mano i segreti dell’esistenza.

L’uomo è troppo piccolo, non è lui che fa le cose, l’uomo è stato fatto e dunque non ha la capacità di capire il segreto delle cose: non gli appartengono! Se l’uomo non può capire i segreti del mondo, se non è capace di riprodurre le stelle che si muovono insieme perché sono legate, quanto meno l’uomo potrà capire i segreti della sofferenza e della morte che non solo sono ancora più insondabili di un cielo stellato, ma sono enormemente più complicati perché c’è lì di mezzo la coscienza e la libertà umana. Se l’uomo non può far camminare delle stelle fisse quanto meno potrà capire il mistero della stessa realtà umana con le sue mille incognite e con i suoi mille componenti.

E allora se Giobbe non c’era quando Dio annodava le stelle, come può Giobbe pretendere di capire il mistero della morte? Se Giobbe non c’era quando la vita iniziava come può essere presente al mistero della vita che finisce? Questa è la vera domanda di Dio, questo è il cammino di autocoscienza che Dio fa fare a Giobbe. E allora ecco la domanda cruciale di Dio:

Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda! (Gb 40,2).

Giobbe ha preso coscienza di non poter sapere e allora adesso Dio fa la domanda cruciale: “Dunque, se tu sei questo, vuoi continuare ad essere l’accusatore di Dio? Avanti! Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? Vorrà ancora accusarlo?” La pretesa di Giobbe è insensata. Se l’uomo non può capire nulla, come può l’uomo pretendere di accusare il Dio che fa tutto. Giobbe che voleva una risposta da Dio, che cercava una giustificazione di quello che diceva essere assurdo, cioè la sofferenza e la morte, ebbene questo stesso Giobbe si ritrova invece a prendere coscienza che quello che è assurdo era proprio la sua pretesa di accusare Dio di fare cose assurde. Non è la morte che è assurda, è la pretesa dell’uomo che vuole che Dio giustifichi ciò che fa, questo è veramente assurdo, perché se l’uomo non può sapere nulla come fa a dire a Dio: “Che cosa fai?”

Il vaso di creta formato dalle mani del vasaio può dire al vasaio: “No, fermo! Guarda che mi stai facendo male?” La creatura può accusare il Creatore? E Giobbe capisce e allora risponde:

Ecco, sono ben meschino, che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò! Ho parlato due volte, ma non continuerò (Gb 40,4-5).

Giobbe capisce e tace. Non è la sconfitta di uno che dice: “Va bene, ho capito! Tanto tu hai sempre ragione!” No! È proprio la presa di coscienza di essere davanti ad un mistero. Mette la mano sulla bocca: questo non è tapparsi la bocca per tacere, questo è fare un gesto di rispetto che dice: “Io taccio, ma perché ho rispetto di te!” Perché ti riconosco come superiore a me e allora il mio silenzio non è il silenzio ammutolito, ma è il silenzio di chi riconosce di avere ormai tutto da imparare dall’altro e perciò si mette la mano sulla bocca e ascolta la verità. Solo che questa verità che gli viene detta è una verità che sembra accanirsi in qualche modo contro Giobbe, perché davanti a Giobbe che dice: “Basta! Ho parlato una volta! Basta! Ho parlato due volte! Per carità! Non continuo! Sono davanti al mistero!”, Dio riprende e va avanti con il suo discorso:

Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine e disse: “Cingiti i fianchi come un prode; io t’interrogherò e tu mi istruirai” (Gb 40,6-7).

Quel poveretto ha appena detto: “Io non voglio parlare più!” E Dio dice: “Io ti interrogherò e tu mi istruirai!” Qui sembrerebbe riaprirsi il problema nei termini iniziali:

Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto, per avere tu ragione? (Gb 40,8).

Cioè: per dimostrare che io sia colpevole e per poter risultare tu innocente? Questo era il vecchio problema degli amici e di Giobbe stesso: se Giobbe è innocente, vuol dire che è colpevole Dio; se Dio è innocente bisogna che sia colpevole Giobbe! Allora la domanda di Dio: Tu vuoi che io sia colpevole per poter essere tu innocente? Ma non è più questo il problema. E, infatti, Dio va avanti:

Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua? Ornati pure di maestà e di sublimità, rivestiti di splendore e di gloria; diffondi i furori della tua collera, mira ogni superbo e abbattilo, mira ogni superbo e umilialo, schiaccia i malvagi ovunque si trovino; nascondili nella polvere tutti insieme, rinchiudi le loro facce al buio; anch’io ti loderò, perché hai trionfato con la tua destra (Gb 40, 9-14).

Qui Dio arriva ad una ironia che svela il vero problema di Giobbe. Davanti a Giobbe che ha cominciato a capire di essere davanti al mistero e quindi dice: D’accordo, basta! Dio va avanti per portare Giobbe fino in fondo alla verità e lo fa proponendo a Giobbe di fare a cambio. La proposta di Dio è di fare lo scambio delle parti. Facciamo così: tu fai Dio e io faccio l’uomo! Facciamo che tu eri Dio e che io ero l’uomo. Dio che si alza dal trono e dice: “Siediti, adesso fallo tu Dio!” Il problema di Giobbe era il male e allora finalmente hai l’occasione: avanti, stendi il braccio; mostra la tua potenza e distruggilo il male. Annienta i malvagi, copri la superbia sotto la terra, distruggi ciò che è male, fai Dio come si deve! E allora io ti loderò, perché tu hai trionfato con la tua destra.

Ironicamente Dio pone l’eterno problema di sempre e cioè: che Dio è Dio e che l’uomo è l’uomo! E che il problema dell’uomo è che l’uomo vorrebbe essere Dio, ma questo è semplicemente folle. Il problema dell’uomo è che crede di poter fare Dio meglio di Dio stesso. Accusare Dio vuol dire pensare che Dio stia facendo male il suo mestiere di Dio. “Certo! Se dipendesse da me le cose andrebbero meglio! Se dipendesse da me – potete esserne certi – non ci sarebbe né il male né la morte. Dunque io, se dipendesse da me, il mondo lo saprei tirare avanti molto meglio di come è adesso e quindi molto meglio di come fa Dio. Lasciatemi fare Dio per un po’!”

E allora arriva Dio che dice all’uomo: “Avanti!” Questo è il problema dell’uomo! È sempre questo il problema dell’uomo! L’uomo che lancia le sue accuse e deve farlo perché è un modo con cui dice la sua angoscia! Deve farlo, ma per poter alla fine del suo grido riconciliarsi con la propria verità: che noi non siamo Dio e che dobbiamo fidarci di lui e lasciare che sia lui a fare Dio, perché lui sa più di noi, perché lui è Dio e noi siamo solo uomini. A questo Dio vuole portare Giobbe facendo fare a Giobbe esperienza di questo. Questo è molto bello!

Quando Dio pone i termini in questo modo, allora cambia anche lo scenario e il mondo non è più il mondo fatato, bellino, le stelle, la brina che viene dal Padre celeste. Adesso il mondo appare come un mondo pauroso, violento, compaiono i grandi mostri: l’ippopotamo, il coccodrillo. Compare il Leviatàn, il mostro tremendo. Compaiono questi mostri che terrorizzano l’uomo per aiutare Giobbe a capirsi per quello che è, sempre più piccolo! Non solo di quella piccolezza che non sa come fare a creare le stelle, ma anche di quella piccolezza che corre rischi mortali a confrontarsi con la natura. Se l’uomo si confronta con il Leviatàn, l’uomo muore! E allora mentre Giobbe deve prendere coscienza della propria creaturalità e non può pretendere di essere Dio, gli compaiono davanti i mostri della natura che accendano in lui il senso della sua creaturalità. Insieme sono mostri che Dio ha fatto e quindi con i quali Dio, a differenza dell’uomo, può anche giocare.

La leggenda giudaica dice che la giornata di Dio si svolge in quattro tempi: il primo quarto, le prime sei ore, Dio le passa seduto sul trono di giustizia, a fare giustizia nei confronti dei malvagi; la seconda parte della giornata la passa seduto sul trono di misericordia a fare misericordia per gli uomini e quindi anche per gli stessi uomini che ha giudicato; la terza parte della giornata la passa a dare il cibo ai viventi e l’ultimo quarto del giorno Dio gioca nel mare con il Leviatan. Come sta scritto nel salmo 104,26: Tu hai fatto il mare e il Leviatan per giocare con lui. Dunque Dio gioca con il Leviatan; e allora chi siamo noi che se ci incontriamo con il Leviatan moriamo dalla paura prima ancora di incontrarlo? E Dio invece passa le sue giornate a giocare con lui. Questa è la tremenda sproporzione tra noi e Dio!

E allora noi dobbiamo lottare con Dio per poter finalmente giungere a capire la sproporzione, per poter giungere a riconciliarci con la meraviglia di Dio e quindi anche con la nostra sofferenza e la nostra morte. E infatti le parole che Giobbe dice a Dio, al cap. 42, sono:

Ecco io comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te! Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Ascoltami e io parlerò, io ti interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,2-6).

Giobbe ha fatto esperienza di Dio e ha fatto esperienza di sé confrontandosi con le meraviglie del mondo. In Giobbe, come nella Sapienza, il mondo è tutto bello! Il mondo che viene dato all’uomo non è solo bello perché è bello, ma perché è segno di un’altra cosa che è molto più bella e che è l’amore di questo Dio bello che ci regala le cose belle. Quando si fa esperienza di questo come Giobbe, allora finalmente si può tacere, perché ora i nostri occhi finalmente vedono. E ciò che vedono non è una risposta al problema del male che rimane, ma si apre per l’uomo una nuova possibilità per entrare nel mistero del male; perché si può entrare nel mistero del male fidandosi di Dio e sapendo che Dio fa buone tutte le cose e che noi non possiamo conoscere il senso della nostra sofferenza e della nostra morte, ma è anch’essa segno di una bontà imperscrutabile di Dio.

L’esperienza è questa: non allora la ricerca di una risposta, ma un’esperienza che si fa di Dio come buono. Non serve neanche più che Dio risponda! Ha già risposto mostrandosi buono! E ci si riconcilia allora con il nostro posto nel mondo, si accetta Dio come Dio e ci si riconcilia con la nostra verità di uomini e allora tutte le cose riprendono il loro posto, riassumono la loro giusta misura.

Il problema tremendo di Giobbe era la morte. Cosa avviene quando Dio interviene? Che proprio la morte che era il grande problema di Giobbe diventa ciò che consente a Giobbe di riconciliarsi con Dio e con sé. Perché è la morte il luogo ultimo della differenza tra Dio e l’uomo. Al cap. 28 del libro di Giobbe c’è un lungo discorso sulla sapienza e c’è un lungo discorso sul fatto che è la morte il luogo dove Dio non entra perché la morte è ciò che compete all’uomo e non a Dio. Ebbene, sapete? Nella morte si trova la sapienza. Perché è la morte -e la sofferenza- ciò che rivela all’uomo di essere diverso da Dio e quindi è lì che veramente l’uomo può fare la sua ultima e definitiva esperienza di verità. E perciò è lì che ultimamente l’uomo può accettare perché ne fa esperienza, di essere diverso da Dio e perciò è lì che può finalmente accogliere Dio come portatore di un mistero che lui solo sa. E davanti a quello non ci possiamo mettere a contendere perché lui solo è Dio e noi siamo solo uomini mortali.

E allora è proprio la morte che è ciò che pone il tragico problema, proprio la morte che è la grande accusa che l’uomo fa a Dio, diventa proprio quella il grande luogo della riconciliazione tra Dio e l’uomo, perché diventa il luogo in cui l’uomo fa esperienza di verità, perché è quello il luogo in cui l’uomo deve definitivamente confessare la propria impotenza. Nella morte cade ogni illusione per l’uomo, diventa definitivo il fatto che l’uomo non può essere Dio e l’uomo confessa nella morte questa verità, confessa la propria impotenza e creaturalità e perciò confessa anche tutta l’accoglienza di un mistero che è più grande di lui.

E allora ciò che lo uccide, diventa ciò che lo fa vivere, perché diventa ciò che, consentendo all’uomo di fare esperienza di verità e di confessare la propria incapacità, consente all’uomo di aprirsi finalmente alla salvezza, di aprirsi finalmente lui, radicalmente impotente, alla radicale potenza di Dio che è capace di trasformare la morte in vita.

Ed è così che la grande domanda di Giobbe, proprio nella morte, trova la sua risposta, ma in modo definitivo, proprio e solo nella morte del Signore Gesù. È solo lì che la domanda di Giobbe si acquieta nell’entrata in un mistero che è veramente il mistero della salvezza che trasforma la morte in vita. Il grande problema di Giobbe lì manifesta la sua fecondità e ciò che uccide diventa ciò che salva.

Nel Figlio di Dio è tutta la nostra speranza della definitiva risposta di Dio, perché lì è la fine della morte; perché lì la morte viene definitivamente trasformata in luogo di vita, perché non è più la morte che uccide, ma è la morte dentro a cui, aprendosi alla salvezza di Dio, noi entriamo nella dimensione della vita definitiva. Perché non è la morte subìta che ci uccide, ma è la morte accolta che trasforma il nostro morire in un dono di vita. Noi non moriamo, perché diamo la vita. E non moriamo perché questo nostro morire che invece è dare la vita, ci fa entrare nella vita definitiva.

Ed è la vita definitiva che dice la parola decisiva sulla morte, anche perché è la vita definitiva che dice la parola definitiva su ogni colpa. Il grande problema di Giobbe è la morte, ma ciò che fa emergere la morte è il grande problema della colpa. Insomma, di chi è la colpa perché la morte esiste? Perché, se non è colpa di Giobbe, vuol dire che è colpa di Dio; se è colpa di Dio, vuol dire che non è colpa di Giobbe. E Dio dice: non è colpa di nessuno! È proprio necessario che io sia colpevole perché tu sia innocente? Ma a questo dilemma arriva la sua ultima risposta ancora una volta nella morte e nella risurrezione del Signore Gesù. Perché quella non è solo la fine della morte, ma quella è la fine di ogni colpa. Non c’è più il dilemma: innocente-colpevole! Non è colpevole il Signore Gesù che muore innocente! Ma non è colpevole neppure Dio di questa morte e non sono colpevoli neppure gli uomini perché la morte di Gesù si consuma sotto quella parola definitiva che dice: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!

Non c’è più colpa e perciò non c’è più morte! Nel Signore Gesù si consuma la definitiva vittoria sull’assurdo. Nel Signore Gesù la vita è una vita ridonata in pienezza; nel Signore Gesù si apre adesso all’uomo in modo definitivo una vita in cui la sofferenza e la morte vengono trasformate. E nell’attesa del momento in cui la vita sarà definitiva e la morte sarà definitivamente vinta e non ci sarà più né lutto, né lacrima, né fame, né sete… in quell’attesa il mistero del Signore Gesù che ci viene donato nella Pasqua ci consente fin da ora di entrare in una nuova vita, in una nuova dimensione della vita che ci permetta di entrare anche nella sofferenza e nella morte per trasformare questi da manifestazione dell’assurdo in luogo di senso.

Fin da ora noi possiamo vivere la nostra morte come vita, non più morendo, ma dando la vita per gli altri. Fin da ora noi possiamo vivere la nostra sofferenza non più come anticipazione assurda della morte nel nostro corpo e nella nostra anima, ma come luogo in cui si consuma la capacità dell’amore, di trasformare ciò che è male in bene, e di rendere questo definitivo non solo per noi, ma anche per gli altri. Si apre una vita capace di amare e di riassorbire definitivamente ogni sofferenza e perciò di entrare nella morte nella certezza di entrare così nella vita.

Giobbe ha posto il problema in tutta la sua crudezza, il mistero pasquale nel mistero risponde alla domanda di Giobbe aprendoci le dimensioni dell’eterno e della vita definitiva.